Delocalizzazione

  • Panda elettrica: il paradosso energetico europeo

    La Commissione Europea ha preteso nel 2022, come forma di ritorsione in seguito all’inizio della guerra russo ucraina, di azzerare le importazioni di gas dalla Russia.

    Gli stessi vertici istituzionali europei avevano previsto il sicuro default dell’aggressore russo nel giro di pochi mesi (le previsioni per il 2024 indicano il Pil russo tre volte quello europeo dopo un 2023 già doppio).

    Contemporaneamente la UE ha imposto una transizione energetica che prevedeva un azzeramento dell’utilizzo di combustibili fossili anche attraverso una mobilità sempre più elettrica, arrivando al delirante divieto di produzione di automobili a combustione interna dal 2035.

    In relazione alle importazioni di gas russo alcuni Stati membri della stessa Unione, come Germania e Spagna, lo hanno sfacciatamente aggirato attraverso semplici triangolazioni.

    Viceversa questo obbligo europeo è stato osservato diligentemente dal governo Draghi, il che ha comportato una aggravio di costi notevole sia per le imprese che per le famiglie italiane le quali si vedono costrette a consumare gas proveniente da altri paesi con prezzi decisamente superiori.

    In questo contesto generale si inserisce la volontà ideologica, appunto, di una transizione verso la modalità elettrica la quale richiede investimenti ancora oggi insostenibili sia per le aziende che per i consumatori. In più questo scenario ha accelerato le delocalizzazioni attraverso le quali le aziende stesse cercano di avviare la produzione di veicoli elettrici laddove i costi risultino inferiori a quelli italiani e non solo per un minore costo della manodopera. In questo modo si ottengono due obiettivi in quanto si accresce la redditività degli investimenti (1) e magari si ottiene un prodotto a prezzi più accessibili ampliando un minimo la domanda interna (2).

    La scelta di Stellantis di trasferire la produzione della nuova Panda elettrica da Pomigliano d’Arco (NA) in Serbia esprime quindi la volontà di perseguire i due traguardi ed è sostenuta da una volontà politica espressa dalla Commissione Europea intrisa di ideologia ambientalista.

    L’effetto finale diventa veramente surreale in quando queste aziende, con l’obiettivo di produrre questo tipo di nuovi veicoli a costi minori, delocalizzano le produzioni verso quegli stati che possono offrire un costo inferiore di produzione anche grazie alla forniture di gas dalla Russia di Putin avendo rinnovato la fornitura con l’azienda russa nel 2022 (*).

    In altre parole, la transizione energetica nella sua applicazione della mobilità spinge le produzioni di questi veicoli verso quei paesi che hanno mantenuto la fornitura di gas russo perché assicura minori costi energeticiì.

    Gli effetti nefasti della politica energetica europea e nazionale si traducono in precisi fattori antieconomici, sconosciuti agli stessi organi istituzionali che dovrebbero operare per il bene del paese e del continente europeo.

    La cancellazione di decine di migliaia di posti di lavoro è solo all’inizio di un cataclisma occupazionale senza precedenti e di entità ancora oggi difficile da ipotizzare.

    La vicenda della Panda elettrica e della sua delocalizzazione dimostra il fallimento strategico espresso con l’embargo alle forniture di gas russo delle quali la UE intendeva liberarsi e che ora invece rappresentano un fattore determinante nella scelta dei siti produttivi.

    L’unico obiettivo così raggiunto dalla Commissione Europea rimane quello del progressivo impoverimento dell’economia industriale europea.

    (*) https://it.euronews.com/2022/05/29/serbia-accordo-raggiunto-con-mosca-sul-gas

  • La delocalizzazione intellettuale

    “Le delocalizzazioni produttive rappresentavano Il trasferimento del vantaggio culturale e tecnologico (espressione dell’evoluzione tecnica culturale) dei paesi occidentali ai paesi a basso costo manodopera…” (*)

    Questo poteva rappresentare la strategia economica sostenuta dal mondo accademico italiano ed adottata dall’intero arco parlamentare e governativo degli ultimi 30 anni.

    Ancora oggi, la Fiat ha messo in cassa integrazione gli operai impiegati nella linea di produzione della 500 elettrica in quanto il mercato non recepisce questo prodotto offerto al mercato ad un prezzo decisamente fuori contesto. Come sempre, infatti, il mercato indica quanto possano essere disastrose le strategie aziendali. Sarebbe opportuno che il management rispondesse di questi errori clamorosi che, tra l’altro, ricadono sull’Italia in quanto la cassa integrazione viene finanziata con i contributi dei lavoratori italiani.

    Una strategia che vede coinvolta anche la tedesca Volkswagen la quale all’inizio aveva appoggiato la transizione ecologica imposta dalla Commissione Europea assaporando l’opportunità di ricambio dell’intero parco auto circolante europeo e adottando il principio della speculazione finanziaria, la quale, sulla base di una opportunità, considerava il bacino d’utenza degli automobilisti il proprio “parco giochi”. Ma ora si ritrova esposta con investimenti nelle auto elettriche assolutamente sproporzionati rispetto alle risposte del mercato e sta avviando un piano di licenziamenti impensabile solo due anni addietro.

    Di questa situazione la politica sembra non accorgersene o ancora peggio sottovalutarne le conseguenze.

    A questo tipo di delocalizzazioni produttive si devono aggiungere ora quelle relative al back office, cioè gli impiegati e i quadri. Stiamo assistendo, appunto, ad una evoluzione delle delocalizzazioni produttive le quali ora investono anche il back office. La Saint Gobain, infatti, delocalizza in Polonia buona parte del proprio asset amministrativo (https://www.milanotoday.it/economia/licenziamenti-saint-gobain-2023.html). Mentre tutti i partiti si interrogano sulla introduzione di una riduzione della settimana lavorativa, e su una legge relativa ad una obbligatorietà del salario minimo, in Italia prende forma una evoluzione delle delocalizzazioni. Quelle industriali, infatti, subiscono una accelerazione, si pensi alla realizzazione della nuova Fiat 600 in Polonia, ma a queste si aggiunge un’altra tipologia che riguarda anche i servizi, come la vicenda Saint Gobain dimostra.

    In questo contesto la digitalizzazione dell’economia tende a favorire, appunto, questo fenomeno del trasferimento di know how non solo produttivo ma adesso anche intellettuale, i cui effetti potrebbero rivelarsi devastanti per il nostro Paese.

    Una pericolosa prospettiva la quale comunque lascia assolutamente indifferente l’intera classe politica italiana.

    (*) FP

  • La Cina compresa con soli vent’anni di ritardo

    Sicuramente questa settimana, caratterizzata dal ponte dell’Immacolata, ha visto il proliferare di interventi sui vent’anni dall’ingresso della Cina nel Wto con dotte relazioni dei maggiori commentatori all’interno di testate giornalistiche rispetto a quanto è conseguito da tale ingresso.

    “Dopo solo vent’anni” si accorgono ora degli effetti devastanti dovuti alla creazione di un mercato unico ma privo di ogni regola comune di bilanciamento e di equilibrio tra soggetti economici e nazioni che presentavano delle differenze in termini di costi e di garanzie sociali e di tutela dei prodotti assolutamente inconciliabili che avrebbero sicuramente dato luogo a delle speculazioni, come le delocalizzazioni estreme hanno dimostrato.

    Buona parte dei personaggi che adesso criticano questa situazione economico-politica in passato avevano magnificato gli effetti nel lungo termine per i consumatori della scolastica applicazione del semplice principio della concorrenza. Solo ora si cerca di dimostrare di aver compreso, fuori tempo massimo ormai, e la vera operazione è quella di celare la propria incapacità di lettura delle conseguenze e delle dinamiche economiche a medio-lungo termine di un mercato unico, la cui nascita e gli effetti benefici potevano manifestarsi se solo si fosse creata una piattaforma basata sulla condivisione di principi comuni come di controllo e di salvaguardia reciproca, oltre ad una cultura di rispetto per l’ambiente ed il lavoro.

    Invece tutti hanno accettato, a partire dalla  classe politica e dirigente italiana fino al  mondo  universitario, la creazione di un mercato privo di barriere ma soprattutto di regole  il  cui principio fondativo si sarebbe manifestato semplicemente nella possibilità di accedere a mercati a basso costo di manodopera e nella possibilità di suscitare così azioni speculative nel mondo industriale e, come contropartita,  ponendo le basi per una China Invasion di prodotti di ogni genere e contenuto.

    Questo ipocrita tentativo, ora, di rifarsi una reputazione dopo i disastri evidenti della deindustrializzazione della nostra economia nel nostro Paese, con effetti devastanti a causa del trasferimento di know-how e per la perdita di posti di lavoro e professionalità frutto di decenni di investimenti, rappresenta la fine di questo declino culturale.

    In questo contesto si deve anche ricordare come al declino abbia contributo anche l’assoluta miopia dell’Unione Europea che fino a poco tempo fa intendeva riconoscere all’economia cinese lo status di “economia di mercato”. L’insostenibilità nel medio e lungo termine di questa strategia è sempre stata da noi soli sempre evidenziata per decenni.

    In questo mi sembra giusto ricordare, oltre al sottoscritto, le voci dell’associazione dei Contadini del Tessile, come Riccardo Ruggeri e Luciano Barbera, unici ad essersi esposti in prima persona contro il pensiero unico magnificante il libero mercato e sempre a tutela della produzione nazionale e della tutela del Made in Italy.

    Adesso, con un minimo ritardo di soli vent’anni, la sicurezza di allora sembra vacillare non tanto per la consapevolezza dell’errore commesso e degli effetti devastanti per l’economia italiana quanto per il tentativo di rifarsi una credibilità ampiamente compromessa con gli effetti devastanti per le economie in era post pandemica.

    Mai come in questi ultimi vent’anni la professionalità e la competenza non sintonizzate con il pensiero unico politico ed economico sono state derise e isolate in questo dal mondo degli illuminati progressisti appoggiato da un compiacente ed altrettanto incompetente mondo accademico le cui precise responsabilità andrebbero finalmente individuate tanto per i singoli quanto per l’associazione di categoria ed i partiti.

    In questo contesto, in più, non va dimenticato come all’interno di un mercato concorrenziale, le cui dinamiche principali dovevano essere conosciute alla classe politica e governativa italiana, a differenza di quanto hanno sempre dichiarato, cioè di voler abbassare il costo del lavoro, tutti i governi con le proprie politiche adottate abbiano ottenuto esattamente l’effetto opposto.

    In altre parole, al di là delle dichiarazioni, il risultato è stato di accrescere cioè il costo del lavoro in Italia, una cosa fondamentalmente stupida e grave specialmente se consapevoli di operare in un mercato globale all’interno del quale il fattore principale concorrenziale è proprio quello relativo al costo del lavoro.

    Questi due fattori, quindi, l’incapacità di comprendere gli scenari economici nel medio-lungo termine espressione di una classe politica e dirigente con una preparazione aggiornata precedentemente al crollo del muro di Berlino (1) unita ad una assoluta irresponsabilità della classe governativa e politica in relazione agli effetti dei continui aumenti del costo del lavoro all’interno di un mercato concorrenziale e globale (2) hanno reso il nostro Paese l’unico a crescita negativa per quanto riguarda le retribuzioni negli ultimi 30 anni (28.10.2021 https://www.ilpattosociale.it/attualita/che-altro-aggiungere/).

    Questi due devastanti fattori combinati insieme hanno portato all’ennesima scelta da parte di un fondo straniero di delocalizzare la produzione, ora in Italia, dei cerchi in lega della Speedline (azienda della provincia di Venezia con 600 dipendenti). Un dramma che nasce certamente dalla volontà speculativa della proprietà ma anche dagli ampi spazi lasciati da una deleteria politica governativa italiana degli ultimi vent’anni unita ad una sostanziale incompetenza della classe dirigente accademica italiana rispetto agli effetti dell’ingresso nel Wto della Cina.

    La Cina, con le proprie contraddizioni democratiche fino ad oggi assolutamente non considerate (*), si è seduta ad un tavolo imbandito ricco e privo di ogni regola di Galateo e di educazione assicurata nel proprio operato da una infantile visione globalista abbracciata dalla cosiddetta classe politica progressista. Si è così concesso al Gigante dall’estremo Oriente di mangiare con le mani non solo dal proprio piatto ma soprattutto da quelli degli altri.

    (*) Si pensi al vergognoso accordo con la Cina “la via della seta” siglato dal governo Conte, vera espressione del siderale vuoto culturale ed economico di un intero governo ma anche di una assoluta insensibilità democratica.

  • La fiscalità “alluvionale” di svantaggio

    Il nostro Paese sta conoscendo sempre più frequentemente gli esiti di eventi meteorologici spesso drammatici non solo per l’intensità crescente degli stessi ma anche a causa della mancanza di programmazione e di investimenti infrastrutturali precedenti finalizzati a mitigarne gli effetti. Una situazione talmente paradossale in quanto gli investimenti in sicurezza territoriale risulterebbero molto inferiori ai successivi interventi di finanza straordinaria alle quale gli enti statali e locali si trovano obbligati a porre in essere con l’obiettivo di mitigarne i devastanti effetti per la popolazione.

    Questo approccio suicida, purtroppo, trova ora la propria corrispondenza anche all’interno della politica economica e strategica del governo in carica. Nonostante le “risibili” affermazioni di un tale Di Maio relativamente alla risoluzione della vicenda Whirlpool la compagnia statunitense ha confermato la volontà di delocalizzare in Repubblica Ceca la produzione a basso valore aggiunto. Una decisione terribile in considerazione dell’impatto sociale ma motivata anche dal semplice confronto tra i costi della burocrazia italiana la quale pesa tre volte quella ceca per unità di prodotto.

    Le crisi relative ad aziende una volta padronali, e per questo indicate come insostenibili dalla intelligentia accademica, ora sono passate a fondi privati i quali senza alcun timore chiudono quei siti produttivi lontani dai mercati di sbocco come sta avvenendo nella filiera della Automotive a causa anche della svolta elettrica europea.

    In questo contesto la scelta del governo Draghi di imporre una prelievo del 2% sul fatturato ad un’azienda multinazionale che volesse chiudere il sito produttivo nel nostro territorio e l’obbligo di preoccuparsi della riallocazione dei lavoratori rappresenta un vero e proprio “suicidio assistito” in ambito economico. Invece di analizzare le cause relative alle scelte di chiudere determinati siti produttivi sul nostro territorio si preferisce imporre un’ulteriore “garrota burocratica” la quale implicitamente assolve da ogni responsabilità la classe politica e dirigente italiana in relazione alla disastrosa macchina burocratica e della Giustizia italiana. Queste due rappresentano la vera motivazione per cui o le aziende chiudono siti produttivi dislocati sul territorio o evitano di investire risorse per allestirne di nuovi. In altre parole viene abbandonata la scelta di tutelare il Made in Italy supportandolo anche fiscalmente attraverso una “fiscalità di vantaggio” con l’obiettivo di facilitare la riallocazione della  produzione una volta all’estero assecondando così una tendenza relativa alla riduzione della filiera già in atto (05.03.2020 https://www.ilpattosociale.it/attualita/made-in-italy-valore-economico-etico-e-politico/). Viceversa viene adottata la strategia, accecati da un vulnus ideologico, di impone un ulteriore aggravio burocratico ed economico tale da rendere il nostro Paese ancora più lontano ed attrattivo per gli investimenti esteri.

    Esattamente come avviene per la politica ambientale, nella quale si preferiscono interventi di finanza straordinaria per riparare ai mancati investimenti a tutela del territorio, ora si utilizza il medesimo degrado  ideologico identificabile in “una fiscalità di svantaggio” la quale avrà l’unico effetto di rendere il nostro Paese ancora meno attrattivo per gli investimenti esteri e, di conseguenza, da rendere ancora più debole il supporto al Made in Italy che rappresenta la nostra vera ed unica forza industriale.

    Attraverso la semplice analisi costi/benefici emerge evidente come raramente una iniziativa governativa abbia raggiunto un livello così miserevole nella strategia economica.

  • Sostenibilità e competitività

    In risposta agli effetti devastanti sotto il profilo sociale ed economico dovuti anche a fattori preesistenti ed amplificati dall’impatto della pandemia molto spesso si indica la necessità di una ripresa anche culturale del nostro Paese negli ultimi vent’anni.

    In modo alquanto superficiale o comunque parziale si è portati a far credere come una ripresa culturale italiana, che avrebbe indubbiamente degli effetti positivi anche economici, si possa identificare essenzialmente nella valorizzazione del nostro patrimonio culturale e storico. Indubbiamente il patrimonio culturale italiano, al quale va sicuramente aggiunto anche il patrimonio ambientale che rende il nostro Paese unico al mondo, va valorizzato nella sua articolata complessità.

    Questa “rinnovata” strategia, tuttavia, non rappresenta una vera e propria svolta culturale della quale l’Italia sente il bisogno ma soprattutto non presenta i connotati di un vero e proprio riscatto culturale. Da troppo tempo, probabilmente proprio a causa delle barriere culturali che nascono da preconcetti ideologici, competitività e sostenibilità vengono considerate strategie ed obiettivi incompatibili all’interno di una strategia di crescita economica complessa. Buona parte dei sostenitori della priorità del perseguimento degli obiettivi di sostenibilità individuano nell’industria e nei prodotti che questa propone il principale veicolo di inquinamento dimenticando, per esempio, come una semplice email produca 2 gr di Co2.

    Partendo, quindi, da questo principio prevalentemente ideologico risulta evidente come venga individuato, per il conseguimento degli obiettivi di sostenibilità, l’aggravio della tassazione già insostenibile per le imprese italiane come per gli utenti. In questo senso infatti il (per fortuna) ex ministro Costa del governo Conte 2 aveva proprio in animo di aumentare la tassazione e le accise sui carburanti. La sintesi di tali approcci ideologici non fa altro che tradursi in un aggravamento della competitività del “Sistema Italia” all’interno di un mercato globale.

    Non sazi dell’utilizzo della leva fiscale come strumento per il conseguimento della sostenibilità del sistema si è arrivati addirittura ad una ridicola Sugar e Plastic Tax: la prima addirittura espressione di uno Stato etico nel quale vengono penalizzati fiscalmente gli stili di vita. Questo approccio, quindi, si accontenta di penalizzare la competitività di un sistema economico nazionale come espressione della vittoria di un’ideologia ambientalista assolutamente svincolata dal contesto di una economia reale. Viene premiato, in altre parole, il semplice ritorno mediatico immediato rispetto alla concretezza delle misure attuate il cui peso si ripercuote sulla competitività delle imprese a favore di quelle del Far Est esentate da questa “virtuosa leva fiscale” ambientalista.

    Dall’altra parte ed in fortissima contrapposizione rispetto agli effetti come all’utilizzo della leva fiscale la ricerca della competitività ha spinto molte industrie a delocalizzare in paesi a basso costo di manodopera anche all’interno della stessa Unione Europea con l’obiettivo di ottenere in primis una maggiore competitività grazie ad un costo del lavoro inferiore ma soprattutto una maggiore redditività e remunerazione del capitale investito. Il costo del lavoro complessivo inferiore, va ricordato, è espressione anche di normative assolutamente tolleranti relative al rispetto dei già minimi fattori di sostenibilità produttiva.

    Se questo, seppure in maniera semplificata, rappresenta il contesto di partenza dal quale elaborare delle innovative strategie economiche in grado di offrire una sintesi tra i due obiettivi maggiore sostenibilità e maggiore competitività di insieme forse possono intravedersi i primi timidi segnali di un vero risveglio culturale del quale non solo il nostro Paese sembra averne bisogno.

    Uno degli aspetti fondamentali che attraggono investimenti all’interno di paesi a basso costo di manodopera è determinato anche da una normativa alquanto lacunosa in termini di tutele del personale impiegato quanto dell’ambiente circostante. In altre parole, in determinati paesi si possono utilizzare tipologie di produzione anche con l’utilizzo di determinate lavorazioni assolutamente incompatibili con le normative europee e statunitensi. Prima più timidamente Obama, successivamente con maggiore decisione Trump, ora l’amministrazione Biden hanno riportato al centro dello sviluppo economico del proprio Paese la tutela della produzione made in USA.

    In questo contesto di rinnovata attenzione all’economia reale assume sempre maggiore importanza un nuovo approccio economico decisamente innovativo. Partendo infatti dalla salvaguardia della competitività di impresa e del sistema economico, che rappresentano fattori di sviluppo, questi possono essere preservati solo attraverso un minimo di normative condivise a tutela dei lavoratori, del consumatore e della sostenibilità ambientale. Allora ecco come comincia a delinearsi quel salto culturale al quale si accennava precedentemente.

    Al fine di superare il contrasto tra la ricerca di una maggiore sostenibilità, molto spesso opposta alla competitività, e la avveduta politica governativa si apre l’opportunità di intervenire con l’obiettivo di creare una sintesi tra i due fattori. All’interno, infatti, di questa nuovo pensiero economico viene richiesto allo Stato di inserire una Border Carbon Tax la quale dovrebbe venire applicata a tutti i prodotti, di consumo o intermedi, i quali siano espressione di economie i cui sistemi normativi risultino al di sotto di standard minimi di sostenibilità ambientale applicati viceversa alla produzione nazionale. Questa tassazione non si ripercuoterebbe sulla competitività delle imprese ma solo sulle importazioni da paesi con bassissimi standard di eco compatibilità e sostenibilità. I proventi di tale tassazione andrebbero investiti per finanziare ulteriori evoluzioni verso una maggiore sostenibilità complessiva avviando quindi un processo virtuoso nella rincorsa alla maggiore sostenibilità possibile sia nei paesi dove questa tassazione venga applicata quanto in quelli che non intendano subirla.

    In altre parole, come il recente blocco di una fornitura di filati di cotone made in China voluta dalla presidenza Biden, in quanto negli stabilimenti veniva utilizzato personale in stato di schiavitù, ora alla stessa amministrazione viene proposto il diverso utilizzo della leva fiscale per la prima volta finalizzata per un duplice obiettivo. Il doppio effetto sarebbe quello di ridare competitività alle produzioni all’interno dei paesi che hanno subito in questi ultimi anni l’effetto speculativo delle delocalizzazioni e di finanziare l’evoluzione sostenibile. Contemporaneamente tutte le nazioni che dovessero subire questa tassazione sarebbero incentivate ad una maggiore ricerca di sistemi produttivi con minore impatto ambientale. Il combinato di questi due politiche porterebbe tanto i paesi già evoluti quanto quelli in via di sviluppo complessivamente ad una maggior ricerca di una riduzione dell’impatto ambientale dei sistemi economici nazionali.

    Per una volta, quindi, il corretto utilizzo della leva fiscale potrebbe rappresentare quel riscatto culturale nel nostro Paese come del mondo occidentale nel suo complesso. Riuscire attraverso un equo quanto corretto intervento dello Stato in linea con questo nuovo dottrina economica ad avviare un processo virtuoso attraverso la leva fiscale la quale, per la prima volta, invece di diminuire la competitività innescherebbe un nuovo percorso virtuoso.

    La rivoluzione culturale viene rappresentata dall’abbandono di una cultura ambientalista da sempre penalizzante per i paesi dell’economia occidentale per passare attraverso l’utilizzo della leva fiscale per innescare un processo virtuoso verso una sostenibilità globale che coinvolga tutti gli attori del mercato globale.

    Se la competitività rappresenta un fattore del mercato globale la sostenibilità non può di certo scaturire da un sistema normativo nazionale o al massimo europeo esentando il resto degli attori dello stesso mercato mondiale.

  • Made in Italy: valore economico, etico e politico

    Le delocalizzazioni produttive rappresentavano il trasferimento del vantaggio culturale e tecnologico (espressione dell’evoluzione tecnica e culturale) dei paesi occidentali ai paesi a basso costo manodopera.

    All’interno di questo processo produttivo, frutto dell’applicazione dell’aspetto speculativo tipico del mondo finanziario al mondo industriale, si inserisce una nazione come la Cina che utilizza la propria struttura politica, certo non soggetta ad approvazione elettorale, per rendere ancora più vantaggioso il costo del lavoro cinese con i carcerati di una minoranza etnica e religiosa all’interno delle strutture produttive (https://it.fashionnetwork.com/news/Cina-molti-grandi-marchi-legati-al-lavoro-forzato-degli-uiguri-,1193322.html). Non è più tollerabile per i consumatori occidentali accettare prodotti made in China frutto non tanto di economie in scala a basso costo di manodopera ma anche della volontà di uno Stato dittatoriale che utilizza i propri sudditi detenuti. In questo senso, infatti, va inserita la proposta di legge statunitense Shop Safe Act la quale attribuisce la responsabilità anche al gestore dell’e-commerce nel caso di una proposta commerciale di prodotti contraffatti made in China, rispondendo così in modo attivo alle richieste dell’American Apparel &Footwear Associaton che aveva sollevato questo problema in nome ed in rappresentanza di oltre mille aziende associate.

    Ovviamente in Italia iniziative del genere da parte delle associazioni di categoria risultano nulle come l’annunciata blockchain ministeriale che si è arenata per mancanza di fondi.

    Tornando quindi allo sfruttamento di maestranze già sotto il vincolo della detenzione risulta evidente come questa situazione rappresenti una versione 4.0 dello schiavismo, con buona pace dei sostenitori dell’economia globale priva di un senso e soprattutto di un quadro normativo generale a tutela del lavoro condiviso.

    In questo contesto privo di ogni minimo comune denominatore normativo a tutela dei lavoratori le delocalizzazioni rappresentano semplicemente l’extra guadagno per gli azionisti in quanto molto spesso non vengono trasferite sul prezzo finale al consumatore.

    Ora più che mai la tutela del Made in Italy rappresenta una risorsa economica ma anche etica e politica. Magari copiando protocolli dello Swiss Made ed iniziative legislative Made in Usa.

  • I maestri di sci…Iliad e i sindacati

    Due o tre stagioni fa si aprì una forte polemica che vide protagonisti i maestri di sci dell’Alto Adige i quali si lamentavano (a ragione) della concorrenza sleale dei loro colleghi con licenze intra ed extra comunitarie in relazione ovviamente alle tariffe che praticavano inferiori dal 50 all’80% .

    L’ultimo dato relativo alla stagione 2017-2018 ha rilevato come i maestri con licenza non italiana che abbiano operato sulle piste italiane siano risultati 2314. Emerge evidente che le rimostranze di allora dei maestri di sci avevano un fondamento economico in quanto anche il solo costo per ottenere il brevetto italiano risulta superiore, e quindi professionalmente molto più qualificante, rispetto a quelli extra europei. I brevetti di maestro di sci extracomunitari di conseguenza sono espressione di dumping normativo sociale e professionale.

    Quando mi venne chiesta una opinione in merito alla concorrenza scorretta quale effetto appunto di questo dumping normativo ed economico innanzitutto ribadii la mia vicinanza al corpo ai maestri di sci. Tuttavia rispetto alle giuste rivendicazioni dei maestri dell’Alto Adige sottolineai come negli ultimi 10 anni questi non si fossero mai preoccupati quando allacciavano le loro giacche a vento e gli scarponi per calzare  gli sci se tali prodotti complessi, che erano la sintesi di una filiera produttiva e quindi di know how, fossero prodotti in Italia oppure nell’etichetta venisse indicato un paese di produzione a basso costo di manodopera.

    In questo modo avrebbero avuto la possibilità di percepire quanti posti di lavoro fossero stati cancellati attraverso le delocalizzazioni produttive.

    Ricordai allora, come riaffermo adesso, che le delocalizzazioni come la concorrenza non si sarebbero fermati al solo settore manifatturiero ma che avrebbero trovato la massima applicazione proprio nel settore dei servizi. L’esplosione di maestri con licenza estera (2314 appunto) conferma questa mia opinione espressa  con meritorio anticipo.

    Ora i sindacati italiani lanciano l’allarme sulla possibilità di ripercussioni occupazionali relativa all’ingresso del mondo della telefonia mobile di Iliad, nuovo esercente telefonico che ha ottenuto un grandissimo successo in

    Francia grazie all’abbattimento delle cifre praticate alla clientela finale. Sembra incredibile come di fronte alle disastrose gestioni della Telecom, per esempio, da parte dei vari gruppi di controllo che l’hanno privata del proprio patrimonio tecnologico ed immobiliare i sindacati tutto sommato abbiamo avuto una posizione di sostanziale attesa. Un tatticismo politico, quello dei sindacati, confermato sostanzialmente con una  posizione ancora una volta attendista in quanto non hanno espresso nessuna opinione quando a delocalizzare risultavano le aziende produttive di estrazione industriale. Una posizione tanto attendista tale da non aver mai fatto prendere nemmeno una iniziativa a livello di sostegno politico alla creazione di una normativa a tutela della filiera del made in Italy .

    A questa miopia si è aggiunta poi la convinzione che mai il principio della concorrenza potesse venire applicato anche al settore dei servizi.

    A puro titolo di cronaca si ricorda che l’intero mondo accademico italiano e politico ha sempre individuato fino al 2011 come la nostra economia fosse basata o dovesse trovare la propria via per lo sviluppo, sui servizi sostanzialmente post-industriali.

    I maestri di sci dell’Alto Adige allora, come sindacati ora, forse riusciranno a comprendere come la concorrenza porti come logica conseguenza ad un maggiore carico lavorativo abbinato ad una redditività inferiore. Soprattutto verrà compreso come il mercato globale e la tecnologia  che lo rende fruibile a tutti i livelli  non presenti limitazione di applicazione al solo mondo produttivo, come molti, in modo assolutamente errato, avevano previsto se non  addirittura sperato.

    Per sua stessa natura la sintesi tra l’applicazione del principio di concorrenza e dello sviluppo tecnologico trova la massima espressione quando, applicata al mercato dei servizi, che risulti professionale o telefonico, non determina alcuna differenza.

  • Vent’anni passati inutilmente

    Alla fine degli anni ‘90 si aprì negli Stati Uniti un interessante confronto che opponeva economisti e fiscalisti i quali, al di là delle diverse opinioni politiche ed economiche, partivano dalla valutazione di un dato oggettivo.

    Dai dati economici relativi ai consumi e alla distribuzione della ricchezza negli Stati Uniti emergeva evidente  come l’economia americana stesse aumentando sempre di più la differenza tra ceto abbiente e fasce della popolazione sempre più in difficoltà e come l’ascensore sociale ed economico sostanzialmente si fosse fermato a favore invece di rendite di posizione. La discussione divenne particolarmente accesa ed articolata in relazione alle politiche da scegliere per porre rimedio a questa deriva economica e sociale. Le differenti posizioni vedevano contrapposte strategie che puntavano sul minore carico fiscale per fornire nuova linfa alla crescita economica in antitesi con chi invece indicava nella maggiore pressione fiscale sui redditi più alti la ricetta per diminuire tali divari economici tra le diverse fasce di popolazione.

    Al di là delle diverse posizioni tutti partirono dal presupposto, considerato come un dato indiscutibile, che la società dei servizi, quindi sostanzialmente l’economia post-industriale, manifestava il suo limite  proprio nella distribuzione del reddito prodotto, soprattutto e sostanzialmente a causa della minore concentrazione di manodopera per milioni di fatturato che l’economia dei servizi richiedeva.

    In altre parole, al di là delle diverse ricette proposte, da allora cominciarono una nuova visione ed una nuova strategia economica che ponevano all’interno, come al centro, dello sviluppo economico che potesse  assicurare non solo la redditività del capitale ma anche un maggior benessere diffuso: la crescita economica ed industriale. In quel periodo nacque la rivalutazione delle riallocazioni produttive una volta delocalizzate in Paesi a basso costo di manodopera, il cosiddetto reshoring produttivo.

    Ora, a distanza di vent’anni, la nomenclatura economica e politica europea ed  italiana osserva i medesimi effetti legati alla deindustrializzazione europea, in particolare dei paesi del Sud Europa, senza averne ancora  compreso le ragioni e tantomeno trovato le soluzioni. I dati relativi infatti all’aumento della forbice tra redditi alti e medio bassi registrano ancora una volta una diminuzione di consumi redditi bassi pari al -5%. Anzi, si sta addirittura cercando di accrescere tale declino economico e sociale (scelta legata, si spera, all’ignoranza e non ad una consapevole strategia) che investe sostanzialmente il ceto medio attraverso l’introduzione di modelli economici come la Gig e la Sharing Economy. La loro applicazione infatti tenderà a rendere ancora maggiori i divari come le dinamiche tra i titolari e i gestori di servizi ed il personale chiamato a gettone ad eseguire questi interventi professionali. Quella stessa Gig Economy presentata dalla candidata alla presidenza degli Stati Uniti Hillary Clinton e che fu bocciata clamorosamente dalla ritrovata centralità della politica industriale dell’attuale presidente Donald Trump.

    Sembra incredibile come, a fronte di una storia conosciuta e che quindi può ma soprattutto dovrebbe rappresentare un esempio importante quantomeno per avviare una discussione in Italia come in Europa, non esista nel passato remoto come prossimo e tantomeno nel futuro una politica che porti al centro dello sviluppo economico nazionale ed europeo una fiscalità di vantaggio esattamente come quella voluta da Cameron prima del risultato della Brexit che ha dato tanto aiuto all’economia inglese dopo la fuoriuscita dall’Europa. Una strategia economica che utilizza il fattore fiscale come elemento competitivo che non ha nulla in comune con la volontà di penalizzare chi delocalizza le produzioni attualmente. Dimostrando, in quest’ultimo caso, come la politica ancora non abbia capito come non serva a nulla porre dei paletti o dei divieti quando invece dovrebbe favorire l’economia e non viceversa penalizzare determinate scelte che possono essere condivisibili o meno ma che rappresentano comunque l’espressione di una volontà imprenditoriale legittima in quanto manifestazione di strategie con capitale di rischio.

    Ancora riesce difficile comprendere come la sola fiscalità di vantaggio rappresenti oggi il fattore fondamentale per attirare la riallocazione di produzioni una volta delocalizzate nei paesi a basso costo di manodopera, come degli investimenti esteri, all’interno del nostro Paese unito ad una stabilità monetaria che ovviamente un ritorno alla Lira non potrebbe assicurare.

    Vent’anni risultano passati da quell’interessante confronto politico negli Stati Uniti alla fine degli anni novanta, trascorsi evidentemente inutilmente perché invece di far tesoro delle esperienze di nazioni più evolute della nostra continuiamo a commettere gli errori tipici di chi non abbia memoria e intelligenza per trarre lezioni della storia.

  • Il relativismo fiscale

    Quando F.c.A. decise di delocalizzare la sede legale in Olanda ma soprattutto quella fiscale a Londra per usufruire delle minori aliquote sugli utili aziendali il governo Renzi affermò che questo rappresentava il modello di azienda  per il futuro economico di sviluppo italiano. A tal riguardo si ricorda la quasi contemporanea approvazione del Jobs Act con il quale  risultarono fiscalizzati  gli oneri sociali per tre anni facendo ricadere quindi sul sistema fiscale nazionale il peso degli oneri contributivi  precedentemente a carico delle aziende. Una scelta strategica opinabile ma assolutamente legittima della quale ha usufruito anche la stessa F.c.A.

    Va però ricordato che la casa automobilistica non contribuisce in nessun modo alla creazione del gettito fiscale avendo delocalizzato la propria sede fiscale a Londra. Per essere un modello di riferimento  francamente più che altro assomiglia più ad un modello di elusione fiscale. Questo tuttavia veniva presentato come modello di azienda italiana per lo sviluppo economico dall’allora presidente Renzi e dall’attuale ministro dell’economia Calenda.

    Successivamente, nello stesso anno, il governo Renzi si fece promotore dell’apertura di una fabbrica di ciclomotori Piaggio nel Vietnam durante una visita di stato nel paese asiatico. Come contropartita lo stesso governo non esitò  ad annullare i dazi sul riso vietnamita esponendo quindi tutto il mondo della risicoltura italiana ad una concorrenza assolutamente sleale. Per di più tale decisione non solo ha messo in crisi la risicoltura italiana ma contemporaneamente non ha avuto nessuna ricaduta occupazionale per quanto riguarda il gruppo Piaggio in Italia, dimostrando ancora una volta la miopia di chi decide e sceglie le strategie economiche di sviluppo facendo pagare alle eccellenze italiane scelte strategiche assolutamente sbagliate.

    Il principio della  concorrenza tanto osannato ancora oggi dai principi accademici italiani potrebbe essere anche sopportabile se fosse seguito da un’azione normativa finalizzata a tutelare il prodotto italiano, sia questo materiale o immateriale, delle imprese italiane. In questo modo poi rispondendo ad una esigenza del mercato mondiale che sempre più chiede prodotti che risultino espressione della “cultura contemporanea” (sintesi di creatività know-how professionale ed industriale) della nazione (Made In).

    In modo infantile si crede ancora invece che il solo aumento della produttività nel nostro paese possa  annullare la concorrenza dei paesi a basso costo di manodopera espressione di un  ritardo sociale, politico ed economico.

    L’altra espressione di questa terribile e al tempo stesso sciocca ideologia economica (perché non si tratta di dottrina economica ma di pura ideologia) risulta l’appoggio, a cominciare dagli anni 80, alle delocalizzazioni produttive considerate come delle scelte inevitabili. Fino all’esplodere della crisi economica e finanziaria del 2011 tutto il mondo economico non perdeva occasione per indicare come superata la visione che considerava l’industria, ed in particolare le Pmi, centrali nello sviluppo economico. Quando ormai già da anni risultava evidente che le delocalizzazioni produttive invece rispondevano solo ad una logica speculativa nel brevissimo termine, come dovette ammettere anche l’università di Harvard a circa cinque anni fa.

    Risulta ugualmente chiaro come la vicenda della chiusura dello stabilimento Whirpool  non possa solo venire attribuita alla miopia del governo Renzi, che con la Whirlpool  aveva nel 2015 raggiunto un accordo i cui contenuti risultano ancora sconosciuti, considerati gli effetti disastrosi con la chiusura dello stabilimento  Embraco.

    Come non ricordare presidenti del Consiglio, docenti universitari, ministri dell’economia irridere con le loro prese di posizioni, esempio di superficialità ed arroganza pseudo culturale, nei confronti di azioni come quelle dei  contadini, del tessile ed  altre iniziative di associazioni che lamentavano un assoluto abbandono in relazione alle loro problematiche da parte della classe politica accademica ed economiche in generale. Come non ricordare le tronfie dichiarazioni sempre di  presidenti del Consiglio e di segretari di partito inneggianti ad una “una economia post industriale basata sui servizi” che tutti sottoscrivevano a partire dal mondo accademico, politico e degli economisti?

     

    Arrivando addirittura alle affermazioni di un Ministro, durante una cerimonia di apertura di una importante fiera milanese del tessile come Milano Unica, che dichiarò candidamente che l’Italia avrebbe vissuto di design. A fronte di tale affermazione assolutamente priva di qualsiasi contenuto economico nessuno ebbe nulla da obiettare ad esclusione Luciano Barbera, presidente dell’omonimo gruppo.

    La presa di posizione dell’attuale ministro dell’economia, tornando alla questione del presunto dumping fiscale della Slovacchia, non risulta che un’operazione di immagine in quanto gli stessi governi ai quali  ha partecipato hanno utilizzato la leva fiscale per abbassare il costo del lavoro, cercando, senza ottenerlo, di rendere il nostro paese maggiormente attrattivo  in relazione agli investimenti esteri.

    A tal fine si ricorda come il World Economic Forum in una recente ricerca abbia escluso da qualsiasi tipo di classifica l’Italia per quanto riguarda l’attrattività di investimenti esteri a causa ovviamente di una legislazione farraginosa, di una pubblica amministrazione fornitrice di alcun servizio e ad un sistema  giudiziario  che rifiuta qualsiasi forma di  riforma.

    A questo ‘assoluto in pace’ della pubblica amministrazione si aggiunga poi che dal 1996 al 2006, a fronte di un aumento dell’inflazione del 40,1%, la pressione fiscale viceversa risulta aumentata dell’80,3%.

    Numeri e trend  ovviamente attribuibili soprattutto a tutti i governi precedenti il 2011 ma che comunque sono visti come attori di questo disastro economico e normativo che presenta come unico tragico risultato allontanare gli  investimenti che nel 2016 hanno registrato un -18% e nel 2017 un -32%.

    Tali fuoriuscite di capitali si manifestano attraverso la chiusura di aziende come la Whirlpool assieme a mancati investimenti che denotano una mancanza di fiducia nel nostro paese e nel suo modello economico.

    Del resto risulta insostenibile  un sistema economico nel quale esistono 871 adempimenti burocratici in un anno a carico delle aziende, frutto di trent’anni  anni di politica anti industriale e delle ultime “riforme fiscali” o  dei governi Monti , Renzi e Gentiloni.

    Quindi, se il principio di concorrenza viene accettato nel mondo economico delle imprese private non può assolutamente diventare un dumping quando viene utilizzata la leva fiscale per attrarre imprese ed industrie ad investire in un determinato paese. Del resto come non ricordare le politiche di fiscalità di vantaggio  per il rilancio dell’economia del Sud Italia. A differenza delle politica, l’economia applica i principi riconosciuti come tali in ogni settore dell’articolato mondo globale economico.

    Questa sorta di relativismo che vede esponenti del governo considerare  appropriata la fiscalizzazione  degli oneri contributivi (Jobs act) ma che successivamente critica  un altro paese che la utilizza per incentivare gli investimenti nel proprio territorio si rivela come espressione di un “relativismo fiscale” che in ambito economico risulta  assolutamente ingiustificato ed insostenibile.

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