Attualità

Sarebbe responsabile la Germania dei nostri mali economici?

Un’analisi interessante dell’Istituto Molinari di Parigi

La crisi politica e istituzionale che sta attraversando l’Italia ha posto in primo piano l’accusa alla Germania di essere responsabile dei mali economici del resto d’Europa. La sua politica d’austerità non favorirebbe la crescita e porterebbe benefici soltanto al settore finanziario. Da qui le affermazioni accusatorie di Salvini e Di Maio: E’ la Germania a non volere il cambiamento che noi vogliamo effettuare per l’Europa – sottintendendo che la rigidità tedesca sui bilanci viene imposta perché conviene all’economia tedesca, senza tener conto delle esigenze degli altri Paesi.

Su questo argomento si è pronunciato recentemente l’Istituto economico Molinari di Parigi che già nel titolo del suo intervento si chiede se “l’egoismo economico della Germania sarebbe responsabile dei problemi incontrati da certi Paesi europei, dalla Francia in particolare”,  per rispondere subito che si tratta di un mito che si deve decifrare

E’ infatti una credenza diffusa che il rigore finanziario sarebbe esclusivamente tedesco, al contrario di quanto accade nel resto d’Europa. La cancelliera tedesca al potere da 13 anni sarebbe le degna ereditiera dei suoi predecessori ordo-liberali, difensori del principio dell’ortodossia finanziaria. La sua ricerca sfrenata dell’equilibrio di bilancio renderebbe complessi i dati, quando si tratta in particolare di sviluppare la costruzione europea. Questo modo di vedere rientra nel mito, che va chiarito e decifrato

Non esiste, innanzitutto, nessuna differenza teorica tra il corpus teorico tedesco e quello francese o italiano, in termini di spesa pubblica, siamo tutti adepti della teoria degli stabilizzatori automatici. I periodi di crisi devono permettere ai deficit anti-ciclici di svilupparsi, per favorire la ripresa economica. Inversamente, i periodi di calma sono messi a profitto per riequilibrare i conti. Da qui l’integrazione di un margine di manovra del 3% dei deficit pubblici nei criteri di Maastricht. Da qui, anche, l’integrazione nel trattato di una soglia di debito pubblico del 60% del PIL da non superare. Il debito, ipotecando i nostri margini di manovra e quelli delle generazioni future, è sempre considerato che deve restare sotto controllo. Queste regole comuni non cadono dal cielo. Non sono state imposte da nessuno e sono sempre state difese, anche se talvolta non praticate, dalla più alta amministrazione, oltre che da eccelsi economisti.

In secondo luogo, questo impegno comune è rispettato da una proporzione non indifferente di Paesi dell’Unione europea. C’è evidentemente la Germania che in 20 anni ha conosciuto 7 anni di eccedenze pubbliche. Ma complessivamente il suo debito è sotto controllo e oggi ammonta allo stesso livello di prima dell’ultima crisi economica. Situazione radicalmente diversa in Francia e in Italia. In Francia per i deficit annuali e in Italia per il debito pubblico che ha continuato ad aumentare. Non sono mancati poi politici e specialisti che invitavano la Germania a disfarsi di un feticismo perpetuo per le eccedenze, come se la Germania fosse la sola in Europa a praticare questa politica di rigore.

La realtà, invece, è ben diversa. Le ultime cifre mostrano che 12 altri Paesi arrivano a equilibrare i loro conti pubblici. Eccedenze notevoli si registrano, per esempio, in Svezia (+1,3%), nei Paesi Bassi (+1,1%) o in Danimarca (+!%). Passar sotto silenzio questa tendenza non aiuta certamente a fare la necessaria pedagogia sull’importanza del ritorno all’equilibrio di bilancio. I politici sono ambigui quando predicano la riduzione delle spese, senza farla mai, e nello stesso tempo il ritorno all’equilibrio dei conti.

Il terzo aspetto consiste nell’opportunità di non veicolare visioni economiche disgreganti e senza fondamento. Invitare la Germania a disfarsi delle sue eccedenze di bilancio e commerciali, per il motivo che esse sarebbero fatte a spese di altri Paesi, è un amalgama senza fondamento. Se le eccedenze commerciali degli uni sono i deficit commerciali di altri è una logica che non si applica alle finanze pubbliche. Non c’è nessuna ragione che le eccedenze pubbliche degli uni impediscano agli altri di equilibrare i loro conti. Questo sofisma, contro-produttivo rispetto al lavoro di pedagogia da fare, è anche inutile e disgregante rispetto a un Paese, la Germania, da cui noi anche dipendiamo per gli scambi commerciali interconnessi e per quelli legati al debito pubblico. I tedeschi detengono 24,06 miliardi  di titoli di Stato italiani, la Francia 44,27, il Regno Unito 12,05 e il piccolo Belgio 20,24, all’Italia ne rimangono 188,76. Anche noi approfittiamo dunque della ricchezza e del risparmio dei nostri vicini. Ed è normale che si interessino alle nostre vicende interne, suscettibili di poter provocare disastri finanziari. Anche loro ne subirebbero le conseguenze. Considerare i tedeschi degli aguzzini che ci impongono ristrettezze per trarne un esclusivo vantaggio ci sembra una visione parziale delle cose, per non dire che prendersela con la Germania perché noi non siamo capaci o non vogliamo fare ciò che sarebbe necessario per il bene del nostro Paese, ci sembra una scappatoia dialettica un po’ misera, troppo facile e avulsa da ogni senso di responsabilità. Le eccedenze tedesche non spiegano i nostri deficit pubblici. Il mito della Germania responsabile dei nostri mali va sfatato con convinzione, se non vogliamo farci del male con le nostre stesse mani.

Abbiamo dunque bisogno della fiducia e della comprensione degli acquirenti dei nostri titoli di Stato. Se la situazione non si migliorerà significativamente confermeremmo che la qualità del nostro debito si è deteriorata, con il rischio di sperimentare quanto è accaduto alla Grecia. Anche per questo ci sembra che le grida lanciate da Di Maio e Salvini contro il Presidente della Repubblica, colpevole di tener conto delle conseguenze che l’aumento del debito provocherebbero presso la Germania e presso gli altri detentori del nostro debito, siano frutto di irresponsabilità, se non di malafede o ignoranza. La favola di La Fontaine sulla cicala e la formica – conclude l’analisi dell’Istituto Molinari – descrive un rischio che non dovrebbe essere trascurato. Dipende solo dalla nostra intelligenza collettiva che resti soltanto una allegoria.

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