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Urso: uno Stato meno gravoso per ridare slancio all’Italia sui mercati globali

L’ex ministro del Commercio estero illustra i suoi propositi, quale candidato di FdI alle elezioni

Adolfo Urso si candida per FdI alle elezioni del 4 marzo e di seguito spiega quali sono i propositi che motivano la sua scelta di tornare in Parlamento.

On. Urso, dalla sua scelta di tornare in pista per il Senato con Fratelli d’Italia, in Veneto ed in Sicilia, dobbiamo dedurre che voglia tornare a occuparsi di commercio internazionale, di cui è già stato viceministro?

«Sì, anche se – a dire il vero – non ho mai smesso di occuparmi di questo settore determinante per l’economia e la produzione italiane. In questi cinque anni fuori dal Parlamento l’ho fatto in prima persona, da imprenditore che ha compreso ancora di più l’esigenza di uno Stato alleato con chi sceglie di portare l’Italia nel mondo. Con questa esperienza maturata anche su questo fronte spero di portare nella prossima legislatura le istanze e le soluzioni dei patrioti che in tutto il mondo lavorano per l’Italia».

Negli anni in cui non è stato parlamentare, lei si è occupato di impresa e di migliorare i rapporti commerciali tra l’Italia e altri Paesi, anche extra-Ue come l’Iran. Ritiene che il sistema Italia dia sufficienti supporti alle nostre imprese che vogliano lavorare all’estero e sufficienti garanzie alle imprese che vogliano lavorare in Italia?

«La sua è una domanda centrale nel mio discorso. Proprio nei giorni scorsi con la fondazione che dirigo, Farefuturo, ci siamo occupati anche di questo argomento. Il punto è proprio questo: senza una politica estera nel nome di un rinnovato protagonismo dell’Italia nello scacchiere internazionale chi fa impresa sarà lasciato da solo dinanzi a una competizione globale sostenuta dagli altri Stati. In Iran, per venire al suo esempio, come in Russia non è possibile – nel nome dell’interesse nazionale – accodarsi a campagne e a richieste, ad esempio le sanzioni, che lungi dal risolvere delicate questioni che andrebbero condotte per vie diplomatiche come risultato portano danni per chi ha scelto di investire in quei Paesi a tutto vantaggio dei competitor stranieri, molto più “realisti” dei nostri ultimi governi».

Quali eventuali proposte o accorgimenti pensa di fare nella prossima legislatura per sostenere le imprese italiane all’estero o quelle estere in Italia?

“Come dicevo prima, le nostre imprese nel mondo hanno bisogno di un rinnovato protagonismo dell’Italia nello scacchiere geopolitico: una presenza da riattivare come potenza regionale non sottomessa ad alcun registro che non siano l’interesse nazionale e il modello italiano che significa anche umanesimo del lavoro anche fuori dai confini. Per le imprese straniere in Italia, e che non intendono delocalizzare poi altrove, dovrà valere lo stesso “diritto” delle nostre: dobbiamo passare da uno Stato vessatorio ad uno Stato che supporta il reddito, il lavoro e le famiglie. La Corte dei Conti dice che per esplicare le questioni burocratiche un contribuente italiano spreca 269 ore ogni anno: il 55% in più dei contributori europei. Allo Stato finisce il 49% dello stipendio lavoratori: il 25% in più di quanto succede nel resto d’Europa. Davanti a questo uno dei 15 punti del programma di Fratelli d’Italia è dedicato proprio al sostegno e alla semplificazione per le imprese: la Flat Tax. Questa può essere applicata dal primo giorno di Governo sul reddito incrementale e dopo il primo anno lo faremo sul resto del reddito».

Una volta eletto pensa di abbandonare la sua attività professionale o di proseguirla?

«Proseguirò ovviamente anche nella attività lavorativa. Scelta, lo dico chiaramente, che dovrebbero fare tutti i miei colleghi per non perdere mai di vista le ragioni del mondo del lavoro. Questo, è altrettanto scontato, nell’interesse di tutti e dello sviluppo della Nazione. Elementi, entrambi, dei quali un rappresentante istituzionale non dovrebbe mai separarsi».

In questa legislatura al Parlamento europeo sono stati fatti alcuni piccoli passi avanti su etichettatura, difesa del consumatore e tutela dei produttori, ma il vecchio progetto della denominazione di origine per i prodotti extra-Ue, pur proposto alla Commissione e approvato a grandissima maggioranza dal PE, è stato poi affossato al Consiglio europeo per volontà della Germania e dei Paesi del Nord Europea. Ritiene che sarebbe giusto che anche l’Europa avesse le stesse norme dei suoi maggiori partner e competitor economici, quali India e Usa? Ritiene che un’eventuale governo di centrodestra, che all’epoca non fu particolarmente deciso nel difendere manifatturiero e consumatori da marchi illegali e prodotti contraffatti (salvo ovviamente il suo operato), tornerà a proporre in Europa la necessità di una disciplina del Made In?

«Di certo lo proporrà, perché lo ha proposto e denunciato in tutti i modi, Fratelli d’Italia. E io sono più che d’accordo. Il tema della difesa del “Made in” è fondamentale in quella revisione del nostro rapporto con l’Europa dalla quale non si può prescindere ma che deve tornare a rappresentare una casa dello sviluppo comune, non una gabbia. Sviluppo significa anche tutela della qualità, della produzione “etica”, che mette al centro la salute e i diritti sociali di chi lavora e di chi, da imprenditore, rispetta e investe su tutto ciò e per questo va sostenuto contro la concorrenza sleale».

Come si concilia, se si può conciliare, la libertà degli scambi, cioè la globalizzazione, con l’attrazione per Donald Trump e la linea protezionista da lui perseguita che pure serpeggia all’interno della coalizione di centrodestra?

«Donald Trump ha vinto e oggi governa perché non ha smarrito l’idea della “prossimità” che è un valore anche economico. La globalizzazione è una sfida che non si può ignorare ma dalla quale si deve uscire rafforzati non schiacciati. Per fare questo – e incentivare la sana competizione – è necessario sviluppare regole condivise e innalzare la qualità del welfare nei Paesi che intendono investire nel mercato comune. Quando salta questo principio l’operaio, il lavoratore autoctono si sentono depredati del patto stretto con il proprio Stato: a questi si è rivolto Trump e a questi ha promesso “America first”. La sua è una misura di emergenza, non è una soluzione strutturale: ma è politica con la P maiuscola. Attendiamo la fase due. I governi di centrosinistra italiani si sono fermati alla diagnosi, invece…».

In un’epoca in cui la politica viene interpretata come un gioco infantile, coi like grillini e i tweet trumpiani, lei come pensa di interagire con i cittadini in campagna elettorale ed una volta eventualmente eletto, tanto più su un argomento spesso molto tecnico come quello del commercio internazionale?

«Come ho sempre fatto: parlando a tutti e a tutti i livelli. Non sono un nativo digitale ma credo che la tecnologia abbia avvicinato le persone ai rappresentanti e viceversa: non sempre in maniera virtuosa e utile ma almeno la distanza è stata colmata. Allo stesso tempo non ho mai smesso di produrre contenuti e pensiero “lungo” assieme alla fondazione Farefuturo. Poi, le ha ragione, esiste il momento della decisione “tecnica”, a volte poco intellegibile al grande pubblico: ma, ne sono certo, se uno ha agito e spiegato sempre con chiarezza i propri passaggi, anche su un argomento di settore e strategico è possibile coinvolgere i cittadini. La salvezza dell’Italia deve tornare a essere un grande romanzo comunitario».

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