Draghi

  • Le prossime elezioni del Presidente della Repubblica

    Mancano ormai poche settimane all’inizio del semestre bianco precedente l’elezione del Presidente della Repubblica. Già da mesi si assiste al solito tourbillon di papabili candidati scelti spesso nel mazzo delle vecchie e ampiamente compromesse cariatidi del sistema politico italiano.  A queste figure si unisce qualche improponibile nuovo “rappresentante della società civile” la cui genesi spesso è semplicemente mediatica.

    In questo contesto disarmante, tuttavia, considero sciagurata la sola idea di proporre, figuriamoci di eleggere, Mario Draghi alla Presidenza della Repubblica. Non tanto per la indiscutibile considerazione dell’attuale Presidente del Consiglio quanto perché questo sarebbe il più grande regalo immeritato al sistema politico e soprattutto ai partiti. Va ricordato, infatti, come l’incarico a Mario Draghi nasca dalla presa di coscienza dell’incapacità degli ultimi governi, dal 2015 in poi, i quali ci hanno portato alle soglie della pandemia in uno stato di crisi economica senza precedenti e con un insostenibile rapporto debito PIL (https://www.ilpattosociale.it/politica/il-silenzio-rappresenta-lunica-forma-di-comunicazione/).

    L’attuale Presidente del Consiglio è subentrato per la manifesta incapacità dei governi precedenti, e quindi della classe politica che esprimeva queste maggioranza di sostegno al governo Conte 1 e Conte 2, nel riuscire a presentare un piano per ottenere le risorse del Recovey Fund. La seconda parte dell’incarico all’ex presidente della BCE è ovviamente relativa alla gestione delle risorse finanziarie che l’Unione Europea vorrà concederci. La sua elezione alla presidenza della Repubblica lo priverebbe dell’incarico di Presidente del Consiglio e, di conseguenza, del potere esecutivo per la gestione e controllo di questi fondi che verrebbero di nuovo nella disponibilità di quel sistema politico che non era in grado di ottenerli ma che sicuramente sarà in grado di disperderli.

    Per questo i partiti si augurano la elezione di Mario Draghi alla Presidenza della Repubblica al fine di riottenere di nuovo mani libere di fronte a questi nuovi fondi (quasi tutti a debito) che se non si trasformeranno in fattori economici di sviluppo porranno il nostro Paese in una situazione di estrema difficoltà per il rapporto debito pubblico / PIL.

    La sua elezione sarebbe il più grande regalo e per di più immeritato al sistema dei partiti italiani.

  • 2011-2021 il fil rouge di Mario Draghi

    Il governo dei tecnici viene spesso identificato in quello di Monti entrato in carica il 16 novembre 2011. Il governo dell’ex presidente della Bocconi non fece altro che aumentare le tasse disintegrando interi settori come quello nautico esattamente come un qualsiasi governo politico di basso rango: in altre parole, la figura di Monti non portò alcun valore aggiunto, anzi. Per non parlare della querelle relativa alla indicazione del numero degli esodati, neppure ora conosciuti all’ex presidente Monti quanto alla, per fortuna, ex ministra Fornero.

    La vera salvezza del governo Monti, che ebbe persino l’ardire di arrogarsi l’abbassamento dello spread, venne rappresentata dall’azione parallela del presidente della BCE Mario Draghi che acquistò tutti i titoli invenduti del debito pubblico al mercato secondario riportando sotto controllo lo spread. Una strategia decisamente importante la quale innescò anche un vivace dibattito al Parlamento tedesco in quanto il presidente della BCE venne accusato dai parlamentari tedeschi di esulare dalle proprie competenze ma soprattutto di utilizzare risorse comunitarie per obiettivi nazionali.

    Quindi Monti e Draghi rappresentano due esempi opposti di competenza in ambito governativo e soprattutto di capacità di intervenire con responsabilità a favore del nostro Paese.

    Negli anni successivi alla caduta del governo Monti il perdurare della stagnazione economica ha determinato le scelte del presidente della BCE con l’introduzione del quantitative easing e successivamente del “whatever it takes” lasciato in eredità anche alla nuova presidenza della BCE.

    Politiche di forte espansione monetaria e finanziaria che hanno permesso una vera e propria “sospensione dalla realtà” della valutazione dei titoli del nostro debito pubblico proprio grazie all’azione calmierante della BCE. Questa politica espansiva ha permesso al nostro Paese e soprattutto ai nostri governi di aumentare vertiginosamente tanto la spesa pubblica improduttiva quanto il debito contando proprio sull’effetto anestetizzante dell’azione del presidente della BCE e con la conseguente valutazione “bonaria” dei nostri titoli del debito pubblico.

    Questa situazione ora comincia a vacillare in considerazione del fatto che il tasso di interesse nei nostri titoli di Stato è superiore a quello della Grecia: un indice che esprime una valutazione molto ma molto preoccupante.

    Inoltre, rispetto alla figura di Monti, sicuro della propria superiorità intellettuale, la figura di Mario Draghi viene evocata per coprire l’incompetenza dell’attuale governo dimissionario anche nella semplice estensione del Recovery Plan. La figura dell’ex presidente della BCE deve quindi assicurare la funzionalità delle risorse del Recovery fund ottenute per il sistema economico nazionale.

    Indubbiamente la scelta del presidente Mattarella è con largo anticipo auspicata da chi scrive già nel marzo 2020 (https://www.ilpattosociale.it/attualita/draghi-tra-omt-e-credito-alle-imprese/).

    La scelta presidenziale rappresenta ora l’extrema ratio al fine di rimediare ad una situazione di assoluto stallo politico ormai insostenibile nel quale gli ultimi due governi Conte 1 e Conte 2 avevano offerto il peggio di quanto fosse umanamente possibile sopportare da parte dei cittadini italiani. Basti pensare, solo per dare un esempio: 1. ai banchi con le rotelle destinati ora ai magazzini degli edifici scolastici e bocciati persino dei medici, 2. al Cashback, 3. alla lotteria degli scontrini, 4.ai ristori sulla base del codice Ateco, 5. al bonus monopattini, 6. all’incapacità organizzativa del Piano sanitario per la vaccinazione, 7. alle vergognose primule firmate dall’archistar Boeri e che costeranno oltre 400 milioni, 8. alla vergognosa figura nei confronti del Cio per la creazione di Sport& Salute, 9. agli  imbarazzanti conti, rispetto ai costi reali, delle prossime Olimpiadi del 2026 di Cortina e Milano, 10. Agli scandalosi costi aggiuntivi per l’acquisto delle siringhe, 11. alla mancanza di un piano pandemico avendo solo aggiornato nella data, in modo truffaldino, quello del 2006, 12 .alla mancata riforma del sistema elettorale, 13. alla conclamata incapacità di redigere  un Recovery Plan mentre la Francia l’ha presentato la terza settimana di settembre, 14. ad una risibile apertura all’economia cinese priva di ogni tutela per i prodotti italiani (Via della Seta), 15. alla Sugar e Plastic tax, anche se per ora rimandate, 16. alla ridicola gestione della problematica di Autostrade che offre alla famiglia Benetton la possibilità di appellarsi all’Unione europea, 17. alla continua importazione di mascherine dalla Cina prive dei requisiti richiesti dal protocollo europeo, 18. al rifinanziamento di Alitalia con altri tre miliardi.

    Questo passaggio istituzionale voluto dal Presidente della Repubblica Mattarella apre uno scenario assolutamente nuovo per il nostro Paese ma non privo di incertezze.

    Dall’inizio della prima ondata della pandemia nella primavera del 2020 le scellerate scelte di questo governo hanno ridotto Il nostro Paese a sostenere come costi di servizio al debito un tasso di interesse superiori persino alla Grecia. Questo valore indica come in questo momento l’Italia venga considerata nello scenario internazionale finanziario esposta a rischio maggiore della stessa Grecia.

    Tutto questo è ovviamente anche la sintesi di vent’anni di disastrosa politica economica della spesa pubblica e della conseguente esplosione del debito stesso imputabile ai governi Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte 1 e Conte 2.

    Basti pensare come al febbraio 2020 (inizio di questa terribile epidemia) il nostro Paese risultasse arrivato ad debito pari al 135 % del PIL mentre la Germania registrava un rapporto al 69%. A distanza di un solo anno la Germania arriverà ad un debito pari al 75% programmando, anche se non senza polemiche, di tornare, attraverso il pareggio di bilancio, a percentuali pre-covid già dal 2022.

    In Italia, invece, siamo passati ad un debito pubblico ora al 160% del PIL. Il governo di Angela Merkel, quindi, è riuscito, con soli 6 punti addizionali di nuovo debito, a far fronte alla pandemia, mentre il governo Conte 2, con oltre 25 punti di nuovo debito pubblico, si ritrova nella medesima situazione disastrosa avendo perso nel frattempo oltre 400 mila posti di lavoro.

    A questa disastrosa gestione governativa hanno contribuito anche i vari ed “ottimi” commissari scelti dallo stesso governo uniti ad una schiera di oltre 400 consulenti.

    In questo complesso e articolato momento politico economico che l’Italia sta attraversando sicuramente si torna ad uno scenario di ritrovata incertezza politica legato alla compagine governativa soprattutto rispetto all’individuazione della maggioranza parlamentare che dovrà sostenere il governo Draghi.

    Contemporaneamente, va sottolineato, rappresenterà invece sicuramente un plus sia politico che finanziario, la ASSOLUTA CERTEZZA di non vedere i personaggi d’avanspettacolo del governo dimissionario alla guida del nostro Paese. Una ritrovata certezza rappresenterà un fattore talmente positivo che probabilmente verrà premiato dagli stessi mercati.

    Mario Draghi sicuramente rappresenta la nostra ultima carta anche perché molti non riconoscono l’importanza della sua azione fin dal 2011, l’anno di insediamento del governo Monti, ad oggi nella sospensione dalla realtà della valutazione dei nostri titoli del debito pubblico.

    Il presidente incaricato, in altre parole, ha assicurato l’equilibrio economico-finanziario del nostro Paese nonostante i governi alla guida nell’ultimo decennio. Va ricordato, infatti, come, a differenza di quanto affermavano, tutte le compagini governative abbiano sempre aumentato la spesa corrente e il debito pubblico attraverso gli 80 euro di Renzi o il reddito di cittadinanza con quota 100 ed altre “visioni politico finanziarie”. Scelte politiche finalizzate solo ad una crescita del consenso elettorale ma finanziariamente sostenute sempre dall’azione del presidente della BCE attraverso le diverse stagioni dal 2011 al 2021 con il riacquisto dei titoli del debito invenduto: un Fil Rouge a copertura involontaria della assoluta irresponsabilità dei diversi governi.

    Di fatto Mario Draghi rappresenta l’unica figura istituzionale che dal 2011 ad oggi abbia dimostrato la capacità e la volontà di mantenere a galla l’Italia.

  • Draghi e l’urgenza di riforme necessarie per il Paese

    L’incarico a Draghi, che in molti da tempo speravamo, può finalmente aprire il percorso di rifondazione del quale l’Italia ha urgenza, rifondazione del sistema democratico, che in questi anni è stato più volte appannato, rifondazione dell’assetto istituzionale e rifondazione del concetto di politica e del peso della finanza sull’economia reale. Oltre alle emergenze sanitarie, dal diffondersi del covid alla campagna vaccinale, che non ha bisogno di padiglioni fatti a primula, alla crisi occupazionale e psicologica di tanti, abbiamo necessità di riformare il rapporto Stato, Regioni, territorio, partendo dalla sanità e dalla prevenzione, di sconfiggere il morbo che si è impadronito di parte della magistratura togliendo, in troppi casi, le aspettative di libertà e giustizia, di far ritornare i partiti alla loro corretta funzione di raccordo tra le istituzioni ed i cittadini partendo dalla necessità che gli stessi abbiano democrazia interna controllata e bilanci verificati dalla Corte dei Conti. Occorrono leggi elettorali che riconsegnino agli elettori il diritto di scegliere i propri rappresentanti ridando centralità al parlamento, bisogna riformare in modo chiaro ed equo il sistema fiscale e ricreare solidarietà tra tutte le componenti della società, dai più giovani ai più anziani. Il sistema bancario deve vedere eliminate le sperequazioni ed i gravi problemi creati dalla mancanza di diversificazione tra banche di risparmio e di investimento e l’economia verde, diventata un’urgenza improrogabile, deve trovare misure adeguate nei rapporti con il commercio internazionale. Né può essere trascurata la necessità, da affrontare con il resto del mondo, di una strada più corretta per l’utilizzo delle risorse informatiche. Draghi ha di fronte un impegno difficile non solo per i tanti problemi da affrontare nel breve tempo ma specialmente perché in Italia da troppo tempo si sono incancrenite situazioni di potere ed interesse che contrastano con le necessità del Paese ma vogliamo sperare che il coraggio, la pazienza e la determinazione che lo hanno guidato nel passato siano di esempio e di sprone ai molti che, a parole, sostengono di volere il bene degli italiani.

  • La produttività delle politiche monetarie

    Il grido di allarme dell’uscente presidente della Bce Mario Draghi relativamente al rallentamento delle crescita economica europea dovrebbe finalmente aprire una seria valutazione sull’impatto delle politiche monetarie espansive inserite in un contesto di mercato  global, anche finanziario. La crescita insufficiente, infatti, lamentata dal presidente del Q.E. era ampiamente prevista in considerazione degli effetti della prima stagione di iniezione di liquidità ai quali si aggiungono fattori politici ed economici specifici che trovano espressione nel sentiment in constante flessione dei consumatori.

    L’ultimo quantitave easing ha permesso ai diversi Stati, in particolare al nostro, di applicare una politica di esplosione della spesa pubblica (+5% ogni anno) utilizzando in aggiunta anche i minori costi  regalati dal calo dei tassi di interesse e quindi dei costi di servizio al debito pubblico. Questa “reale sospensione dalla realtà delle valutazioni dei fondamentali economici del nostro paese” ha illuso tutti i governi, dal 2015 in poi, ed indotto gli stessi ad aumentare la spesa pubblica anche se finalizzata alla semplice copertura della sola spesa corrente mentre la stessa  in conto capitale, e quindi in fattori competitivi, veniva quasi azzerata: basti pensare agli 80 euro come al reddito di cittadinanza e a quota cento.

    Contemporaneamente la sovrabbondanza di liquidità ha letteralmente depatrimonializzato i risparmi i cui rendimenti con estrema difficoltà riescono a trovare rendimenti superiori allo zero virgola (https://www.ilpattosociale.it/2019/07/17/la-politica-monetaria-e-la-depatrimonializzazione-del-risparmio/).In questo contesto macro-economico risulta difficile immaginare una crescita dei consumi, e quindi una conseguente inflazione da domanda, in quanto il sentiment del consumatore trova la propria manifestazione nella crescita della liquidità nei conti correnti (https://www.ilpattosociale.it/2018/12/03/la-crescita-dei-depositi-bancari-in-dieci-anni-75/). Una scelta fortemente criticata dal mondo politico ed economico il quale, tuttavia, ancora oggi non ha compreso l’entità dell’impatto devastante che la crisi  degli Istituti bancari come Popolare di Vicenza e Veneto Banca abbia determinato nel rapporto fiduciario tra risparmiatori e prodotti finanziari.

    Tornando alle dichiarazioni del presidente della Bce e relative alle cause della frenata della crescita della eurozona, queste vengono sostanzialmente indicate nel clima di incertezza legato alle tensioni internazionali (come la contrapposizione nel mondo arabo tra Arabia Saudita ed Iran) e al rallentamento del commercio mondiale a causa delle politiche “protezioniste” con una evidente accusa mossa all’amministrazione statunitense.

    Innanzitutto va ricordato che le politiche protezioniste furono inaugurate dall’Unione Europea, cominciando dall’alluminio cinese al riso ed alla ceramica da consumo fino ai pneumatici cinesi (https://www.ilpattosociale.it/2019/07/22/free-o-fair-trade-i-diversi-casi-di-ceramica-riso-e-tessile/). In più, in ambito strategico risulterebbe opportuno utilizzare come parametro economico non tanto il commercio (che risulta espressione di valori già prodotti) quanto i prodotti sintesi di  valore aggiunto legato al know how ed alle professioni, espressione quindi di un valore economico e culturale di un sistema economico nazionale.

    In una recente ricerca pubblicata dalla Banca d’Italia viene certificato come le retribuzioni medie in Italia statisticamente risultino in diminuzione soprattutto a causa dell’aver puntato sul settore turistico a basso valore aggiunto come alla concorrenza nei lavori a bassa professionalità della manodopera extracomunitaria. Da questi dati emerge la seconda motivazione per la quale la crescita italiana in primis ed europea, nonostante l’iniezione di liquidità, non aumentano in quanto il turismo (il petrolio italiano si affermava)non offre  un valore aggiunto simile a quello generato dal sistema industriale. Un minore valore aggiunto che si traduce in una minore capacità di acquisto e di consumo.

    Una crisi economica come quella cominciata nel 2008 ovviamente ha evidenziato come le strategie economiche degli ultimo vent’anni di fatto ci abbiano impoverito. In questo senso, infatti, non sarà mai troppo tardi ricordare come le delocalizzazioni produttive di fatto abbiano rappresentato un semplice elemento speculativo (di clonazione finanziaria) e abbiano permesso alle aziende una svalutazione competitiva del bene finale o intermedio (escludendo ancora il fattore valutario) ed una svalutazione del bene importato dai paesi a basso costo di manodopera. Una strategia all’interno di una logica di breve periodo, espressione della  classifica azione speculativa che il  settore industriale con colpevole leggerezza ha adottato.

    In un contesto così articolato e complesso, quindi, risulta illusorio credere che una politica monetaria espansiva possa offrire degli effetti positivi relativi alla crescita degli asset industriali quando gli Istituti bancari (il vero tessuto connettivo della crescita) stanno riducendo il credito alle imprese.

    Ma il grido d’allarme del presidente della BCE andrebbe anche rivolto non solo ai responsabili delle scellerate politiche della costante crescita della spesa pubblica dei paesi sud-europei ma anche e soprattutto a tutto quel mondo economico che negli ultimi anni aveva  individuato nella sharing, App e gig Economy la strada maestra verso lo sviluppo economico ed in più sostenibile.

    Non appena la locomotiva tedesca, per lo più legata al settore automobilistico (che non è stato assolutamente tutelato dalla Merkel con sua  grandissima colpa) ha mostrato segnali di rallentamento ecco che le produzioni espressione dei nostri distretti industriali sono precipitate del -34,7% il distretto metalmeccanico di Lecco mentre un -30,8% il distretto dei metalli di Brescia e persino il settore delle mele dell’Alto Adige segna un -18,5 %, dimostrando ancora una volta come un mercato globale condizioni settori tra loro distanti. Una tendenza macro comune a tutti i distretti italiani, come per il  tessile abbigliamento pratese e il settore della rubinetteria di Lumezzane che segnano flessioni di produzioni molto preoccupanti. La stessa confusione strategica relativa alla sostenibilità della economia globale, della quale il mondo politico sembra accorgersi seguendo una adolescente svedese, genera una incertezza che blocca qualsiasi iniziativa ed investimento economico. Basti pensare come il nostro sistema industriale delle Pmi risulti il più eco sostenibile d’Europa e come lo stesso continente europeo abbia ridotto le emissioni dal 2000 ad oggi del -16% mentre Cina ed India rispettivamente del +208% e 155%.

    Quindi l’eccellenza industriale italiana ed europea, che trova la massima espressione nel settore automobilistico nel motore diesel a basse emissioni e nella produzione di energia nucleare, ora si trova sotto accusa per responsabilità di altri paesi lontani da noi non solo geograficamente ma soprattutto nelle normative di tutela dell’ambiente così come dei lavoratori ed ovviamente dei prodotti.

    Tornando al  contesto europeo ed italiano  caratterizzato dalla assoluta estemporaneità del ceto politico, la cui visione di crescita strategica parte dalla tassazione delle merendine e ripropone l’ennesima lotta all’evasione fiscale ignorando gli oltre 200 MLD di sprechi delle spesa pubblica, è normale che il consumatore e il lavoratore posticipano gli acquisti lasciando la liquidità nei conti e di fatto ponendo un altro ulteriore freno alla crescita.

    Ripensando, quindi, alle considerazioni del purtroppo uscente presidente Draghi risulta evidente come il nostro continente, dopo anni di declino culturale, abbia imboccato la strada del precipizio culturale, figlio di una classe dirigente e politica selezionata con criteri assolutamente inadeguati in considerazione di un mercato globale e sempre più complesso. In altre parole, le economie europee, come quella italiana, non crescono non perché la produttività industriale diminuisca ma perché la produttività delle politiche monetarie risulta quasi ininfluente in rapporto all’entità degli strumenti finanziari utilizzati all’interno di un mercato globale.

  • I numeri e i parametri

    I numeri risultano un’espressione dei parametri che vengono scelti per le diverse rilevazioni statistiche. Da sempre inascoltato mi ostinavo ad affermare come i risultati relativi all’aumento dell’occupazione attribuita all’attività  degli ultimi governi, ed in particolare negli ultimi due anni, risultassero falsati dai parametri di cui questi numeri erano espressione.

    A tal proposito si ricorda come lo storytelling governativo, confermato dai principali giornali italiani, anche economici, declini come un successo dell’attività di governo il raggiungimento di circa un milione di posti di lavoro, un numero assolutamente non in linea con la realtà in quanto andrebbe ricordato che, specialmente nel primo anno di ingresso del Jobs Act, i risultati puramente numerici andrebbero depurati delle riconversioni di contratti già in essere.

    Dando anche comunque per reale il milione di posti di lavoro, a nulla serviva ricordare come per l’Istat  risultasse un lavoratore occupato chiunque venisse chiamato anche solo per un’ora la settimana per una volta alla settimana. In questo modo veniva quindi negato qualsiasi tipo di associazione numerica ad un parametro qualitativo. Come a nulla serviva ricordare agli esponenti del governo e ai  parlamentari della maggioranza come il 33% di questi nuovi posti di lavoro e di questi contratti fosse relativo ad occupazioni della durata di tre giorni.

    Contemporaneamente il vero dato importante pone l’industria al centro della ripresa economica in quanto da sola riesce ad esprimere la propria importanza attraverso una  percentuale del 23% di contratti a tempo indeterminato, a fronte di un dato generale del 9% che di fatto dimostra come il settore dei servizi abbia un valore vicino allo zero per quanto riguarda i contratti a tempo indeterminato.

    Fino a ieri si leggevano toni trionfalistici da parte di giornali che negavano l’evidenza, come i politici e gli economisti legati al governo, veri e propri professionisti nella rappresentazione della verità parziale.

    Finalmente ora il presidente della BCE Mario Draghi si è dichiarato preoccupato perché pur avendo raggiunto il numero di occupati numericamente a livello pre crisi non ha potuto non rilevare come il livello dei contratti, e di conseguenza il livello retributivo, risultino molto inferiori rispetto a quelli del livello pre crisi 2008. Del resto risultava sufficiente analizzare l’andamento dei consumi per comprendere come la dinamica economica fosse assolutamente disgiunta e addirittura opposta rispetto all’andamento numerico dei nuovi  contratti.

    Ovviamente i sostenitori dello storytelling governativo degli ultimi anni “sorvoleranno”  la dichiarazione del presidente della BCE o peggio presenteranno come proprie queste riflessioni, dimostrando, ancora una volta, come anche nella semplice lettura numerica delle analisi statistiche l’onestà intellettuale non rappresenti la conditio sine qua non anche se da applicarsi alla semplice lettura dei semplici numeri, in particolar modo se legati a delle successive analisi qualitative.

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