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Fiscalità: il fattore competitivo

Si è appena aperta una delle campagne elettorali tra le più disarmanti, mediocri e prive di contenuti reali da parte di una moltitudine di partiti i quali, invece di proporre soluzioni “sostenibili finanziariamente”, cercano con la loro comunicazione banale di suscitare l’interesse in elettori ormai demotivati e inclini all’estensione.
Eppure la realtà economica e politica presenta degli esempi che potrebbero rappresentare un argomento interessante di confronto per quanto riguarda le diverse strategie economiche proposte dai vari schieramenti.
Invece di parlare della solita manfrina dell’evasione fiscale o della affascinante ma per ora irrealizzabile flat tax (il cui ingresso nel sistema fiscale italiano dovrebbe essere successivo ad una manovra di revisione completa della spesa pubblica e non precedente) sarebbe interessante comprendere gli interessanti effetti della riforma fiscale della attuale amministrazione degli Stati Uniti. La riduzione della Corporate tax voluta dal presidente Trump, nonostante l’atteggiamento schizzinoso e superbo di molti economisti, anche europei, spiazzati completamente dai molteplici effetti di tale riforma fiscale, dovrebbe per questo motivo risultare al centro della discussione politica italiana. La Apple, per esempio, ha deciso di investire negli Stati Uniti creando un nuovo centro ed assumerà 20.000 nuovi addetti. Viceversa Wall Mart, nonostante la chiusura di circa 70 punti vendita diventati economicamente insostenibili a causa della concorrenza dell’e-commerce, ha deciso di aumentare la paga base a 11 $ all’ora e di distribuire 1000 dollari di bonus agli oltre 150.000 dipendenti. La stessa FcA sostenendo e facendo propria la filosofia del “reshoring produttivo” sostenuto nello specifico dalla riforma fiscale dell’amministrazione statunitense ha deciso di riportare la produzione dei Pick Up all’interno degli Stati Uniti e di investire oltre un miliardo di dollari e di distribuire un bonus di 2000 dollari ai propri dipendenti.
In altre parole, il semplice abbassamento dell’aliquota fiscale relativa ai profitti dell’azienda si è riverberata nella creazione di nuovi posti di lavoro e di nuovo benessere per i lavoratori con evidente miglioramenti del PIL nel breve medio e lungo termine. Dimostrando ancora una volta quella tesi, sostenuta da chi scrive ormai da troppi anni, in base alla quale per avviare una vera ricollocazione delle attività produttive (il reshoring produttivo utilizzato dal mondo della politica e dell’economia come un semplice argomento privo di contenuti se non sostenuto da attività normative e fiscali idonee) la leva fiscale unita a quella normativa rappresentano gli strumenti più efficaci. Quest’ultima poi permette la certificazione della filiera.
In questo senso allora tutti i documenti elaborati presentati dal Ministero dell’Economia e relativi allo sviluppo delle filiere anche attraverso l’integrazione digitale perdono ogni valore se il prodotto che ne scaturisce (sintesi unica di creatività ed innovazione tecnologica, quindi espressione culturale contemporanea) non trova una propria tutela normativa che lo ponga al riparo dalla concorrenza dei prodotti di paesi a basso costo di manodopera e soprattutto fornisca una garanzia ai consumatori che lo richiedono ormai in tutto il mondo globale.
Risulta inutile infatti parlare di industria 4.0 come di interconnessione digitale se poi il prodotto di questo ingegno non possa trovare una propria tutela normativa anche a tutela dei consumatori che sempre più richiedono prodotti espressione della filiera nazionale come espressione culturale e quindi valoriale.
In questo contesto infatti suscita veramente sorpresa il coro univoco di sostegno al progetto del Ministero dell’Economia che non prende in alcuna considerazione la tutela del prodotto, sia esso fisico o immateriale.
Ennesima testimonianza dello strabismo ormai diventata una patologia comune a tutti i commentatori ed economisti italiani.
In perfetta continuità poi in Italia non si riesce nemmeno a comprendere gli effetti virtuosi di politiche fiscali i cui effetti sono sotto gli occhi di qualsiasi attento osservatore. Si continua invece a parlare dell’abolizione di tasse più o meno antipatiche, come di reddito di inclusione o di cittadinanza, o di pensioni minime.
Il termine sviluppo economico e le scelte politiche, anche fiscali, attraverso le quali si possa incentivarlo risulta assolutamente al di fuori di questo triste e mediocre contesto elettorale.
All’interno di un mercato globale la fiscalità rappresenta un fattore competitivo che interviene attraverso la sua modulazione come un fattore che può aumentare il Roe di qualsiasi investimento ed incide profondamente nella sua valutazione, oltre a determinare un diverso calcolo della produttività del sistema economico nella sua articolata complessità. Escludere tale politica fiscale dalla discussione politica per inseguire disegni assolutamente insostenibili finanziariamente e soprattutto irrealizzabili rappresenta l’ulteriore conferma di un declino culturale della nostra classe politica e dirigente.

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