elettricità

  • Nucleare no! O nucleare (per forza) sì?

    Da illuso ambientalista, il fatto che si ritorni a parlare del nucleare come di una probabile e imminente soluzione al fabbisogno energetico del Paese mi rattrista non poco. Soprattutto dopo che per ben due volte, nel referendum del 1987 e in quello del 2011, noi italiani abbiamo fortemente espresso la nostra volontà per abrogarne il suo utilizzo. Tuttavia non possiamo che prendere atto del fatto che il consumo di energia elettrica sta crescendo in modo esponenziale e che la produzione delle nostre centrali termoelettriche, idroelettriche e geotermoelettriche, anche se sommata a quella degli impianti eolici e fotovoltaici, è ben lontana dal soddisfare la domanda. Per questo motivo siamo costretti ad acquistare energia elettrica dall’estero. Stessa cosa per gli idrocarburi liquidi e gassosi necessari al nostro fabbisogno (importiamo quasi l’80% delle nostre esigenze). Per risolvere il problema qualcuno ha ritirato fuori il dibattito sul nucleare. Qualcun altro la proposta di sfruttare al massimo i giacimenti di petrolio e di gas presenti sul nostro territorio. Qualcun altro l’idea che si debbano investire maggiori risorse economiche nelle energie alternative. Insomma, nessuno o quasi, sembra mettere in discussione il fatto che si debba continuare a consumare (senza darsi un limite) sempre più energia, elettrica in primis. Tutt’altro. Il Governo Italiano, come altri Governi europei, continua a stanziare ingenti somme di denaro (nell’ordine di miliardi di euro) per “calmierare” le sempre più care bollette e allo stesso tempo a riconsiderare l’apertura o la riapertura di impianti di estrazione di risorse naturali nei propri territori. Come dicono i portoghesi, non è possibile avere il sole in cortile e la pioggia sull’orto (noi diremmo, la botte piena e la moglie ubriaca) pertanto fino a quando non ci sarà una inversione della crescita dei consumi questo è l’unico scenario possibile.

    Ma veniamo a noi. In quante case oltre a tutte le luci interne ed esterne troviamo vari cellulari, uno o più telefoni cordless, uno o più tablet, uno o più computer, l’impianto wi-fi, una o più TV, il decoder, l’impianto stereo, gli amplificatori bluetooth, le cuffie bluethooth, una stampante, uno scanner, una telecamera, una o più macchine fotografiche, la lavatrice, l’asciugatrice, il phon, il rasoio elettrico, il frigorifero, il congelatore, il forno elettrico, il forno a microonde, i piani a induzione, il frullatore, la friggitrice, il tostapane, il coltello elettrico, il minipimer, la gelatiera, lo spremiagrumi, il robot da cucina, lo scalda acqua, la macchinetta del caffé elettrica, il tritarifiuti elettrico, l’aspirapolvere, il robot da pavimenti, la scopa elettrica, i condizionatori d’aria, il deumidificatore elettrico, il depuratore d’aria elettrico, i ventilatori, la stufetta elettrica, la coperta elettrica, il citofono, il sistema di allarme, la pompa per lavare l’auto, il tagliaerba elettrico, la sega elettrica, il trapano elettrico, l’avvitatore elettrico, giocattoli e videogiochi, un drone, un monopattino elettrico, una bicicletta elettrica, una moto elettrica, un’auto elettrica, il cancello elettrico, la porta del garage elettrica, etc. etc. etc. Se così stanno le cose e si prospettano sempre più strumenti e mezzi e automezzi elettrici sarà difficile intraprendere la via di una decrescita razionale e sostenibile. Le stesse energie cosiddette “alternative”, per quanto oggetto di grande attenzione, mai riusciranno da sole a soddisfare l’attuale domanda a meno che non riempiamo il Paese di pale eoliche e di pannelli fotovoltaici. Tutte cose comunque che hanno un ciclo di vita alquanto breve e quindi da rimpiazzare (con quali risorse?) entro pochi anni.

    Nucleare sì o nucleare no allora? Al momento e al di là di qualsiasi nostra opinione al riguardo, pare che i lunghi tempi di realizzazione di impianti nucleari di nuova generazione e i loro enormi costi stiano facendo desistere gli speculatori di settore (e quelli finanziari). Per ciò, grazie a questi problemi e non di certo a ragioni di tipo ambientale e sociale, pare che sul discorso del nucleare possiamo stare tranquilli per qualche anno. Tuttavia, come detto sopra, vista l’ingente e urgente domanda di energia, il metodo più rapido per immettere sul mercato altra energia sia quella di fare altre dighe, altri inceneritori e di trivellare, ovunque lo si riesca ancora a fare, nel mare, sulle coste, in pianura, in collina, lungo le vallate e sui monti. E allora, nuova domanda: nuove dighe, inceneritori e trivelli sì o no? La risposta è sempre quella del portoghese. Se non pensiamo e non ci prepariamo ad un modello di vita più sobrio e sostenibile la risposta è necessariamente sì. Vi ricordate tutte le battaglie per non avere le antenne dei cellulari vicino casa? Nessuno dice più una parola perché tutti vogliamo e usiamo il cellulare. Stessa cosa sarà per i nuovi impianti di estrazione degli idrocarburi solidi e liquidi e le centrali elettriche. Da una parte aumentiamo i consumi e dall’altra parte vogliamo un ambiente più pulito e pagare sempre di meno per le bollette. Non è possibile. Vivendo in un Paese che importa circa l’85% del suo fabbisogno di energia primaria la conclusione della storia la conosciamo già. Dopo alcuni timidi focolai di protesta (da parte delle comunità direttamente interessate da nuovi progetti di inceneritori come di trivelle, etc.) tutto tornerà come prima, o meglio, continuerà a peggiorare l’ambiente più di prima.

    Se una scimmia accumulasse più banane di quante ne può mangiare quando la maggioranza delle altre scimmie muore di fame, gli scienziati studierebbero quella scimmia per scoprire cosa diavolo le stia succedendo. Quando a farlo sono gli esseri umani, li mettiamo sulla copertina di Forbes.”

    Emir Simão Sader, sociologo brasiliano

  • Negli Usa c’è uno Stato che pensa di bandire le auto elettriche

    Mentre l’Europa corre a spron battuto verso l’auto elettrica, lo Stato americano del Wyoming fa il contrario e pensa di vietare proprio quelle vetture, facendo sì che nel 2035 (quando in larga parte del mondo dovrebbero cessare le vendite di endotermiche) non possano più essere acquistabili.

    Il divieto è contenuto nella proposta di legge presentata dal senatore Jim Anderson e da molti altri senatori repubblicani dello Stato americano con la quale si chiede di ridurre gradualmente la vendita di nuovi veicoli elettrici fino a vietarla completamente dal 2035. Il senatore Anderson in un’intervista rilasciata al quotidiano locale Cowboy State Daily ha spiegato l’iniziativa con un motivo anzitutto squisitamente economico: l’economia di quello che è lo Stato degli Usa con la minore popolazione ruota intorno all’estrazione di petrolio e gas e andrebbe in crisi se scomparissero i veicoli a combustione.

    Ma all’origine della proposta vi sono anche dubbi sugli effettivi benefici ambientali dei veicoli elettrici e le oggettive difficoltà che si dovranno affrontare per arrivare ad avere la completa elettrificazione del traffico. Secondo quanto si legge nella risoluzione presentata dai senatori repubblicani del Wyoming infatti i veicoli elettrici non sarebbero pratici e le loro batterie consumerebbero risorse preziose: facendo leva su uno studio del 2021 dell’Agenzia Internazionale per l’Energia (un’organizzazione intergovernativa con sede a Parigi) si asserisce infatti che le auto elettriche richiedono sei volte in più i minerali utilizzati nella produzione di auto convenzionali, inclusi minerali critici come rame, litio, nichel, cobalto, grafite, zinco e terre rare. E che questo rappresenterebbe un problema sia per quanto concerne l’approvvigionamento delle materie prime sia per lo smaltimento delle vecchie batterie dei veicoli elettrici dato che i minerali critici sopracitati non sono facilmente riciclabili. Nella proposta di legge presentata in Wyoming si evidenzia ancora il fatto che il percorso verso l’elettrificazione di massa richiede una fitta rete di infrastrutture (le colonnine per la ricarica dei veicoli elettrici) che andrebbe costruita praticamente da zero con un grande dispendio di soldi pubblici (a tal proposito per il Wyoming sono già stati stanziati dal governo federale un totale di quasi 24 milioni di dollari nei prossimi cinque anni per migliorare le infrastrutture di ricarica lungo le tre principali strade che attraversano lo Stato) e di energia elettrica.

  • Calano del 24% le vendite di auto elettriche

    Altro che boom delle auto elettriche. In Italia se ne vendono sempre meno. A luglio le immatricolazioni di elettriche pure e ibride sono crollate del 24% rispetto allo stesso mese del 2021. Secondo l’associazione di settore Motus-E, le cause sono la limitazione degli incentivi decisa dal governo e la mancanza di veicoli, per la crisi delle materie prime. Ma pesa anche lo scarso numero di colonnine di ricarica in autostrada, presenti solo in 59 stazioni su 506.

    A luglio 2022, secondo Motus-E le vendite di auto con possibilità di ricarica (somma di BEV, elettriche pure, e PHEV, veicoli ibridi plug-in) si sono attestate a 8.670 unità, facendo segnare un calo del 24,15% rispetto allo stesso mese del 2021, quando le immatricolazioni sono state 11.431.

    Le auto elettriche pure registrano un calo delle vendite pari al 29,30%, per un totale di 3.605 unità immatricolate. Le vendite delle ibride plug-in segnano una diminuzione del 20,01%, con un totale di 5.065 unità immatricolate nel mese. La quota di mercato delle auto alla spina si ferma al 7,88%.

    “Luglio 2022 è il primo mese in cui non si registrano immatricolazioni dovute alle consegne delle auto elettriche incentivate con ecobonus 2021 – spiega Motus-E -. A questo va aggiunto l’effetto della mancanza di prodotto, ovvero delle vetture, drammaticamente legato alla crisi di materie prime, e l’inadeguatezza del sistema di incentivi”.

    Motus-E denuncia “la limitazione dell’Ecobonus al solo canale privato”, escludendo le aziende, e “gli attuali limiti di prezzo”, scesi da 45 a 35.000 euro (più Iva) per le elettriche e da 50 a 45.000 euro per le ibride plug-in. “Stiamo perdendo almeno un 70% della domanda ipotetica di questi veicoli”, denuncia l’associazione. Tanto è vero che il Mise sta pensando di estendere gli incentivi ai redditi sotto i 30.000 euro col Decreto Aiuti bis.

    Ma a frenare il passaggio all’auto elettrica in Italia c’è anche la scarsità delle colonnine di ricarica in autostrada. Secondo il sito specializzato in mobilità elettrica InsideEVs, su 506 stazioni di servizio operative in autostrada, solo 59 (11,6%) dispongono di colonnine, per un totale 254 punti di ricarica. Ma i numeri si riducono a 38 stazioni di servizio (7,5%) e 172 punti di ricarica se si considerano solo le colonnine cosiddette ad “alta potenza” (da 150 a 350 kW), quelle necessarie per ricaricare in tempi ragionevoli (15-30 minuti a seconda del modello).

    Le poche colonnine poi sono concentrate al Nord e spariscono al Sud. Se Emilia Romagna e Lombardia, ma anche Valle d’Aosta e Umbria, dispongono di più di un’area di servizio attrezzata ogni 100 km, Basilicata, Molise e Sicilia non offrono ancora nessuna stazione.

  • L’Enel rilancia l’ex centrale di Montalto di Castro: ne farà un museo

    Lì dove doveva nascere una delle prime centrali nucleari italiane ma la cui costruzione è stata interrotta dopo l’incidente di Chernobyl del 1986: nei due “sarcofagi” che dovevano ospitare l’impianto atomico a Montalto di Castro, nel Viterbese, nascerà ora un Museo dell’energia. Una valorizzazione e riconversione culturale da primato mondiale che rientra nella rinascita del sito della centrale elettrica dell’Enel destinato a diventare un distretto dell’innovazione energetica, con nuovi impianti di produzione rinnovabile e sistemi di accumulo di energia. Nel frattempo, per favorire l’uscita dell’Italia dal carbone, resteranno attivi impianti turbogas rinnovati e resi più efficienti.

    La “nuova vita” della centrale “Alessandro Volta” della multinazionale italiana, che quest’anno festeggia il 60esimo anniversario, in un polo energetico integrato e il progetto del museo sono stati presentati nel sito che oggi ospita l’impianto termoelettrico dal direttore Enel Italia Nicola Lanzetta e dall’architetto Patricia Viel. Il Teccc – Centro di Cultura e Conoscenza della Transizione Energetica di 5mila metri quadrati conterrà il Museo e spazi dedicati ad attività di formazione. Su altri circa 15.000 metri quadrati ci saranno installazioni d’arte, sale di esposizione e una terrazza panoramica. “Il progetto prevede anche un percorso di visita sopraelevato – ha spiegato l’architetto Viel, co-fondatrice dello studio Acpv con Antonio Citterio – che circonda l’area consentendo al visitatore l’accesso a manufatti dallo straordinario valore storico e architettonico unici al mondo”.

    Nel ricordare che “la transizione energetica sta cambiando l’intero settore, spingendo verso un modello più sostenibile». Lanzetta ha osservato che quello di Montalto “è modello da replicare per l’Italia” perché il polo energetico integrato è una sorta di concentrato di economia circolare, creazione di nuove attività e posti di lavoro, acceleratore culturale e bellezza.

    “L’attività di un’amministrazione comunale è più efficace se al centro della sua azione politica pone lo sviluppo culturale», ha spiegato il sindaco di Montalto Sergio Caci mentre Massimo Osanna, direttore generale Musei del ministero della Cultura ha auspicato che il nuovo Museo possa essere “presto accolto nel nostro Sistema Museale Nazionale”. Per il sottosegretario alle Politiche agricole Francesco Battistoni questo progetto è “un fiore all’occhiello per l’Italia”. Plauso dal presidente di Unindustria Civitavecchia Cristiano Dionisi perché il progetto “garantisce la sicurezza energetica della nazione e guarda al futuro in una chiave di sostenibilità e di innovazione” mentre l’assessora del Lazio alla Transizione ecologica Roberta Lombardi ha osservato che “progetti come questi sono una cintura tra passato, presente e futuro e se avessimo avuto un altro approccio negli ultimi 30 anni sarebbe il nostro attuale presente».

  • Futures e speculazione incidono sull’aumento del prezzo del gas

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi 

    In Italia, non solo tra le forze politiche, si discute dell’aumento delle bollette del gas e dell’elettricità, rispettivamente del 31% e del 40%. E’ un trend inflattivo in atto in tutta Europa e nel resto del mondo. Manca, però, la chiarezza sulle cause dell’aumento.

    Non basta riferirsi alla ripresa economica globale e dei consumi dopo i lockdown pandemici, alla domanda di energia pulita e al cambiamento climatico. Tutti aspetti veri, ma il classico rapporto tra domanda e offerta, a nostro avviso, non spiega il fenomeno dei prezzi così “inflazionati”. Però, diventano delle giustificazioni per operazioni di carattere finanziario, come i futures sul gas.

    Com’è noto, il prezzo del gas naturale e quello dei futures sul gas sono definiti nello stato della Lousiana dal cosiddetto Henry Hub. Dall’inizio dell’anno il prezzo dei futures sul gas contrattati negli Usa è cresciuto di oltre 94%. Cinque volte quelli di due anni fa.

    Si aggiunga che sul mercato ci sono anche i cosiddetti CFD (contract for difference), strumenti finanziari derivati il cui utilizzo non comporta lo scambio fisico, in questo caso il gas. Bensì si prevede il pagamento in contanti della variazione di valore della materia prima alla scadenza del contratto.

    I mercati principali dei futures sui prodotti energetici sono il Chicago Mercantile Exchange e il NYMEX di New York. Come per gli altri futures e, in genere, per i derivati finanziari, i trader possono usare il cosiddetto leverage, la leva, per cui un deposito limitato messo in garanzia permette di sottoscrivere contratti per un valore multiplo.

    Pertanto, la sola spiegazione oggettiva dell’aumento del prezzo del gas, causato dalla crescita della domanda e dei consumi, non regge. Lo conferma anche lo studio, “The future of liquified natural gas: Opportunities for growth“, pubblicato nel settembre 2020 da McKinsey & Company, la maggiore società internazionale di consulenza strategica. McKinsey ha una sua credibilità. Per esempio, in passato ha elaborato lo studio più accurato sulle infrastrutture a livello globale.

    McKinsey sosteneva che l’industria del gas naturale liquefatto (GNL) stava praticando prezzi bassi e un’offerta eccessiva e che, per la pandemia, la domanda di gas nel 2020 sarebbe potuta diminuire dal 4 al 7%. Tanto che gli esportatori di GNL avevano cancellato alcune spedizioni di gas (più di 100 cargo statunitensi sono stati cancellati nel mese di giugno e di luglio 2020), poiché il prezzo spot nei mercati asiatici ed europei non copriva più il costo della fornitura.

    In ogni caso, McKinsey spiegava che in futuro lo GNL avrebbe avuto una grande potenzialità in rapporto a cinque aree di intervento: efficienza del capitale, ottimizzazione della catena di approvvigionamento, sviluppo del mercato, de carbonizzazione e digitalizzazione avanzata dei processi. In seguito, McKinsey ha valutato una crescita della domanda globale di gas intorno al 3,4% annuo fino al 2035.

    Perciò, l’aumento della domanda c’è, ma in dimensioni che non giustificano la sproporzionata crescita del prezzo del gas. Invece, l’aumento dei prezzi dei futures può deformare l’andamento del mercato.

    Ovviamente i liberisti facinorosi sostengono che i futures non influenzano l’andamento dei prezzi, poiché si tratta di contratti tra privati, dove se uno perde, l’altro vince. Somma zero.

    In realtà, i futures e in generale le operazioni speculative in derivati, grazie al leverage, raggiungono numeri altissimi e riescono a influenzare i mercati e determinare i prezzi di una materia prima. Si ricordi il balzo del petrolio fino a oltre 150 dollari al barile nel 2008, alla vigilia della Grande Crisi, per poi crollare. Allora si parlò dei famosi “barili di carta”, perché per ogni barile reale di petrolio, almeno cento barili erano trattati con strumenti speculativi.

    Resta ineludibile, quindi, l’approvazione di nuove regole sulle attività finanziarie e speculative. Il G20 non può sottrarsi a questa specifica responsabilità. Se ne faccia carico anche il governo italiano.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • Greta non ferma la Cina: più elettricità dal carbone

    Su Il Transatlico di Andrew Spannaus, Paolo Balmas segnala che, nonostante Greta Thumberg, le previsioni sui consumi di elettricità prodotta da centrali a carbone in alcuni Paesi sono in aumento per i prossimi anni. In Cina sono in via di realizzazione centrali elettriche a carbone capaci di aumentare la rete elettrica di circa 120 GW. Un numero impressionante se si pensa al resto del mondo, dove si prevede un aumento dell’energia elettrica prodotta da carbone di circa 105 GW. Anche se negli ultimi anni Pechino ha cominciato a prendere provvedimenti per l’impatto dell’industria del carbone sul clima e per trasformare il settore dell’energia elettrica, alcune province, ad esempio alla Mongolia Interna nel nord del Paese, presentano un’economia fortemente dipendente dal carbone mentre i provvedimenti già presi dal governo nazionale per ridurre la produzione hanno bisogno di una politica di riassorbimento della mano d’opera. Cosa che non può essere immediata, soprattutto se si contano in milioni gli operai da ricollocare. Il tutto mentre i consumi energetici aumentano.

    Negli Stati Uniti, invece, il carbone continua a perdere terreno malgrado il sostegno dell’amministrazione Trump per il settore. La posizione presa da Trump, sul carbone “pulito” che aspetta di essere estratto dal suolo americano è sostenuta dalle nuove tecnologie che dovrebbero ridurre l’impatto ambientale della combustione del carbone. Ma la stessa posizione ha un valore politico, in quanto la campagna elettorale di Trump aveva come target gli operai del settore, specialmente in stati produttori di carbone come il Wyoming e il West Virginia. Negli Usa, sta vincendo l’alternativa del gas naturale, fonte più pulita e attualmente più economica, dati i prezzi che si mantengono ancora molto bassi. In generale, per il settore del carbone sembra che ci si diriga realmente verso una transizione a fonti alternative ma, a livello mondiale, sarà chiaramente una transizione di lungo periodo.

  • In Africa arriva la luce e la tecnologia crea lavoro

    La tecnologia crea lavoro anche nell’Africa sub-sahariana, dove frequenti interruzioni di corrente e fluttuazioni di tensione danneggiano la produttività delle imprese e il sostentamento delle persone costringendo famiglie e imprese a investire in fonti di energia come i generatori diesel, costosi e inquinanti, e le apparecchiature di stabilizzazione della tensione, per far fronte ai frequenti black out dell’energia. I servizi di elettricità in molti Paesi in via di sviluppo stanno lottando per tenere il passo con la domanda, lasciando milioni di persone in lotta con frequenti interruzioni e servizi inadeguati. Senza connessioni più forti e affidabili, la produttività delle piccole imprese crolla, gli operatori sanitari non possono somministrare vaccini refrigerati e i bambini devono studiare al buio.

    I governi, gli esperti di energia e la più ampia comunità di sviluppo sostenibile stanno iniziando ad adottare una definizione più ampia e dettagliata dell’accesso all’energia. Molti ora fanno affidamento sul Multitier Framework (MTF) della Banca Mondiale, il primo quadro globale per guardare oltre le connessioni dirette e misurare l’accesso all’energia attraverso: capacità di picco, numero di ore diurne e notturne, affidabilità, qualità, convenienza, legalità, salute e sicurezza.

    In Kenya WRI, in collaborazione con il Prayas Energy Group in India e EED Advisory di Nairobi, sta implementando l’Energy Supply Monitoring Initiative (ESMI) nella contea di Nairobi, per rafforzare la fornitura di elettricità e la raccolta dei dati. Ha installato monitor di alimentazione elettrica plug-in in una sezione trasversale di famiglie che rappresentano diversi livelli di reddito. Questi dispositivi registrano l’alimentazione e le tensioni disponibili al minuto nella loro posizione e trasmettono i dati a un server centrale, dove vengono analizzati e pubblicati su un sito Web.

    Sia i regolatori che i gruppi della società civile possono anche utilizzare i dati ESMI per monitorare in modo indipendente le prestazioni delle utility, avvalersi di una migliore fornitura di servizi e ritenere responsabili le società elettriche. Ad esempio, l’ESMI in India ha stimolato i giornalisti a iniziare a occuparsi dei problemi di qualità dell’elettricità. L’attenzione dei media ha spinto alcune commissioni regolatrici energetiche a livello statale a utilizzare i dati ESMI per monitorare le prestazioni delle utility che rientrano nelle loro giurisdizioni. Gli esperti sanno che esistono disparità nella qualità dell’elettricità erogata alle aree ad alto, medio e basso reddito nelle regioni urbane e rurali. Tuttavia, le disparità nella fornitura di servizi in queste aree sono molto meno comprese. Raccogliendo dati sulla qualità e l’affidabilità delle forniture a livello di famiglie nella contea di Nairobi, l’ESMI consente di comprendere le differenze tra le famiglie in aree simili. Ad esempio, i dati raccolti da due aree a basso reddito, Kibera e Kawangare, tra ottobre e novembre 2017 hanno rivelato ampie differenze nel numero di ore di fornitura e fluttuazioni di tensione di diverse famiglie nella stessa comunità. Mentre alcune di queste differenze derivavano da connessioni illegali e dalla successiva potenza sub-ottimale, alcune erano legate alle famiglie della stessa comunità servite da diverse linee di alimentazione. Dotati di queste informazioni, i regolatori, i servizi pubblici e i governi possono adottare misure per migliorare l’accesso in entrambe le comunità.

    Più di un miliardo di persone a livello mondiale non ha accesso a nessuna elettricità, mentre altri milioni di persone sono alle prese con un’offerta scarsa e inadeguata. Allo stesso tempo, i Paesi di tutto il mondo si sono impegnati a fornire elettricità sostenibile per tutti come parte degli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite.

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