acciaio

  • A Dalmine acciaio a prova di Greta

    L’idrogeno verde diventa sempre più centrale nella decarbonizzazione di alcuni settori industriali e, in particolare, per produrre nel lungo periodo acciaio a zero emissioni. Con questo obiettivo, Snam, Tenaris e Edison hanno sottoscritto una lettera di intenti per introdurre l’idrogeno verde in alcuni processi produttivi dell’acciaieria a Dalmine (Bergamo). Si tratta della prima applicazione su scala industriale nel settore siderurgico in Italia.

    Le tre società collaboreranno per individuare e realizzare le soluzioni più adeguate per la produzione, la distribuzione e l’utilizzo dell’idrogeno nello stabilimento Tenaris di Dalmine, contribuendo a investire nelle migliori tecnologie disponibili. L’iniziativa rientra nell’ambito del progetto “Dalmine Zero Emissions”, avviato da Tenaris con Tenova e Techint engineering & construction, per integrare l’idrogeno nella produzione di acciaio da forno elettrico. Con questo progetto inizia un percorso di “transizione energetica dello stabilimento di Dalmine, ponendoci all’avanguardia della sostenibilità del settore siderurgico”, afferma Michele Della Briotta, presidente Tenaris Europa e amministrato delegato TenarisDalmine.

    Snam, Tenaris e Edison lavoreranno per creare le condizioni per generare idrogeno e ossigeno tramite un elettrolizzatore da circa 20 Mw da installare presso lo stabilimento di Dalmine. Il processo produttivo dell’impianto sarà poi adeguato all’utilizzo di idrogeno in sostituzione del gas naturale. L’accordo è un primo passo per poter raggiungere questo “importante obiettivo. Grazie alle sue tecnologie e alla sua infrastruttura, Snam si pone come uno degli abilitatori della filiera dell’idrogeno per contribuire alla lotta ai cambiamenti climatici e alla creazione di nuove occasioni di sviluppo”, sostiene Marco Alverà, amministratore delegato di Snam.

    E’ prevista anche la realizzazione di un sito di stoccaggio per l’accumulo di idrogeno ad alta pressione e l’utilizzo dell’ossigeno, prodotto localmente tramite elettrolisi, all’interno del processo fusione. “Con questa intesa Edison avvia un percorso di sostegno alla decarbonizzazione di settori industriali chiave per l’economia nazionale”, afferma Nicola Monti, amministratore delegato di Edison.

    Nei mesi scorsi Snam ha sottoscritto una serie di protocolli d’intesa per la diffusione dell’idrogeno, tra cui quello con Eni e Cdp. Nel settore dei trasporti, inoltre, ha avviato collaborazioni con Ferrovie Italiane e Alstom.

  • La Ue non può perdere l’acciaio

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su ItaliaOggi l’11 gennaio 2020.

    La crisi e l’irrisolta questione della franco-indiana ArcelorMittal (ex Ilva) di Taranto pongono al centro il futuro della politica industriale in Italia e in Europa. Oltre alle molto dolorose conseguenze occupazionali, sociali, politiche e legali.

    L’Unione europea è la prima produttrice al mondo di beni strumentari e di prodotti industriali. In molti settori è anche all’avanguardia dell’innovazione tecnologica. Una forza che si basa principalmente sull’iniziativa privata delle imprese di media dimensione, che rappresentano l’asse portante dell’economia. Una componente che finora ha potuto dialogare in modo produttivo con le restanti imprese di grandi dimensioni nei settori storici delle attività industriali che si sono grandemente sviluppate dopo la seconda guerra mondiale.

    Nonostante tutte le difficoltà, l’Italia è ancora il secondo paese manifatturiero d’Europa. Da noi, però, l’onda lunga partita nel 1992 con le mal fatte privatizzazioni delle partecipazioni statali sta travolgendo le grandi imprese industriali italiane. Si è assistito, quindi, alla progressiva perdita di controllo di Ilva, Fiat, Pirelli, Magneti-Marelli, ma anche di molte aziende simbolo del made in Italy, come quelle dell’alimentare, della meccanica e della moda. Lo stesso è successo anche nel sistema bancario italiano, già di per sé fragile in mezzo ai giganti bancari internazionali too big to fail.

    In quest’ottica, l’industria dell’acciaio è emblematica. Per un lungo periodo ha avuto un’importanza strategica nell’economia europea e italiana e ha promosso innovazione, crescita e occupazione. La crisi economica, figlia dello sconquasso finanziario globale del 2008, ha determinato un crollo nelle produzioni e nei commerci mondiali che hanno colpito tutti i settori economici, in primis quello dell’acciaio. Come è noto, esso è strutturalmente legato ai settori dell’auto, delle costruzioni, dell’elettronica e delle industrie rinnovabili. In questo periodo la siderurgia europea ha perso il 27% della produzione e oltre 40 mila posti di lavoro. Tanto che persino la Commissione europea ha dovuto impegnarsi con specifici programmi di rilancio.

    Oggi l’Europa, con 168 milioni di tonnellate annue, è ancora la seconda produttrice di acciaio, pari al 10% del totale mondiale. La Cina, però, produce più della metà di tutto l’acciaio! In Europa il settore rappresenta l’1,3% del pil. Nell’insieme dà lavoro a quasi 2,5 milioni di persone. Direttamente a circa 330 mila. È un settore ad alta intensità di capitale che investe ogni anno circa 4 miliardi di euro in macchinari più moderni. Nei costi di produzione dell’acciaio la parte relativa all’energia rappresenta il 40%. E l’industria europea, purtroppo, paga prezzi per l’energia più alti dei suoi concorrenti. È un problema che il governo dovrebbe affrontare perché riguarda l’intero comparto industriale nazionale.

    In Italia l’industria siderurgica, con circa 33 mila occupati, rappresenta il 2% dell’occupazione manifatturiera. L’80% della produzione avviene già con il sistema a forno elettrico, che è molto meno inquinante rispetto a quello a ciclo continuo con altoforno. L’ex Ilva di Taranto è il più grande impianto a ciclo continuo d’Europa, produce 4,5 milioni di tonnellate annue e occupa 8.200 persone, con un indotto molto vasto. Il nuovo piano industriale deve essere una transizione verso la de carbonizzazione. La grande sfida è di mettere in campo riconversioni verso forni a idrogeno. La sostenibilità ambientale e la difesa della salute non possono in nessun modo essere messe in secondo piano.

    La crisi del settore a livello mondiale sarebbe dovuta a una sovrapproduzione rispetto alla situazione di stagnazione economica generalizzata.

    Detto ciò, però, la Cina, aumentando costantemente la sua produzione a prezzi più bassi, inevitabilmente mette in difficoltà i produttori europei. L’Europa, quindi, rischia di diventare dipendente dalle forniture estere di un materiale fondamentale per la sua economia. Senza considerare le garanzie e la qualità del prodotto importato. Di conseguenza, i produttori europei sono in crisi e molti hanno deciso di tagliare produzione e occupazione. Anche le loro azioni sono in caduta nelle borse. Secondo noi, l’Organizzazione mondiale del commercio non può essere indifferente nel gestire la qualità dei prodotti commerciati.

    Per esempio, la British Steel, in bancarotta, è stata acquistata da un’impresa cinese. Altre acciaierie, se dovessero chiudere, rischiano di essere smantellate e trasportate in Cina, in India o in altri paesi, dove i controlli di qualità, il rispetto della salute e dell’ambiente e i diritti sindacali e civili sono spesso lacunosi. Questa è stata anche la strada dissestata delle localizzazioni, già sperimentata dagli stessi Stati Uniti alla ricerca di costi più bassi. Il risultato per Washington sono stati deficit nei commerci di beni (senza i servizi) per centinaia di miliardi di dollari. Nel 2018 il deficit è stato di quasi 900 miliardi!

    Se alcuni settori industriali e altre infrastrutture sono considerati strategici, allora è necessario che restino attivi e sotto il controllo nazionale ed europeo. Non si tratta di ritornare a un passato in cui si producevano i panettoni di stato ma, se fosse necessario, e non vi fossero imprenditori all’altezza, la partecipazione pubblica non solo è auspicabile ma inevitabile. Non scordiamoci mai che l’Italia e l’Europa dovranno confrontarsi con la potenza economica cinese la cui gestione è notevolmente politica e statale. Per non parlare degli Stati Uniti che, al di là della retorica neoliberista, hanno una fortissima presenza statale nei settori considerati di interesse nazionale. Basti pensare che il solo bilancio militare del 2019 è di oltre 700 miliardi di dollari.

    In Europa, la Francia e la Germania non sono mai arrossite quando lo stato è intervenuto come azionista stabile nei settori privati. Anche noi, come fanno le loro banche d’investimento, dovremmo mettere in campo la Cassa depositi e prestiti ogni qualvolta si reputi indispensabile difendere i livelli di produzione e di occupazione. Ovviamente in una logica di investimento produttivo e non di dissipazione com’è spesso avvenuto in passato (vedi Alitalia). Intanto il nostro paese, la partita Ilva non la può perdere.

    * già sottosegretario dell’economia ** economista

  • Gli Stati Uniti ripristinano i dazi sui prodotti siderurgici provenienti da Argentina e Brasile

    Il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha dichiarato via twitter che è intenzionato a ripristinare i dazi sull’acciaio e sull’alluminio provenienti dal Brasile e dall’Argentina perché i due Paesi indebolendo le loro valute hanno colpito di conseguenza gli agricoltori americani. Entrambi i paesi, dopo aver accettato le quote, l’anno scorso sono stati esentati da tariffe su acciaio e alluminio, proprio quando Trump stava cercando di evitare una guerra commerciale con loro.

    Se il governo brasiliano ha fatto sapere di essere già in trattativa con Washington, il ministro della produzione argentino ha definito l’annuncio di Trump “inaspettato” e ha detto che avrebbe provato ad avviare dei colloqui con i funzionari statunitensi.

    Trump ha anche esortato la Banca Centrale americana a impedire ad altri paesi di svalutare le proprie valute, spiegando che tale manovra rende molto difficile per i produttori e gli agricoltori americani “esportare equamente le loro merci”.

  • Sull’acciaio Trump fa scuola alla Ue

    La Commissione europea ha pubblicato un regolamento che istituisce misure di salvaguardia provvisorie sulle importazioni di prodotti di acciaio, che riguarderanno la diversione dell’acciaio da altri Paesi verso il mercato dell’Ue a seguito dei dazi recentemente imposti dagli Stati Uniti. Le misure di salvaguardia, che non interessano le importazioni tradizionali di prodotti di acciaio, sono entrate in vigore il 19 luglio.

    La Commissaria per il Commercio Cecilia Malmström ha dichiarato: «I dazi statunitensi sui prodotti di acciaio sono all’origine della deviazione degli scambi, che può danneggiare gravemente i produttori siderurgici dell’Ue e i lavoratori del settore. Non abbiamo altra scelta se non istituire misure di salvaguardia provvisorie per proteggere l’industria dell’Ue dall’aumento delle importazioni. Misure che tuttavia garantiscono che il mercato dell’Ue rimanga aperto e che manterranno i flussi commerciali tradizionali. Sono convinta che assicurino il giusto equilibrio tra gli interessi dei produttori dell’Ue e quelli degli utilizzatori dell’acciaio, come l’industria automobilistica e il settore edilizio, che dipendono dalle importazioni. Continueremo a monitorare le importazioni di acciaio al fine di prendere una decisione definitiva entro l’inizio del prossimo anno».

    Le misure provvisorie riguardano 23 categorie di prodotti di acciaio e sono istituite sotto forma di contingente tariffario. Le tariffe del 25% saranno applicate solo quando le importazioni supereranno la media delle importazioni degli ultimi tre anni. In linea con le regole dell’Organizzazione mondiale del commercio, le misure riguardano le importazioni da tutti i paesi. Sono previste deroghe per alcuni paesi in via di sviluppo e per i paesi dello Spazio economico europeo: Norvegia, Islanda e Liechtenstein. Le misure provvisorie possono rimanere in vigore per un massimo di 200 giorni. A seguito di ulteriori indagini, che continueranno fino alla fine del 2018, potranno essere istituite misure di salvaguardia definitive.

  • La guerra dei dazi: il doppiopesismo europeo

    Nel 2017 gli Stati Uniti hanno presentato un saldo commerciale negativo per oltre 566 miliardi di dollari, di questi 375 miliardi solo con l’economia cinese. Al di là delle ragioni storiche legate soprattutto alla politica di delocalizzazione produttiva seguita in modo cieco e miope fin dagli anni settanta da tutte le amministrazioni precedenti a quella di Trump, risulta evidente che tale asset  economico statunitense non sia più sopportabile per l’amministrazione americana. Una delle strategie  adottate già all’inizio del 2017 venne individuata anche nelle politiche attive a sostegno di un incremento delle esportazioni. In questo contesto l’Unione Europea decise, sempre nel 2017, di bloccare le importazioni di carne statunitense. Tale blocco (al di là delle polemiche relative all’utilizzo di estrogeni o steroidi negli allevamenti americani) di fatto contraddice in modo evidente la politica tanto dichiarata di apertura dei mercati come dei flussi commerciali e finanziari da parte dell’intera classe dirigente ed economica europea.

    In quell’occasione Trump promise, o meglio minacciò, di introdurre dei dazi a seguito dell’impossibilità di esportare la propria carne all’interno dei mercati europei attraverso l’adozione di dazi ed in particolare per l’acqua minerale francese Perrier e l’italiana Vespa. In quel contesto Colaninno, patron della Piaggio, fece spallucce indicando  nella possibilità di esportare negli Stati Uniti la Vespa direttamente dal proprio stabilimento del Vietnam aggirando in questo modo i dazi imposti ai prodotti europei. A tal proposito è opportuno ricordare come lo stabilimento della Piaggio in Vietnam sia costato l’eliminazione dei dazi sul riso basmati vietnamita decisa dal governo Renzi nel 2015 per rendere possibile l’investimento in Vietnam. Un modo politico del governo in carica che ha fatto pagare all’eccellenza della risicoltura italiana un investimento di un privato imprenditore in terre straniere.

    Successivamente Trump, sempre per seguendo la politica di un riequilibrio dei flussi commerciali, all’inizio 2018 ha annunciato la possibilità di introdurre dei dati per l’alluminio cinese. In questo caso abbiamo assistito ad  un levare di scudi da parte del mondo accademico europeo come delle stesse massime autorità politiche dell’Unione e dei grandissimi economisti italiani i quali hanno visto in questa decisione un ulteriore attacco al mercato libero ed una esplicita applicazione della filosofia della nuova amministrazione americana definita con “American First”.

    Immediatamente è stata avanzata l’ipotesi, con l’appoggio di tutto il sistema dei media e di tutti i giornali italiani e internazionali, di  adottare dei dazi i Levi’s o le moto Harley-Davidson come contromossa politica ed economica. Una reazione scomposta anche perché successiva

    all’introduzione di un dazio relativo ad un prodotto cinese che non ha nulla a che fare con l’economia europea. Tale reazione assolutamente fuori luogo dimostra essenzialmente l’incapacità di leggere l’economia globale come indicatrice di un delirio e di un declino culturale che investe la classe dirigente europea ed italiana in particolare.

    Il sistema industriale cinese, in particolare quello dell’alluminio come dell’acciaio, sta vivendo un prolungato periodo contrassegnato da una sovracapacità produttiva legata a un rallentamento del mercato interno cinese e alla lunga crisi internazionale. Questa sovracapacità produttiva all’interno di un’economia avanzata come quella europea o statunitense porterebbe ad una politica di riconversione industriale e chiusura dei centri produttivi obsoleti e non più strategici come viene spesso indicato per quel che riguarda la sovracapacità produttiva nel mondo automobilistico.

    Viceversa, l’economia cinese ha deciso di inondare il mercato occidentale con dei prodotti assolutamente sottocosto, quindi espressione di un dumping, con l’obiettivo esclusivo di assicurarsi i volumi che permettono il raggiungimento del break even point degli impianti cinesi.

    In altre parole, la propria sovracapacità produttiva cinese invece di essere oggetto di una riconversione industriale all’interno del mercato cinese viene scaricata e così fatta  pagare ai lavoratori delle imprese dell’alluminio e dell’acciaio i quali si vedono spiazzati da  questa concorrenza sleale da parte di una economia che scarica le proprie inefficienze sui mercati mondiali.

     

    La scelta dell’amministrazione statunitense risulta quindi assolutamente giustificata in quanto non possono risultare le aziende ed i lavoratori statunitensi a pagare la sovracapacità produttiva cinese.

    Tornando invece alla scomposta reazione europea le considerazioni conseguenti non possono che essere tristi ed amare e riguardano due aspetti sempre di questa reazione ridicola.

    La prima riguarda essenzialmente la miopia della stessa Unione la quale ad un’azione finalizzata alla tutela del lavoro statunitense nei confronti di una economia terza (cinese) si inserisce senza neppure risultare coinvolta, minacciando per di più l’introduzione di dazi sui prodotti finiti. Un’azione che penalizzerebbe l’intera filiera produttiva in quanto adottata a valle della stessa e che coinvolgerebbe tutto un sistema industriale che partecipa alla realizzazione di un prodotto complesso, come ormai risultano essere tutte le diverse tipologie di beni di consumo, arrecando perciò un danno economico diffuso ad un sistema industriale e non più ad un singolo settore.

    Infine, sempre in relazione all’attività dell’Unione europea, l’ultima considerazione risulta  sicuramente quella più grave e che ridicolizza la stessa posizione europea, dimostrandone l’assoluto doppiopesismo.

    Risulta sufficiente ricordare infatti come solo cinque (5) mesi fa l’Unione Europea abbia introdotto dei dazi dal 29,2 al 54,9% sull’acciaio cinese per gli stessi motivi che hanno spinto, o meglio stanno spingendo, l’amministrazione americana all’introduzione di dazi sull’alluminio cinese. Quella decisione nell’ottobre 2017 non suscitò alcuna reazione da parte di quei dotti economisti, come dei giornalisti economici o del mondo accademico a tutela dei principi del libero mercato, come invece si registra attualmente in occasione della scelta di Trump. Un comportamento assolutamente ambiguo che coinvolge l’intera classe dirigente politica ed economica europea ed evidenzia ancora una volta come la disonestà intellettuale alberghi tanto all’interno della Unione Europea quanto nella mente di accademici che non ricordano quanto successo solo cinque mesi addietro.

    Dazi e principi economici non possono venire  utilizzati a proprio uso e consumo e soprattutto per assecondare comportamenti e convenienze politiche. Tutto questo dimostra una disonestà intellettuale, libera espressione di un declino culturale ormai inarrestabile.

  • Trump fa scuola: la Ue rende definitivi i dazi sull’acciaio cinese

    La Commissione europea ha imposto dazi anti-dumping definitivi sull’acciaio anticorrosione originario della Cina dopo aver appurato che i produttori cinesi praticavano il dumping del prodotto sul mercato dell’Ue (conclusione che aveva già portato all’imposizione di dazi provvisori ad agosto 2017). I dazi che saranno applicati nei prossimi 5 anni variano dal 17,2% al 27,9%.

    L’acciaio anticorrosione è utilizzato principalmente nell’industria edilizia, per l’ingegneria meccanica, nella produzione di tubi saldati e nella fabbricazione di elettrodomestici. Il valore del mercato dell’Ue di questo prodotto è stimato in 4,6 miliardi di euro e la quota di prodotto originario della Cina è del 20%.

    Le misure adottate contrastano la pressione al ribasso sui prezzi di vendita, fonte di problemi finanziari per i produttori dell’Ue basati principalmente in Belgio, Francia, Polonia e Paesi Bassi. L’industria siderurgica è fondamentale per l’economia dell’Unione, occupa una posizione centrale nelle catene globali del valore e impiega centinaia di migliaia di cittadini europei. Negli ultimi anni l’eccedenza di capacità produttiva di acciaio a livello mondiale ha fatto calare i prezzi a livelli insostenibili, con ripercussioni dannose sul settore, sulle industrie collegate e sull’occupazione. L’Ue sta quindi sfruttando tutte le potenzialità dei suoi strumenti di difesa commerciale per garantire ai suoi produttori condizioni di parità e la capacità di mantenere posti di lavoro nel settore.

    Attualmente sono in vigore 53 misure sui prodotti siderurgici, di cui 27 su quelli originari della Cina. A marzo 2016 la Commissione ha pubblicato una comunicazione che illustrava le misure a sostegno della competitività dell’industria siderurgica dell’UE; un maggiore utilizzo degli strumenti di difesa commerciale era uno dei pilastri della strategia. La Commissione ha anche partecipato al Forum mondiale sull’eccesso di capacità produttiva di acciaio, che nel novembre scorso ha approvato un ambizioso pacchetto di soluzioni strategiche concrete per affrontare la pressante questione dell’eccesso di capacità produttiva globale del settore. Il regolamento è disponibile nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea.

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