Attualità

Granitiche illusioni

Sembra incredibile come nessuno dei programmi presentati dai partiti alle prossime elezioni del  4 marzo tragga ispirazione dalle due maggiori economie mondiali come quelle statunitense e cinese.

Probabilmente sarà passata inosservata la scelta del governo cinese di limitare le operazioni finanziarie dei gruppi nazionali al di fuori dei confini della Repubblica Popolare, con l’intenzione dichiarata ed evidente di mantenere e sviluppare gli asset interni in modo di favorire lo sviluppo dell’economia nazionale. Questa strategia tradotta in termini, o meglio, in parametri economici significa favorire le operazioni che dimostrino una ricaduta occupazionale o possano diventare un fattore competitivo per le aziende cinesi che competono nel mercato globale.

Tra le righe emerge una posizione perlomeno dubbiosa riguardante il postulato del mercato assolutamente cara alla visione ultraliberista che vede automaticamente nel principio o nel postulato in base al quale tutto quanto fornisca reddito e dividendi agli azionisti un volano per lo  sviluppo economico generale. Paradossale in questo senso allora il giubilo della classe politica italiana quando i nostri asset risultano oggetto di acquisizioni, magari proprio da operatori cinesi, non comprendendo neppure il senso della perdita del controllo di questi importanti poli industriali logistici infrastrutturali ma anche immobiliari nella futura elaborazione delle strategie di sviluppo economico.

In più  l’Italia prima l’Europa adesso hanno intenzione di togliere i dazi per esempio sul riso asiatico ponendo in ulteriore difficoltà settore della risicoltura a causa della concorrenza sleale, espressione dell’ effetto del dumping fiscale, normativo e igienico sanitario di cui godono i paesi asiatici.

La sintesi di questi due aspetti, come la vendita di asset e l’apertura a prodotti espressione evidente di dumping,  è espressione della fede assoluta nella “filosofia o meglio dottrina economica” di matrice bocconiana – liberista che vede nella completa apertura dei mercati senza nessuna azione  compensativa ad equilibrare l’effetto dumping. Questa fede poi colpevolmente pone il trade come espressione massima della catena di creazione del valore quando invece risulta evidente come la filiera intesa nella sua articolata complessità di know how industriali e  professionali contribuisca in massima parte alla creazione del valore (anche culturale, come espressione della cultura contemporanea di una nazione). Viceversa, questa dottrina pseudo-liberista (che annulla i traguardi dello sviluppo economico, industriale e culturale occidentale) esprime un ulteriore limite quando indica nella ricerca di una maggiore produttività la chiave di lettura per compensare gli effetti devastanti del dumping sociale, normativo e retributivo.

Tornando al contesto elettorale italiano poi si inseriscono le varie riforme fiscali le quali da una parte prevedono un abbassamento del cuneo fiscale di un punto all’anno, una scelta i cui effetti risultano assolutamente marginali relativamente invece ad una riduzione, anche minima, del carico fiscale sulle imprese. La scelta invece della riduzione del cuneo fiscale conferma e sottende la volontà della classe politica di mantenere il proprio potere che viene esercitato essenzialmente attraverso la spesa pubblica finanziata dal carico fiscale il quale con questa riforma rimane invariato. Logica conseguenza infatti ci indica che ogni riduzione del carico fiscale automaticamente determina una riduzione della capacità di spesa e di conseguenza di centralità della politica all’interno del perimetro economico.

Se poi si aggiunge che parallelamente alla diminuzione di un punto di cuneo fiscale si obbliga l’azienda alla sottoscrizione di un fondo di compensazione per lavoratori disagiati del 0 5% si comprende chiaramente come questa cosiddetta riforma fiscale a favore delle PMI altro non rappresenta che il gioco delle tre carte che lascia sostanzialmente invariata la pressione fiscale.

Evidentemente anche  in questo caso la politica seguita dalla amministrazione statunitense, che ha ridotto decisamente la Corporate Tax con effetti benefici sia per gli azionisti che per l’economia reale – avendo aumentato i dividendi per azione ma contemporaneamente avendo avviato una nuova politica di  bonus elargiti dalle aziende anche con nuove assunzioni, frutto di nuovi piani di investimento liberati dalla riduzione fiscale statunitense – non viene presa in considerazione.

 

Viceversa il combinato tra flat tax e reintroduzione della lira con un disavanzo di oltre 68 miliardi che verrebbe coperto dall’ennesimo condono, questa volta fiscale (che la storia insegna come i risultati dei condoni siano sempre al di sotto delle aspettative) rappresenterebbe una miscela esplosiva in quanto il valore di una valuta viene stabilito in rapporto ai fondamentali economici del paese, alla stabilità economica, alla sua crescita unita alla gestione del debito e della spesa pubblica.

La stessa politica monetaria tanto invocata (il vecchio sogno della svalutazione competitiva che viene indicato come la soluzione di ogni problema di crescita)  per giustificare il ritorno alla lira non trae alcun insegnamento dai risultati eccezionali ottenuti dalla economia svizzera la quale, a fronte di una rivalutazione del franco svizzero (e divenuto valuta di rifugio, quindi con un conseguente apprezzamento) lasciato libero di fluttuare sul mercato della banca centrale di Berna, ha comunque permesso risultati in regola per il 2016/17 relativi all’export. A dimostrazione, ancora una volta, che la politica monetaria ha un influsso minimo rispetto invece al ruolo attribuibile alla sintesi felice di una buona amministrazione pubblica che opera in favore delle PMI.

In questo senso si ricorda sempre agli illustri economisti che mentre nel 2014 il debito pubblico cresceva ad un ritmo di  2100 euro al secondo, nel 2017 la crescita del debito pubblico risulta quasi raddoppiata, raggiungendo l’impressionante cifra di 4463 euro al secondo e portandosi ormai alla soglia dei 2300 miliardi di debito, ai quali ovviamente vanno aggiunti i 55 miliardi di deficit fuori bilancio che automaticamente fanno salire la somma, dal 2011, di 355 miliardi di nuovo debito.

Un mix di fattori assolutamente esplosivi che andrebbero ad incrementare il costo del debito immediatamente dopo l’entrata in vigore di tali riforme azzerando in sei mesi il valore di tutti quanti i risparmi posseduti in lire.

Una sintesi micidiale, anche in considerazione del fatto che dal 1996 al 2006 l’andamento dell’inflazione risulta in aumento del 40%  mentre la pressione fiscale dell’80%. Per cui, al di là della buona fede che deve essere assolutamente riconosciuta a tutti gli ideatori delle proposte di politiche economiche, rimane evidente che gli impatti di queste “strategie” non vengano considerati in un contesto internazionale nel quale i potenziali finanziatori del nostro nuovo debito chiederebbero sicuramente maggiori contropartite economiche in rapporto alla sottoscrizione del debito.  Anche perché comunque entro il 2018 sarà necessaria una manovra aggiuntiva di 30 miliardi di cui 18-20 per annullare l’aumento dell’Iva ed un’altra di circa 5 – 10 miliardi per far fronte alla crescita dei tassi di  interesse per sottoscrivere i titoli del nostro debito. Mai come ora le granitiche illusioni vendute dai programmi dei contendenti elettorali distolgono l’attenzione dalle vere problematiche relative al contesto internazionale nel quale il nostro paese si troverà ad operare qualsiasi sarà l’esito elettorale.

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