debito

  • Esplode la bomba del debito usa e globale

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su notiziegeopolitiche.net del 16 marzo 2024

    Le vicende finanziarie dovrebbero essere valutate per quello che sottendono, a volte situazioni negative. Attualmente sono gli Usa che preoccupano perché dal giugno 2023 ogni cento giorni il debito pubblico aumenta di ben mille miliardi di dollari. I dati sono eloquenti. Anzitutto va rimarcato che in dieci anni, dal 2014 a oggi, il debito americano è raddoppiato, passando da 17.000 miliardi all’attuale cifra di 34.500 miliardi. Molti ritengono che il modello “mille miliardi ogni 100 giorni” continuerà in futuro.
    Il Congressional Budget Office, l’organismo indipendente che produce analisi economiche per il Congresso, stima che il deficit di bilancio annuale passerà da 1.600 miliardi di quest’anno a 2.600 miliardi del 2034. In altre parole, nel prossimo decennio gli Stati Uniti aggiungeranno quasi 19.000 miliardi di dollari all’attuale debito pubblico fino a un totale di 54.000 miliardi.
    Nello stesso decennio soltanto per gli interessi gli Usa spenderanno più di 12.400 miliardi. Perciò si stima che la quota per il pagamento degli interessi sul debito potrebbe superare le altre voci di bilancio, comprese le spese per la difesa. Si tenga presente che le proiezioni sono fatte stimando che il tasso d’interesse dovrebbe scendere sotto il 3% dall’attuale 5,5%.
    Questa è la realtà nascosta, volutamente ignorata per dar spazio soltanto all’esaltazione dei dati positivi relativi alle aspettative dell’aumento del pil e dell’occupazione.
    L’Institute of international finance, l’associazione delle maggiori istituzioni finanziarie del pianeta con sede a Washington, afferma che nel 2023 la “bolla globale” del debito, quello pubblico, delle imprese e delle famiglie, con l’eccezione dei derivati finanziari, sarebbe aumentata di circa 15.000 miliardi di dollari portando il debito globale al livello di 310.000 miliardi! Un decennio fa era di 210.000 miliardi. Si tratta di un pericoloso trend mondiale.
    Non si tratta di un malessere ma di una febbre da cavallo le cui cause risiedono in decenni di politiche finanziarie errate. Gli effetti si manifestano di volta in volta in modi differenti o in settori diversi ma sono sempre il frutto avvelenato di una finanza speculativa che inquina tutti i settori dell’economia. Lo abbiamo visto nella grande crisi del 2008-9, mai affrontata veramente, nelle bancarotte bancarie, nella liquidità a “go go” dei quantitative easing, nelle politiche della Federal Reserve del tasso di interesse zero prima e dell’impennata dei tassi poi per rincorrere l‘inflazione.
    In questo quadro è stupefacente osservare che, mentre il debito e la liquidità crescono, hanno raggiunto i massimi storici anche l’oro, il bitcoin e Wall Street. L’oro ha superato i 2.000 dollari l’oncia, il bitcoin, la criptovaluta più conosciuta, è ritornato a valori impensabili, appena sotto i 70.000 dollari, con un aumento del 200% in 12 mesi, e S&P 500, il più importante indice azionario della borsa di Wall Street, ha sfondato ampiamente il punto massimo storico di 5.000 punti. Ovunque si guardi, i mercati azionari stanno battendo i record: l’indice europeo azionario STOXX 600 ha stabilito il proprio record intorno ai 500 punti e il Nikkei 225 giapponese ha superato il suo migliore valore precedente, fissato nel 1989.
    Questa euforia è provocata in particolare dall’effervescenza dei titoli legati alle imprese dell’intelligenza artificiale. Per esempio, il produttore di chip AI Nvidia ha registrato l’incredibile crescita dei ricavi del 265% nel quarto trimestre 2024, facendo salire più del 60% il prezzo delle sue azioni da inizio anno. In verità occorre cautela perché di troppa euforia si può morire! D’altronde è già successo negli anni novanta con la bolla dei titoli IT, information technology, che, dopo avere drogato il mercato di Wall Street portandolo in un paradiso artificiale, nei primi anni del 2000 un crac, noto come dot-com crash, lo fece sprofondare nei più bassi gironi dell’inferno.
    Molti negli Usa, a fronte dell’insostenibilità del debito propongono la riduzione dei deficit di bilancio, che significa tagli alla spesa pubblica. Sarebbe un giro di vite sul welfare, sulle spese sanitarie, sull’istruzione, sui trasporti, ecc., che andrebbe a colpire i livelli di vita della popolazione più povera e della cosiddetta middle class già depauperata. A Washington si stima che le entrate, che ammontano al 17,5% del Pil nel 2024, scenderanno al 17,1% nel 2025, per poi rimanere sotto il 18% fino al 2027.
    In sintesi di tutto si parla, tranne che mettere mano alla finanza dominante sfuggita ai controlli con il rischio che possa riverberare i suoi effetti negativi in tutto il mondo. Questa è una ragione di più per chiedere al G7 e al G20 di affrontare lo spinoso problema.

    Mario Lettieri, già sottosegretario all’Economia; Paolo Raimondi, economista

  • L’Anaao batte cassa per la sanità pubblica

    Il Servizio sanitario nazionale più che curare va curato, secondo quanto lamenta l’Anaao Assomed, il sindacato più rappresentativo di medici e dirigenti del Ssn.

    Sulla base di una ricerca condotta a giugno 2023, il sindacato avverte che la sanità pubblica è l’unico modo per evitare che un ricovero possa costare da 422 a 1.278 euro al giorno, come succederebbe se si ricorresse alla sanità privata. Senza strutture pubbliche, la sala operatoria – proseguente il sindacato fornendo altri esempi – costerebbe 1.200 euro l’ora, la degenza 600 euro al giorno in un reparto chirurgico e 400 euro al giorno in un reparto di medicina, un ricovero ordinario post acuzie 165 euro al giorno.

    Sulla base di questi dati, il sindaco batte cassa, lamentando che il finanziamento della sanità pubblica italiana patisce una carenza significativa di risorse. Secondo il 18° Rapporto del Crea Sanità, uscito a gennaio 2023, per raggiungere un’incidenza media sul Pil simile agli altri paesi dell’Unione Europea, sarebbero necessari almeno 50 miliardi di euro aggiuntivi (al minimo). Attualmente, la spesa sanitaria del nostro Paese presenta una forbice del -38% circa rispetto agli altri paesi della Ue, con una diminuzione sia della spesa privata (-12%) che della spesa pubblica (-44%) nel 2021. Tuttavia, tale calcolo è sottostimato. Dal 2000 al 2021, la spesa sanitaria in Italia è cresciuta con un tasso medio annuo del 2,8%, circa il 50% in meno rispetto agli altri Paesi della Ue di riferimento. Inoltre, anche durante la pandemia, la crescita della spesa è stata meno dinamica rispetto agli altri paesi.

    Secondo il Rapporto, nel 2021 il finanziamento pubblico si ferma al 75,6% della spesa contro una media europea dell’82,9%. La spesa privata ha raggiunto 41 miliardi di euro (il 2,3% del PIL, contro una media europea del 2%): oltre 1.700 euro a nucleo familiare (5,7% dei consumi).

    D’altronde, la sanità pubblica è tutt’altro che sana, sotto il profilo della gestione dei conti, come ampiamente evidenziato dalla Corte dei conti nel suo ultimo rapporto di maggio sul coordinamento della finanza pubblica.

  • Usa, debito pubblico eccessivo

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su ‘ItaliaOggi’ l’11 marzo 2023

    Il debito federale americano di 31.381 miliardi di dollari è il limite posto nel bilancio dello Stato per l’anno fiscale che va da ottobre 2022 a settembre 2023. Il tetto è stato già raggiunto il 19 gennaio scorso. Vi saranno problemi per coprire le spese dei prossimi mesi.

    Janet Yellen, segretario del Tesoro, in merito ha annunciato «manovre tecniche» per posporre il default, che «produrrebbe una catastrofe economica e finanziaria». Per evitare la sospensione delle attività e dei pagamenti da parte di vari organismi pubblici si dovrà per forza sfondare il tetto del debito. Non sarà facile, data la composizione del Congresso, con la Camera dei deputati a maggioranza repubblicana.

    In tre anni il debito federale succitato è aumentato di ben 8.500 miliardi! Dal 2009 è quasi triplicato! Il Congress Budget Office, l’agenzia bipartisan che analizza gli andamenti di bilancio, stima che il deficit sarà almeno di 400 miliardi superiore del previsto. Essa aveva anche calcolato interessi sul debito pari a 282 miliardi.

    Nel frattempo, però, l’inasprimento della politica monetaria della Federal Reserve e gli aumenti del tasso d’interesse fanno stimare che il servizio sul debito raggiungerebbe i 400 miliardi di dollari. Se il tasso di sconto della Fed dovesse essere del 5%, com’era nel 2007, gli interessi sul debito potrebbero salire a 1.000 miliardi! Un aumento da non escludere, visto che lo considerano possibile la Fed di San Francisco e anche JP Morgan, la più grande banca americana.

    Alla fine, pensiamo che, come in passato, si troverà un compromesso tra maggioranza e opposizione. Ne va dell’affidabilità internazionale degli Stati Uniti. L’alternativa è dichiarare bancarotta. D’altra parte è difficile immaginare che i ministeri sospendano a lungo le attività, mettendo gli impiegati in cassa integrazione, o che in numerose città e Stati dell’Unione i vigili del fuoco o la polizia possano essere bloccati per mancanza di fondi.

    Si stanno considerando anche nuove e inedite iniziative. C’è chi propone di ripianare il deficit di bilancio coniando monete sonanti fino a un valore di mille miliardi di dollari. L’idea fu già discussa durante la presidenza di Obama. Sarebbe consentito dal 14° emendamento, Sez. 4, della Costituzione che sancisce: «Non potrà essere posta in questione la validità del debito pubblico degli Stati Uniti, autorizzato con legge».

    Chi propone tale soluzione sostiene che non sarebbe inflattiva. Portano l’esempio del presidente Abramo Lincoln che, nel mezzo della guerra civile, fece una simile iniziativa. Allora, dicono, i nuovi soldi andarono a finanziare un periodo di espansione economica senza precedenti, soprattutto nella siderurgia, nelle infrastrutture ferroviarie e nella meccanizzazione dell’agricoltura, con una notevole crescita della produttività. Oggi, invece, ci sembra che ogni nuova liquidità scompaia nel “buco nero” della finanza speculativa.

    C’è anche chi vorrebbe trasferire dalla Fed al Tesoro i titoli federali, circa 6.000 miliardi di dollari, a suo tempo acquistati attraverso i «quantitative easing». Il Tesoro potrebbe, quindi, annullare questa parte del debito. Sarebbe una possibilità legale che richiederebbe ovviamente il consenso del Congresso e della Fed, ma lascerebbe la banca centrale con una voragine nei conti. Oggi, infatti, essa giustifica i passivi di bilancio inserendo detti titoli negli attivi.

    Altra idea è di coniare “monete di platino” per un grande valore, sulla base dell’Articolo 1, Sez. 8, della Costituzione che afferma: «Il Congresso ha il potere… di coniare moneta e regolarne il valore».

    In passato il Congresso ha cercato di limitare questa generale possibilità ma ha lasciato un’eccezione, la moneta di platino, che una disposizione speciale permette di essere coniata in qualsiasi importo per scopi commemorativi. Le monete di platino furono proposte al Congresso già nel 2013 ma senza successo. Tali soluzioni straordinarie appaiono molto fantasiose. Alla fine, la decisione sarà quella molto più semplice di aumentare il debito pubblico. Cosa che, però, ingigantisce la bolla e i rischi connessi.

    Per noi europei è opportuno riflettere sul fatto che negli Usa si discuta su come affrontare le emergenze finanziarie e il problema del debito pubblico. Se si pensa bene, anche i quantitative easing sono stati degli interventi straordinari per evitare il crollo del sistema bancario e finanziario. Hanno, però, stravolto i meccanismi monetari centrali. Tutto “legalmente”!

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • Fed, tassi ed i Paesi emergenti

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su ItaliaOggi il 4 marzo 2023

    Il continuo aumento dei tassi d’interesse da parte della Fed, seguito a ruota dalla Bce, sta avendo conseguenze catastrofiche soprattutto nei Paesi in via di sviluppo. Ciò ha spinto i capitali a lasciare questi Paesi e ha deprezzato le loro valute rispetto al dollaro. Ovvia conseguenza è l’aumento dei prezzi delle commodity, del costo delle importazioni, anche dei beni di sussistenza. Inoltre, l’enorme crescita del costo del debito li ha resi incapaci di far fronte al pagamento degli interessi.

    Si aggiunge una specifica situazione della Cina. Oltre agli effetti economici della pandemia, le sanzioni imposte a Pechino non colpiscono solo la Cina ma anche quei Paesi connessi alla sua «catena di approvvigionamenti». Le merci cinesi che vanno nel resto del mondo non sono prodotte esclusivamente in Cina, ma soprattutto nei Paesi dell’Asia e dell’Africa che fanno parte della sua filiera produttiva.

    Il «World economic outlook» di gennaio 2023 del Fmi stima che il 15% dei Paesi a basso reddito sia in difficoltà debitoria, un altro 45% sia ad alto rischio di sofferenza e il 25% delle economie dei mercati emergenti sia anch’esso ad alto rischio.

    L’ultimo rapporto della Banca Mondiale rileva che alla fine del 2024 il pil dei Paesi emergenti e di quelli in via di sviluppo resterebbe del 6% sotto di quello registrato prima della pandemia. Per loro si prevedono un lungo periodo di debiti crescenti e pochi investimenti. I capitali, infatti, saranno assorbiti dalle economie avanzate a loro volta colpite da tassi e debiti alti. Per 37 Paesi poveri la situazione sarà molto peggiore. Nell’Africa sub–sahariana si stima un aumento del tasso di povertà assoluta nel biennio 2023-4.

    Il vero problema, soprattutto per noi occidentali, è che si prendono iniziative prettamente geopolitiche legate alla sicurezza e alla forza militare, spesso senza valutarne le conseguenze economiche e sociali in altre parti del mondo. Gli effetti impattano i Paesi geograficamente lontani ma poi si riverberano in casa nostra. Di solito, quando i governi sono costretti a ridurre i bilanci, tagliano le spese sociali. Ciò porta all’instabilità politica e a rivolte popolari.

    Globalmente siamo di fronte a delle situazioni peggiori di quanto sperimentato, a cavallo del primo decennio di questo secolo, quando la speculazione sui beni alimentari ha mischiato l’inflazione con le cosiddette «primavere arabe».

    Il Libano, ad esempio, sta affrontando ciò che la Banca mondiale ha descritto come «tra le crisi più gravi a livello globale dalla metà del diciannovesimo secolo». Dal 2019 la moneta ha perso il 98% del suo valore. In Iraq, le proteste sono scoppiate a Baghdad per il crollo del dinaro, la valuta irachena. In Egitto, il valore della sterlina egiziana in un anno si è dimezzato mentre i prezzi sono aumentati.

    L’anno scorso lo Sri Lanka, nel mezzo di rivolte sociali, è stato inadempiente per la prima volta nella sua storia. Oggi le autorità hanno aumentato il prezzo dell’elettricità del 66% nel tentativo di ottenere un salvataggio dal Fmi. Il Pakistan sta affrontando la sua peggiore crisi economica, con mancanze di gas, interruzioni di corrente, aumenti dei prezzi. In Argentina, l’inflazione ha raggiunto, di nuovo, quasi il 100% su base annua.

    Alti tassi e inflazione sono un mix esplosivo. Il caso dell’Argentina è emblematico, dove il tasso della banca centrale è salito dal 35% di un anno fa al 75% di oggi. Allora la pensione media era di 450 dollari al mese, oggi è di 150.

    L’aumento del tasso d’interesse della Fed ha spinto anche quello della banca centrale del Brasile dal 10,7% di un anno fa al 13,75% di oggi. In Messico, il tasso d’interesse è quasi raddoppiato, passando dal 6% all’11,25%. Il tasso d’interesse della Nigeria è aumentato dall’11,5% al 17,5%, l’inflazione è del 22%.

    Il mondo sta pagando un altissimo prezzo. Le cause, secondo noi, sono l’acquiescenza della Fed di fronte a una finanza aggressiva, i suoi errori di valutazione e i suoi mancati interventi.

    Non è un caso che, come per la cecità dimostrata alla vigilia della grande crisi finanziaria del 2008, oggi, fino all’ultimo minuto, la Fed ha continuato a ripetere che l’inflazione era «transitoria». Tutto è transitorio, ma il problema è la durata della transizione e le sue conseguenze.

    In Europa non c’è da stare tranquilli. La Bce ha sempre dimostrato la sua «straordinaria indipendenza», ma ripetendo qualche mese dopo gli stessi errori della Fed.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • Il debito mondiale alle stelle

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su ItaliaOggi il 3 febbraio 2023

    L’aumento dei tassi d’interesse e la stagflazione, cioè la situazione che si crea quando la stagnazione economica si combina con l’aumento dell’inflazione, stanno mettendo inevitabilmente la struttura del debito sotto pressione. A giugno si calcolava che il debito mondiale globale, pubblico e privato, fosse pari a 300 mila miliardi di dollari, cioè il 350% del pil mondiale. Nel 1999 era di 200 mila miliardi. Negli Usa il rapporto è del 420%, più alto di quello della Grande Depressione degli anni Trenta e dell’immediato dopoguerra. Tale percentuale riguarda tutte le economie avanzate. In Cina è del 330%.

    I debiti in sé non sono un problema se servono a sostenere gli investimenti per lo sviluppo industriale e tecnologico. Il rischio si manifesta quando crescono in maniera sproporzionata e sono prevalentemente speculativi e sganciati dall’economia reale.

    La crescita del debito mondiale ha colpito numerosi settori, come le famiglie, le imprese, le banche, soprattutto quelle cosiddette “ombra”, i governi e persino interi Paesi. In particolare i debitori chiamati zombie, gli insolventi, che sono stati mantenuti a galla dalla prolungata politica del tasso di interesse zero. Da quando la Fed e le altre banche centrali hanno iniziato ad alzare i tassi d’interesse nel tentativo di stabilizzare i prezzi, gli zombie vedono il costo del loro debito crescere costantemente. A ciò bisogna aggiungere l’erosione dei redditi, dei risparmi e della ricchezza, immobiliare e mobiliare, liquefatta dall’inflazione.

    L’ultima volta che l’economia mondiale ha sperimentato la stagflazione è stato negli anni Settanta. Allora, però, i tassi debitori erano più bassi. Oggi, invece, si potrebbe parlare del rischio di “choc da stagflazione”. Anche perché non si pensa di ridurre i tassi d’interesse per alimentare la domanda, le produzioni e i consumi.

    Vi sono poi degli eventi geopolitici che hanno avuto e continuano a creare choc negativi nell’offerta: la pandemia, la guerra in Ucraina, certe problematiche interne cinesi, ecc. Rispetto alla grande crisi finanziaria del 2008 e del periodo iniziale del Covid, questa volta non si potrà intervenire con salvataggi pubblici ai settori in difficoltà. Il rischio è generalizzato.

    Alcuni economisti americani, come il professore di Harvard, Kenneth Rogoff, già capo economista del Fmi, vorrebbero distogliere l’attenzione dalle aree di crisi degli Usa, dove, per esempio, il debito delle grandi imprese è diventato un enorme cancro e dirigerla altrove. In particolare Rogoff ha scelto il Giappone e l’Italia come focolai di crisi, perché, a suo dire, l’aumento dei tassi d’interesse renderebbe per loro sempre più difficile garantire il servizio sul debito pubblico.

    Anche i Paesi emergenti sono sotto pressione. Essi sono direttamente influenzati dalle politiche monetarie della Federal Reserve. Alti tassi d’interesse, un dollaro forte, la fuga di capitali, la svalutazione delle monete locali e l’inflazione stanno rendendo molto difficile la gestione del loro debito. The Economist ha identificato ben 53 Paesi vulnerabili che sono crollati sotto il peso del debito o sono a rischio di farlo. Non è un caso che la Banca Mondiale sostiene che il 60% dei Paesi emergenti o poveri è diventato debitore ad alto rischio.

    Poiché i governi non sono intenzionati a tagliare i bilanci o ad aumentare le tasse per ovvi motivi sociali e politici, ancora una volta la patata bollente passa nelle mani delle autorità monetarie. Cresce perciò la richiesta che le banche centrali tornino a monetizzare i deficit. In altre parole, un altro periodo di quantitative easing!

     

    Altri, invece, vorrebbero globalizzare gli allargamenti monetari e finanziari facendo giocare un ruolo centrale al Fmi. Pochi mesi fa il Fmi aveva emesso una montagna di Diritti speciali di prelievo, la sua moneta, equivalenti a 650 mld di dollari. L’intervento era stato abilmente presentato come necessario al sostegno dei Paesi più poveri. In realtà, all’Africa sub sahariana sono andati soltanto 32 mld. Infatti, la distribuzione è stata fatta in rapporto al pil dei Paesi.

    Le politiche attuali potrebbero posporre le crisi ma non evitarle. Per una più adeguata gestione del debito è da farsi almeno l’introduzione di strumenti atti a contenere le varie forme di speculazione.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • Il 2023 dell’Africa si apre all’insegna del debito

    Se il 2022 non è stato “facile” per l’economia dell’Africa Subsahariana, quello che si apre sembra non essere roseo. All’inizio del 2022 la regione soffriva a causa della pandemia e dei suoi effetti sull’economia. Il 2023 si apre con molte nazioni che stanno affrontando un’altra crisi: il debito insostenibile. La newsletter settimanale di Bloomberg spiega che la crisi è in  atto da anni, i prestiti a lungo termine sono più che raddoppiati raggiungendo i 636 miliardi di dollari nel decennio 2011-2021, una cifra che supera il Prodotto interno lordo di oltre 40 Paesi africani considerati nel loro insieme. La pandemia da Covid ha peggiorato la situazione economica e la guerra in Ucraina ha spinto sull’orlo del baratro molti Paesi, chiudendo l’accesso ai finanziamenti, esaurendo le riserve di valuta estera e mandando in tilt i bilanci nazionali. Non a caso il Fondo monetario internazionale parla di una regione che “vive sul filo del rasoio”. Il Ghana si è unito a Zambia e Etiopia nel tentativo di ristrutturare le passività, paesi come Nigeria e Kenya sono appesantiti da un debito sempre più preoccupante.

    Il debito è il problema maggiore che i Paesi della regione dovranno affrontare anche se l’agenzia di ratings, Fitch, prevede che il debito medio “nell’Africa subsahariana migliorerà e sarà al di sotto del 65% nel 2023, dopo aver raggiunto il 72% nel 2020, aiutato dalla ripresa economica dopo la pandemia, dall’aumento dei prezzi delle materie prime e dagli sforzi per ridurre i deficit di bilancio, ma questo livello si confronta con una media del 57% nel 2019, prima della pandemia, e con meno del 30% tra il 2007 e il 2013”. Secondo l’analisi del debito pubblico dei 19 Paesi dell’Africa subsahariana, quasi la metà dei Paesi (42%) a cui Fitch assegna un rating nella regione “hanno un rapporto debito-Pil superiore al 70%, mentre il rapporto medio debito-reddito continuerà a essere superiore al 300%, il doppio del valore del 2013”. Questo, secondo Fitch, prova il deterioramento dei fondamenti economici dei paesi della regione, nonché delle prospettive di evoluzione di queste economie. I rischi che dovranno affrontare questi paesi, dovuti al significativo rallentamento globale, sono legati all’elevata inflazione, alle difficili condizioni finanziarie, al generale indebitamento delle economie determinato dalla pandemia e ora dall’invasione russa dell’Ucraina. Fitch, inoltre, prevede che l’inflazione media nella regione scenderà dal circa 8% del 2022 al 5,5% di quest’anno e che la crescita del Pil sarà intorno al 4%, vicino alla media del 3,8% nei 5 anni fino al 2019, ma ben al di sotto della crescita registrata fino al 2014. In alcuni Paesi della regione, tuttavia, l’inflazione è ben al di sopra della media regionale.

    A ciò si aggiunge che ci sono 8 Paesi dell’Africa Subsahariana con pagamenti del debito pubblico, nel 2023, che rappresentano un quarto delle riserve estere. Secondo Bloomberg i responsabili politici africani possono far ben poco per influenzare i venti contrari globali, ma possono adottare misure per costruire una sorta di “tesoretto”. L’aumento dei prezzi delle materie prime in un continente in cui ce ne sono in abbondanza – dai diamanti ai minerali di ferro, alla bauxite, al cobalto, al platino, al rame, alle cosiddette terre rare, al petrolio e al gas – offre la possibilità di creare fondi di stabilizzazione o fondi sovrani per proteggersi da shock futuri. Il 2022, inoltre, è stato un anno in cui la maggior pare delle valute africane hanno perso valore, una tendenza che potrebbe proseguire anche nel 2023.

    Tra le monete più deboli ci sono quelle dei Paesi con un contesto complesso sia dal punto di vista economico sia da quello politico-sociale come il Sudan e lo Zimbabwe, mentre le monete di Ghana, Malawi, Sierra Leone, Etiopia ed Egitto, potrebbero subire un ulteriore deprezzamento di oltre il 10% a causa dell’inflazione. Non dovrebbe, invece, subire scossoni il franco Cfa, adottato da molti Paesi francofoni, la cui stabilità è legata all’euro. Sul fronte politico molti paesi saranno chiamati alle urne durante il 2023 e anche questi appuntamenti potrebbero far crescere il malcontento delle popolazioni già fortemente sofferenti per l’aumento dei prezzi dei generi di prima necessità. I cittadini di 8 Paesi saranno chiamati alle urne per le elezioni presidenziali. In Nigeria, il peso massimo del continente con oltre 200 milioni di abitanti, le lezioni generali sono previste per il 25 febbraio. Il presidente uscente Muhammadu Buhari non potrà candidarsi avendo già portato a termine 2 mandati. La Sierra Leone andrà al voto a giugno, la Liberia a ottobre, il Madagascar a novembre, i  presidenti uscenti di questi paesi – rispettivamente Jiulius Maada Bio, George Weah e Andrei Rajoelina – potranno candidarsi per un secondo mandato. In Gabon, la Costituzione consente al presidente Ali Bongo di ricandidarsi, in questo caso si tratterà di un terzo mandato settennale. Prima di lui il governo del Gabon e’ stato nelle mani del padre Omar Bongo per 41 anni. La Repubblica democratica del Congo andrà alle urne il 20 dicembre, la registrazione degli elettori è già iniziata, il presidente uscente, Felix Tshisekedi, ha già annunciato la sua ricandidatura, anche se molti analisti temono che possano essere rinviate a causa della perenne condizione di guerra che regna nell’Est del paese. Anche lo Zimbabwe andrà alle urne. Le elezioni generali, invece, sono già state rinviate in Sud Sudan, non si terranno quest’anno e la transizione è stata prorogata di due anni, fino al 2024. Il Sud Sudan non ha avuto elezioni presidenziali dalla sua indipendenza nel 2011. Nel 2013 è scoppiata una sanguinosa guerra civile e ancora oggi, nonostante gli accordi di pace, il paese vive una instabilità cronica.

  • I Paesi poveri non ce la fanno a tirare avanti, anche se molti di essi posseggono un sacco di materie prime

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi pubblicato il 2 novembre 2022 su ‘ItaliaOggi’ 

    Il debito dei Paesi più poveri tra quelli in via di sviluppo è tornato a essere ad alto rischio. Lo afferma il recente studio del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp) intitolato «Avoiding: too little, too late», si fa troppo poco e troppo tardi per evitarlo!

    Lo studio si riferisce a Paesi che rappresentano quasi il 18% della popolazione mondiale e il 50% delle persone che vivono in povertà estrema. Pur essendo ricchissimi di materie prime e di altre commodity alimentari, essi rappresentano un misero 3% del pil globale. Sarebbero 54 i Paesi in via di sviluppo che necessitano di una riduzione urgente del debito pubblico, pena una imminente catastrofe umanitaria, emigrazioni incontrollate e guerre di vario tipo: 25 sono nella regione sub sahariana, 10 nell’America Latina e nei Caraibi.

    L’aggravamento è dovuto al fatto che i suddetti Paesi emettono debito in dollari e, di conseguenza, subiscono le decisioni prese dagli Stati Uniti. Per esempio, l’aumento dei tassi d’interesse da parte della Fed ha per loro un effetto negativo insostenibile. Da qualche tempo almeno 19 Paesi pagano interessi superiori del 10% rispetto a quelli dei Treasury bond.

    Queste obbligazioni sono in caduta libera con un deprezzamento del 40-60%. Se si considerano tutte le economie in via di sviluppo, ben 26, circa un terzo, sono classificate «rischio sostanziale, estremamente speculativo o insolvenza».

    Il peggioramento della loro situazione economica e sociale è confermato anche da un altro studio dell’Undp sul Multidimensional Poverty Index (mpi). Tale indice analizza la povertà combinando il livello del reddito pro capite con i diversi aspetti della vita quotidiana di persone in povertà: l’accesso all’istruzione e alla salute e lo standard di vita come alloggi, acqua potabile, servizi igienici ed elettricità. I dati di prima della pandemia e dell’impennata inflazionistica mostrano che 1,2 miliardi di persone in 111 Paesi vivono in condizioni di povertà multidimensional acuta. Questo è quasi il doppio del numero di chi è considerato povero perché ha un reddito inferiore a 1,90 dollari al giorno.

    L’analisi evidenzia che oltre il 50% delle persone povere (593 milioni) non ha elettricità e gas per cucinare; quasi il 40% dei poveri non ha accesso all’acqua potabile e ai servizi igienici; più del 30% delle persone povere è privato contemporaneamente di cibo, combustibile per cucinare, servizi igienici e alloggio. La maggior parte delle persone povere multidimensional (83%) vive nell’Africa sub sahariana (579 milioni) e nell’Asia meridionale (385 milioni).

    L’Undp sostiene che la risposta del G20 sia del tutto inadeguata. Ricorda anche che, nella pandemia del 2020-2021, il G7 ha stanziato ben 16 mila miliardi di dollari. Lo stesso Fmi potrebbe espandere le sue linee di credito e accelerare la ricanalizzazione dei diritti speciali di prelievo. Perciò, volendo, «i problemi di liquidità non sono ingestibili».

    Lo studio propone il coordinamento dei creditori, compresi quelli privati, e l’uso di clausole per le obbligazioni statali che mirino alla resilienza economica e fiscale. Si sostiene che in alcuni casi si debba cancellare il debito. Oggi mancano le assicurazioni finanziarie dei principali governi creditori per raggiungere un accordo. Perciò si proporrebbero i cosiddetti Brady Bonds, obbligazioni della durata di 30 anni, sostenute da Treasury bond, emesse negli anni Ottanta dai Paesi in crisi per finanziare il debito con le banche commerciali. Si ricordi il default dell’Argentina.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • Il nuovo record del debito pubblico italiano

    2755 miliardi: a questo ammonta il nuovo record del debito pubblico italiano mentre contemporaneamente, da molti mesi ormai, si leggono teorie economiche basate su principi squisitamente scolastici in base ai quali l’inflazione ridurrebbe il peso del debito pubblico.

    Questa visione economica prende spunto da un modello matematico e non, come la realtà in continua evoluzione dimostra, da una analisi complessa all’interno di un articolato mercato finanziario nel quale i creditori, cioè i sottoscrittori dei titoli del debito pubblico, tendono sempre ad aumentare le proprie aspettative in termini di interessi corrisposti in virtù proprio del maggior rischio legato all’inflazione.

    Questi modelli scolastici possono anche fare parte di un bagaglio culturale ma la mancata attualizzazione rispetto ad un nuovo e complesso mercato globale ne esclude l’applicazione e soprattutto le impossibili aspettative anche del governo in carica.

    La Banca d’Italia pone fine a discussioni e teorie adottate dai sostenitori tanto della compagine governativa attuale quanto, in passato, da Calenda e Padoan del governo Renzi nel 2016 i quali erano favorevoli ad un aumento dell’IVA proprio per innescare una spirale inflattiva.

    Allora come oggi l’obiettivo è quello di ottenere l’illusione di una riduzione del debito pubblico quando invece si verifica, ma solo per un periodo molto limitato, un miglioramento del rapporto tra debito pubblico e PIL avendo quest’ultimo un aumento nominale proprio legato all’inflazione.

    L’errore grossolano emerge chiaro dall’attribuzione di un valore “positivo” all’inflazione in termini di riduzione del debito pubblico come espressione della differenza tra il tasso di interesse corrente pagato dallo Stato con quello che indica la perdita di valore della moneta. Un corretto confronto invece andrebbe proposto nella valutazione della differenza tra i tassi applicati ai titoli del debito in scadenza e quelli sicuramente superiori richiesti in presenza di una spirale Inflattiva dai nuovi finanziatori.

    Viceversa il diverso valore tra il tasso di inflazione e quello degli interessi sul debito pubblico indica chiaramente il valore della depatrimonializzazione degli asset economici italiani espressi in valuta in costante perdita di valore.

    Sembra incredibile come non ci sia stata nessuna evoluzione intellettuale dal momento dell’apprendimento delle teorie economiche alle sempre più complesse dinamiche dei mercati finanziari contemporanei tanto in ambito politico e governativo quanto in ambito accademico.

    Contemporaneamente emerge anche come non ci sia stato ancora oggi un aggiornamento all’interno dei testi di economia nei quali accanto al modello classico relativo agli illusori vantaggi attribuibili all’inflazione nell’andamento del debito pubblico vengano quantomeno illustrate le complesse dinamiche dei mercati finanziari del terzo millennio che rendono gli effetti congiunti dei tassi di interesse e dell’inflazione nel loro complesso sempre più marginali.

  • Parte la revisione del Patto di stabilità: gli investimenti green in cima alle priorità della Ue

    Regole più semplici, più coinvolgenti rispetto agli Stati membri, più flessibili sugli investimenti green. Comincia su questo binario la consultazione sulla possibile revisione di uno dei capisaldi più divisivi dell’Unione Europea, il Patto di Stabilità e Crescita. Il 19 ottobre, dopo il collegio dei commissari, il vicepresidente della commissione Ue Valdis Dombrovskis e il commissario agli Affari

    Economici Paolo Gentiloni hanno dato il via alla consultazione pubblica, partendo da un documento, di 14 pagine, sull’impatto della crisi Covid sulle economie europee. Un documento che vuole essere la base per discutere su una migliore applicazione delle regole fiscali. La consultazione pubblica, secondo lo schema della Commissione, dovrebbe chiudersi con la fine dell’anno. E, nella primavera del 2022 l’esecutivo europeo punta a mettere in campo una sua proposta.

    L’obiettivo di una modifica dei Trattati, osservano fonti europee a Bruxelles, è poco meno di un’utopia. La revisione potrebbe portare a modifiche regolamentari – che è l’obiettivo più ambizioso e difficile – o ad una diversa interpretazione delle regole oggi in vigore. Il percorso, come prevedibile, è irto di ostacoli già solo nel timing dell’iniziativa. Dal gennaio 2023 il Patto di Stabilità (con i suoi canonici paletti del tetto per il deficit pari al 3% del Pil e di quello dell’iter per arrivare ad un debito pari al 60%) tornerà in vigore e l’obiettivo dei cosiddetti Paesi frugali, messo nero su bianco in un ‘position paper’ dell’inizio di settembre, è quello di tergiversare il più possibile nel superamento delle regole attuali.

    Molto dipenderà anche dal futuro esecutivo tedesco e da chi, a Berlino, rivestirà il ruolo di ministro delle Finanze. Anche se il candidato alla cancelleria Spd, Olaf Scholz, pur sottolineando come l’attuale Patto sia già flessibile ha spiegato che, questo, “non è il momento dell’austerità”.

    Una certa flessibilità l’esecutivo europeo la vorrebbe innanzitutto sugli investimenti green, scorporandoli dal computo del deficit e del debito con quella che, a Bruxelles, già chiamano “golden rule”. Poi c’è il tema del rientro del debito. Il ritorno al limite del 60%, a causa degli effetti della crisi pandemica, per molti Paesi è pressoché irraggiungibile, soprattutto se si vuole evitare di strangolare la ripresa economica con interventi da lacrime e sangue.

    La media del debito dei Paesi dell’eurozona ruota attorno al 100% del Pil. L’obiettivo della consultazione pubblica è quindi trovare un percorso che porti ad una riduzione graduale, ma effettiva del debito. Anche perché, come si evincerà dal documento della Commissione, la crisi del Covid ha portato alla luce la necessità e l’opportunità di più investimenti, pubblici e privati.

  • Release G20: la proposta per lo sviluppo dell’Africa

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi.

    Lo sviluppo e il futuro dell’Africa sono sempre menzionati nelle conferenze internazionali dei Paesi cosiddetti avanzati. Ma spesso ci si ferma a mere parole vuote o a pochi aiuti caritatevoli.

    Eclatante è il caso della pandemia: nessuna sospensione dei brevetti dei vaccini che permetterebbe la loro produzione anche in loco ma tante promesse di “regalare” centinaia di milioni di dosi in modi e tempi troppo incerti.

    Eppure, tutti sanno che le economie dei Paesi africani sono state colpite duramente, in particolare quelli della regione sub sahariana. Sono state già penalizzate dalla Grande Crisi per responsabilità altrui.

    Si aggiunga che nei prossimi tre anni il debito pubblico dei Paesi africani supererà i 950 miliardi di dollari.

    In questa situazione povera di idee e di interventi concreti, vi è, per fortuna, una iniziativa lungimirante, la proposta del cosiddetto “Release G20”, fatta da un gruppo di ong italiane impegnate nella cooperazione internazionale, coordinate dall’organizzazione LINK2007 con sede a Milano. Essa propone la ristrutturazione e la riconversione di parte del debito in investimenti in valuta locale finalizzati agli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite.

    Nello specifico, si propone una conversione flessibile, totale o parziale, del debito sovrano di uno Stato africano debitore in un fondo in valuta locale. Ciò garantirebbe l’alleggerimento del peso del debito e nello stesso tempo favorirebbe il progresso delle comunità tramite l’avvio di investimenti produttivi di medio-lungo termine. Il fondo sarebbe gestito dal governo del singolo Stato, il quale, in assenza di pressioni dovute al debito, potrebbe promuovere e realizzare i progetti di sviluppo.

    Al fine di garantire il rispetto dei principi di trasparenza, efficacia e accountability, “Release G20” prevede l’utilizzo di efficaci meccanismi di monitoraggio e di supervisione da parte del Ministero delle finanze dello Stato interessato e il coinvolgimento degli altri ministeri competenti e delle organizzazioni della società civile. Questi strumenti e procedure servirebbero a rafforzare le capacità amministrative e operative nell’utilizzo dei fondi.

    La proposta è stata fatta pervenire al G20 a presidenza italiana. Pochi giorni prima della Conferenza ministeriale “Sviluppo” del G20 tenutasi a Matera il 29 giugno, essa è stata presentata in un incontro online, promosso dalla rete di ong LINK2007 in collaborazione con il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale (MAECI).

    Nel citato incontro online, cui hanno partecipato numerosi ambasciatori dei Paesi africani, il vice ministro Marina Sereni ha spiegato che «ridurre il debito dei Paesi più poveri è una sfida cui l’Italia non si sottrae, soprattutto ora che, con la crisi di Covid-19, diventa sempre più difficile, in particolare in Africa, perseguire gli obiettivi di sviluppo sostenibile fissati dall’Onu». Ha ricordato, inoltre, che “i ministri delle finanze del G20 stanno lavorando a strategie di finanziamento di questi obiettivi, accogliendo così le proposte che emergono, come nel caso di quest’incontro, dalle organizzazioni della società civile”.

    Ibrahim Assane Mayaki, responsabile di “NEPAD”, l’agenzia per lo sviluppo dell’Unione Africana, ha dichiarato che “la ristrutturazione del debito può aiutare l’Africa ad andare avanti a perseguire gli obiettivi dell’Onu in tutti i settori chiave”. Ha ricordato che “il continente perde circa 90 miliardi di dollari ogni anno a causa di flussi finanziari illeciti. Per tale ragione, “Release G20” è fondamentale per raggiungere gli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Onu”.

    La trasformazione del debito sovrano in investimenti per la ripresa post Covid-19 sarebbe auspicabile non solo in una prospettiva politica di rafforzamento della collaborazione tra gli Stati ma anche per qualificare la cooperazione internazionale con l’avvio di un’effettiva programmazione di investimenti orientati dai principi dell’equità e della sostenibilità.

    In un più recente incontro online organizzato dall’Eurispes, Roberto Ridolfi, presidente di LINK2007, ha invitato i Paesi BRICS a far propria e a sostenere con forza l’iniziativa “Release G20”. Il che non sarebbe irrilevante ai fini della sua concreta realizzazione.

    *già sottosegretario all’Economia  **economista

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