Giudici

  • In attesa di Giustizia: E tre!

    Per la terza settimana di fila questa rubrica si occupa di processi per gravissimi disastri in cui sono contestati reati colposi: e cosa ciò significhi, per il profano, si è tentato di spiegarlo con parole semplici proprio nel numero precedente. Questa volta è di scena il giudizio per crollo del Ponte Morandi con la cronaca – ed il commento – di una delle ultime udienze.

    Cronaca che staglia la distanza sempre più profonda che si va creando tra ciò che un processo penale dovrebbe essere, nel rispetto delle regole costituzionali ed ordinarie che lo istituiscono e lo governano, e ciò che si vorrebbe invece che diventi. E’ una cronaca che fa capire quale sia l’unica garanzia rispetto ad una montante deriva illiberale: e cioè l’indipendenza, la libertà morale e l’autorevolezza del Giudice.

    In aula vi è stata tensione altissima ed un durissimo botta e risposta tra la pubblica accusa ed il Tribunale, scaturita da una intemerata del P.M. il quale, azzardando un po’ di calcoli sul numero dei testimoni ancora da esaminare ed il ritmo delle udienze, prevede che l’istruttoria dibattimentale possa concludersi non prima del dicembre 2025, quando “alcuni dei reati più gravi” potrebbero essere già prescritti, sollecitando perciò un aumento del ritmo di celebrazione del processo, cambio di passo: un boccone ghiotto su cui la stampa si  è buttata a pesce, gridando a giustizia negata, alla prescrizione strumento di salvezza dei ricchi e dei potenti, eccetera. Il Presidente del Collegio si limita a giudicare troppo allarmistiche le previsioni del P.M. ma la mattina successiva ritorna sulla questione e definisce quello del PM un “proclama offensivo nei confronti del Tribunale” (che ha sospeso la trattazione di gran parte degli altri processi, per celebrare questo), e tocca il punto, che in questa, come in altre analoghe vicende processuali, viene sistematicamente ignorato. Se si ha a cuore l’aspettativa di una tempestiva risposta giudiziaria ad una simile tragedia “magari bisognava effettuare scelte processuali diverse e non contestare, ad esempio, un milione di falsi che devono essere accertati uno per uno” e conclude: “Se poi in quest’aula c’è qualcuno che ritiene che le sentenze si facciano senza processo, sbaglia”.

    Non può sfuggire il valore di questo accadimento, che va ben oltre la singola vicenda processuale, la quale ha peraltro tutti i crismi della parabola. Gli ingredienti ci sono tutti: processo di enorme impatto mediatico, aspettativa di condanne esemplari, diritti delle vittime dei reati rappresentati come incondizionatamente prevalenti sui diritti di difesa e sulla presunzione di non colpevolezza. Sullo sfondo, la fosca ed un po’ prematura previsione di una prescrizione salvifica. Sono già pronti i forconi, insomma. Ma ecco, diciamoci la verità, inatteso, un Giudice che – pur in un processo ad altissima esposizione mediatica – fa, imperterrito, il Giudice e sposta l’asse di quella lamentela del PM, come sempre occorrerebbe fare ma nessuno mai fa. Cominciamo a ragionare piuttosto – dice – su quanto siano durate le indagini, e se le scelte operate dalla Procura nell’esercizio dell’azione penale abbiano considerato la dimensione e l’impatto dell’accusa anche sui tempi del conseguente processo. Se si individuano 60 imputati e decine e decine di imputazioni, protraendo le indagini per anni, poi non si pretenda che gli imputati non si difendano con tutta la pienezza dei propri diritti. Ma è la seconda affermazione che merita ancora più ammirazione: questo Tribunale non è disposto a pronunciare sentenze senza processo. Nessuno si illuda – sostiene quel Giudice – di fare pressioni indebite, paventando populisticamente scenari drammatici che si vorrebbe addossare, alla fin fine, alla responsabilità del Tribunale da un lato, e del diritto di difesa degli imputati dall’altro. Parole dure che danno la esatta dimensione della solennità di ciò che il Giudice può e deve saper rappresentare nel giudizio penale, della indispensabilità della sua indipendenza da ogni forma di condizionamento, da ogni riflesso conformistico, da ogni sudditanza nei confronti di tutte le parti processuali. Ciò che, peraltro, deriva in termini di disillusone per chi è in attesa di giustizia è quando un accadimento come questo ci appare come una notizia straordinaria, quando invece dovrebbe essere una noiosa e scontata ovvietà. Ma il destino delle parabole è proprio questo: farti comprendere, quasi raccontandoti una favola, l’amara durezza della realtà nella quale ti trovi a vivere.

  • In attesa di Giustizia: voce dal sen fuggita

    All’inizio degli anni ’90 e poco dopo la entrata in vigore del codice di procedura penale un grande penalista milanese, Corso Bovio, uomo di intelligenza fuori dal comune e dotato di uno straordinario senso dell’ironia, soleva conferire un “riconoscimento”: il Sogliolone d’Oro, di cui risultava meritevole – di volta in volta – il G.I.P. più appiattito sulle richieste del P.M..

    Il G.I.P., il Giudice della Udienza Preliminare, il Tribunale, non devono e non possono essere una sorta di notaio che certifica e valida pedissequamente le richieste del P.M.: lo dice il buon senso prima ancora che la Costituzione. Tuttavia, quando accade che un giudicante si pronunci diversamente il malcontento è assicurato e in qualche caso assai evidente.

    Il Procuratore Capo di Verbania, per esempio, ha commentato l’ordinanza con cui il GIP, dott.ssa Banci Buonamici, non ha convalidato il fermo di due dei tre indagati per la strage della funivia e due li ha scarcerati per mancanza di gravi indizi, disponendo gli arresti domiciliari, invece che il carcere, per il terzo.

    La P.M., pur a denti stretti, ha valorizzato l’indipendenza del giudice e dunque la superfluità della separazione delle carriere che ultimamente si è tornata a reclamare a gran voce anche mediante consultazione referendaria. Ma subito dopo non ha nascosto la propria forte “delusione”, confessando che per un po’ non intende più condividere il caffè con la Collega Gip, come era solita fare.

    Non può sfuggire il significato di questo moto spontaneo di risentimento: l’indipendenza del GIP, tanto magnificata poco prima contro la necessità della separazione delle carriere, viene disvelata per ciò che implicitamente significa agli occhi di quel magistrato: un atto quasi di inimicizia e comunque tale da rendere inevitabile, almeno “per un po’”, una consuetudine amicale, con buona pace di una condivisa pratica della indipendenza del giudice. Un giudice che, soprattutto in una vicenda di forte esposizione mediatica, contraddice clamorosamente l’ipotesi di accusa, si iscrive tra i “nemici” della Procura (e dunque, si lascia intendere, della Giustizia tout court). In altri termini, la regola che si confida essere rispettata è l’adesione alla ipotesi accusatoria, non fosse altro che – ci si aspettava in questo caso — per tutelare, così dichiara la P.M. Bossi, “l’enorme impegno concentrato in pochi giorni, soprattutto da parte dei Carabinieri”.

    Dobbiamo esserle grati per la sua sincerità. Non poteva esserci, al contrario di quanto essa afferma, uno spot più efficace a sostegno della separazione delle carriere tra magistratura inquirente e giudicante. Appartenere allo stesso ordine, provenire dallo stesso concorso, essere partecipi della stessa associazione, frequentare gli stessi corsi di formazione, avere lo stesso organo di autogoverno, e anche per tali ragioni prendere tutti i giorni il caffè insieme, crea inesorabilmente, e giustamente, un sentimento profondo di solidarietà, di reciproco sostegno e protezione. Atti di autentica indipendenza di pensiero e di giudizio, esternati senza alcun riguardo alla loro ricaduta mediatica ed anche di carriera professionale del Collega, ben oltre Verbania, sono – nella quotidianità della esperienza giudiziaria – eccezionali e fuori da ogni regolarità statistica; ma soprattutto, assumono – in forza di tale eccezionalità – una portata così impattante devastante da legittimare addirittura reazioni di risentimento.

    Nell’eterno dibattito sulla separazione delle carriere, chi la contrasta ha sempre tacciato di qualunquismo lo stigmatizzare giudici e pubblici ministeri sempre insieme al bar del Tribunale. Questa voce dal sen fuggita al Procuratore della Repubblica di Verbania rende giustizia a quella allegoria. Anche gli avvocati prendono il caffè (più raramente) o frequentano (ancora più raramente), P.M. o Giudici; ma lo fanno, possono reciprocamente farlo, con un sentimento certo, sereno ed immodificabile di chi fa mestieri irriducibilmente diversi, quando non contrapposti. L’auspicio è che così prima o poi accada anche tra Giudici e PM, appartenendo ad ordini diversi e separati.

    Ci sarebbero meno assembramenti alla macchinetta del caffè (che, di questi tempi, costituirebbe un ulteriore vantaggio), e tanti processi giusti in più.

  • In attesa di Giustizia: perseverare è diabolico

    Questa rubrica si è già occupata di quello che, sia pure tormentato, sembrava essere il convinto passo di addio alla Toga di Piercamillo Davigo.

    Mai dire mai: nonostante alcune considerazioni a caldo che esprimevano amarezza coerente con un sofferto ma definitivo congedo dalla Magistratura e dal suo Consiglio Superiore, il Dottor Sottile di Mani Pulite si è attivato immediatamente (il giorno dopo la delibera del Consiglio) per far valere le proprie ragioni impugnando al T.A.R. una decisione che egli ritiene sbagliata. Il che fa ritenere con certezza che il passo fosse già stato meditato e preorganizzato con buona pace di quanto affermato poche ore prima.

    Tale opzione sorprende, ma forse non dovrebbe: Davigo aveva illustrato i motivi della sua resistenza non tanto al pensionamento quanto alla derivata esclusione dal C.S.M. puntualizzando che non voleva certamente apparire come “attaccato alla poltrona”; considerando l’orientamento stabile e negativo della Giustizia amministrativa sul punto si direbbe proprio il contrario ma – del resto – questa vicenda nel suo insieme è caratterizzata da quella opacità che è risultata essere abituale nel funzionamento degli organi rappresentativi della magistratura non meno che nei comportamenti di numerosi appartenenti all’Ordine Giudiziario.

    Proprio Davigo, sostenitore della infallibilità dei giudici che ha sempre considerato la finalità delle impugnazioni unicamente dilatoria, si è dovuto rivolgere ad un avvocato (cioè ad un rappresentante di una categoria apertamente disprezzata) per farsi assistere contro la decisione del Consiglio Superiore della Magistratura che ha negato la sua permanenza nell’organo di autogoverno per raggiunti limiti di età: epilogo che, a regola, si sarebbe dovuto raggiungere senza discussioni e traumi ed, altresì, evitando il commento finale del Vice Presidente del C.S.M. modulato su equilibrismi dialettici da orfano della Prima Repubblica.

    Tutto ciò non fa bene all’immagine già compromessa di un Potere dello Stato, travolto nella melma di squallide intercettazioni con pregiudizio anche quella porzione di magistrati che lavora sodo, seriamente e nel rispetto di quella Costituzione su cui hanno giurato.

    Perseverare è diabolico, ed un C.S.M. dall’equilibrio già instabile rischia di trarne ulteriore pregiudizio ma…

    …non sarà che, invece, Davigo ha ragione, anzi che sarebbe meglio avere un Consiglio Superiore di tutti pensionati?

    Certo! E con innegabili vantaggi:  non dovendo tornare in servizio i componenti  togati potrebbero dedicarsi al loro ministero liberi da ogni condizionamento, senza timore di risultare per qualche ragione sgraditi ad un futuro collega o preoccupandosi di essere graditi ad altri; sarebbero tutti saggi almeno per anagrafica presunzione e le loro decisioni, non dovendo più aspirare a nulla in carriera, sottratte a mercanteggiamenti correntizi; l’età avanzata, inoltre, porta con sé una ridotta esigenza di ore di sonno e, di conserva, un tempo maggiore da dedicarsi proficuamente al lavoro.

    Quanto ai criteri sia per selezionare i componenti del C.S.M. che – da parte di costoro – per determinare i progressi in carriera degli ormai ex colleghi si potrebbe fare ricorso alla Regola di San Benedetto per la elezione degli abati: senza scomodare leggi, regolamenti e Costituzione, soprattutto evitando di stravolgerle o piegarle alle utilità del momento.

    E per noi adesso l’attesa di Giustizia è per una decisione del T.A.R. Lazio e poi, forse, del Consiglio di Stato sollecitata proprio da chi si è sempre battuto per la eliminazione del giudizio di appello. Definiamo tutto ciò una eterogenesi dei fini per chiudere (si spera definitivamente) il discorso e – più che mai –  evitare querele.

  • Carminati, la democrazia ed i giudici

    E’ assolutamente detestabile ed insopportabile il fatto che all’interno di un “presunto” stato di diritto un personaggio come Carminati possa uscire di galera dopo CINQUE anni e SETTE mesi di carcerazione preventiva.

    In altre parole, in (ripeto) cinque anni e sette mesi, un paese che si “definisce” democratico come l’Italia non è riuscito ad istruire e a portare a termine un processo contro questo personaggio. Il sistema giudiziario, nella sua articolata complessità, ha dimostrato ancora una volta la propria inefficienza ed insufficiente produttività anche per reati gravi come quelli imputati a Carminati.

    Il problema non è rappresentato, quindi, dalla polizia o da una delinquenza sempre più invasiva, ma da un sistema giudiziario e dalle “professionalità” che lo rappresentano, cioè i giudici ai quali non vengono imposti parametri temporali entro i quali istruire un processo e portarlo a termine.

    Nello specifico la completa responsabilità va attribuita ai giudici se Carminati dopo 5 anni e 7 mesi di carcerazione preventiva (degna del peggior stato dittatoriale dell’America Latina) ritrovi la possibilità di assaporare il gusto della libertà e magari di delinquere ancora.

  • 13 giudici slovacchi arrestati per legami con il mandante dell’omicidio del giornalista Jan Kuciak

    In Slovacchia tredici giudici e altre cinque persone sono stati arrestati e accusati di corruzione e ostruzione alle indagini sulll’omicidio del giornalista Jan Kuciak. L’arresto è stato annunciata da una unità speciale di polizia che indaga sui contatti tra diversi giudici e l’uomo d’affari Marian Kocner, sospettato di aver ordinato l’assassinio.

    Kocner e altri tre imputati sono attualmente sotto processo per gli omicidi di Jan Kuciak e della sua fidanzata Martina Kusnirova. Kuciak aveva indagato sulle attività commerciali di Kocner nell’ambito di un’evasione fiscale che aveva coinvolto magnati e personaggi politici del paese.

    L’uomo di affari è stato accusato di corruzione di giudici, politici e pubblici ministeri ed a febbraio era stato condannato a 19 anni di prigione per un’altra vicenda che lo vede coinvolto in contraffazione e reati finanziari.

    L’omicidio di Kuciak nel 2018 ha scatenato grandi manifestazioni che alla fine hanno portato il primo ministro Robert Fico e il capo della polizia del paese a dimettersi, nonché all’elezione a Presidente dell’attivista anti-corruzione Zuzana Caputova.

  • In attesa di Giustizia: ce n’è per tutti

    C’era da aspettarselo, tutto sommato: il 12 febbraio la Corte Costituzionale ha esaminato le censure sollevate da più parti sulla legittimità costituzionale della legge c.d. “Spazzacorrotti” nella parte in cui ha esteso le preclusioni alle misure alternative al carcere previste dell’Ordinamento Penitenziario ai condannati per reati contro la Pubblica Amministrazione senza fare distinzioni tra i fatti commessi antecedentemente alla legge e quelli successivi.

    La Corte ha preso atto che vi è una costante interpretazione giurisprudenziale secondo la quale le modifiche peggiorative del comparto normativo sulle misure alternative al carcere vengono effettivamente applicate retroattivamente e ha deciso nel senso – per la verità abbastanza ovvio – che questa interpretazione è costituzionalmente illegittima perché l’applicazione di una legge che trasforma radicalmente la natura della pena e i riflessi sulla libertà personale rispetto a quella che era prevista al momento della commissione del reato viola il principio di legalità previsto dall’articolo 25 della Costituzione.

    Con questa decisione di cui sarà interessante la lettura delle motivazioni (probabilmente tra qualche settimana) ce n’è per tutti: per cominciare con una legislazione arraffazzonata il cui obiettivo principale è quello di realizzare un sistema penale carcerocentrico per soddisfare la pancia dell’elettorato.

    Panem et circences, una locuzione latina che si adatta perfettamente alle strategie politiche demagogiche dei giorni nostri: reddito di cittadinanza al posto del pane e galera al posto dei combattimenti tra gladiatori, cristiani e bestie feroci. Come dire, una tradizione imperiale – descritta mirabilmente da Giovenale – che si poteva abbandonare senza rimpianti.

    Legislazione sciatta la nostra e non da adesso: ad interventi spesso già discutibili per altri versi non si accompagna quasi mai l’indispensabile corredo delle norme transitorie: quelle che governano il passaggio da un regime ad un altro evitando criticità e discriminazioni.

    Già, una volta si diceva che i giuristi migliori erano quelli cui veniva affidata proprio la redazione delle norme transitorie: oggi, almeno a livello parlamentare, è già molto difficile trovarne qualcuno che sia presentabile.

    Una seconda stilettata della Corte va a quegli organi giudicanti di vario livello che hanno in passato sistematicamente dato una interpretazione non costituzionalmente orientata al problema della applicazione retroattiva di norme che incidono negativamente sulla entità pena e sulla sua natura, come tali applicabili solo in un tempo futuro e che, incomprensibilmente, sono stato ritenute per anni norme di diritto processuale (quello che regola lo svolgimento del processo, non la sanzione da infliggere a un colpevole. Due ambiti del diritto molto diversi: lo capiscono anche al bar, tranne, forse quello frequentato da Davigo) e come tali immediatamente efficaci.

    In fondo ce n’è anche per lo staff del Quirinale che ha sottoposto ineffabilmente la legge alla firma del Capo dello Stato (peraltro, ex giudice costituzionale).

    Persino l’Avvocato dello Stato, in questo caso Massimo Giannuzzi, che di solito sostiene la coerenza costituzionale delle norme sottoposte a scrutinio ha espresso la sua perplessità chiedendo una sentenza interpretativa che disapplichi l’estensione retroattiva della “Spazzacorrotti”. Giannuzzi ha spiegato di non sentirsi una controparte rispetto ai colleghi difensori, perché lo Stato di diritto deve essere un riferimento per tutti gli operatori di quel settore.

    Applausi a Giannuzzi, ottima, ineccepibile la decisione della Corte ma adesso raccontiamolo a chi è andato in carcere per una legge marchianamente incostituzionale.

  • In attesa di Giustizia: due pesi e due misure

    Ormai da giorni tiene banco sui principali quotidiani l’indagine giudiziaria che vede coinvolto Luca Palamara, magistrato della Procura di Roma, ex Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati e già componente del C.S.M.: sospettato di corruzione per avere accettato regalie, viaggi omaggio e – forse – anche denaro per pilotare, quando era al Consiglio Superiore, nomine gradite ai vertici di talune Procure ed altri favori non meglio precisati e con Palamara risultano indagati a titolo diverso altri appartenenti all’Ordine Giudiziario.

    Evidentemente una vicenda che risulta paradigmatica di un certo modo, discutibile, di fare informazione che trova il suo presupposto nella permeabilità di quello che dovrebbe essere se non il segreto almeno il riserbo investigativo.

    L’affaire Palamara” è un boccone ghiotto perché contiene tutti gli ingredienti che suscitano interesse e una punta di morbosità nel lettore: storia di veleni interni alla Magistratura, potere, denaro e – mai farselo mancare – anche un pizzico di sesso.

    Sono diverse le riflessioni che tutto ciò suscita. Innanzitutto il clamore, senz’altro dovuto alla notorietà del protagonista principale: sbattere il mostro in prima pagina aumenta le copie vendute ma è meglio se è riconoscibile ed il suo essere trascinato nella polvere faccia più notizia; tanto è vero che i tre soggetti all’origine di questo scandalo sono assai meno conosciuti alle cronache sebbene anche tra costoro vi sia un Pubblico Ministero (che, si badi, ha già patteggiato una pena severa per corruzione e, a breve, andrà in carcere) un avvocato e l’immancabile “faccendiere”, uomo di imprecisata funzione professionale e competenza al di là del traffico di influenze.

    Vi è poi il livello di dettaglio con cui vengono dispensate le evidenze raccolte durante le indagini e che generose fonti confidenziali hanno fatto pervenire nelle redazioni: destinazione dei viaggi omaggio, valore dei soggiorni, prezzo di altre regalie, intestazione delle carte di credito usate per i pagamenti e, ovviamente, nome e cognome di chi avrebbe condiviso la camera con Palamara senza esserne la legittima consorte.

    Sarà tutto vero, sarà tutto, le fonti saranno affidabili? O nei fascicoli si trovano anche elementi di prova di segno diverso o giustificazioni?

    Certo è che Luca Palamara viene già presentato come uno per cui sarebbe superfluo spendere tempo, risorse e denaro per fare un processo: qualche testata ha persino commentato l’affanno con cui avrebbe tentato di giustificarsi in occasione di un interrogatorio fiume a riprova della solidità dell’impianto accusatorio.

    Sia ben chiaro: non è intenzione di chi scrive abiurare alla presunzione di non colpevolezza a sfavore del Dott. Palamara ed, a maggior ragione, perché gli atti non sono conosciuti se non nella misura in cui vengono propalati dagli organi di informazione: tuttavia qualcosa di opaco in taluni rapporti intrattenuti dal magistrato sembra esserci, qualcosa che – magari – potrà essere chiarito inducendo tutt’al più un giudizio di sconvenienza ma non di responsabilità penale.

    Vi è anche di che compiacersi che Palamara non sia stato arrestato: un cittadino comune, di regola, finisce in carcere molto in fretta  per molto meno e con molto meno di ciò che si dice gravante a carico del Pubblico Ministero romano (anche al netto di esagerazioni o fraintesi giornalistici): e questo non va bene, per il cittadino comune ovviamente, non è rispettoso della tutela da offrirsi alla libertà personale. Due pesi e due misure, soprattutto se la bilancia è quella della Giustizia non sono accettabili.

     

  • Ha prevalso la cultura della morte

    Mentre stendiamo queste poche righe è probabile che Alfie sia già in Paradiso. Ce lo hanno mandato i sacerdoti dell’eutanasia, una pratica che i medici e i giudici inglesi hanno utilizzato prima per Charlie e ora per Alfie, nonostante il parere contrario dei genitori che si sono battuti come leoni per difendere il diritto alla vita dei loro piccoli, ma inutilmente. La cultura della morte ha prevalso sul loro amore per i figli e sul buon senso. Non è stato loro permesso di trasportare il loro bambino fuori dall’ospedale in cui era ricoverato. E’ intervenuta addirittura la polizia per impedire che i genitori lo trasportassero altrove, come se Alfie fosse un loro prigioniero o una proprietà dello stato. A quante aberrazioni ed anomalie abbiamo dovuto assistere! Qual è la ratio che impedisce ai genitori di portare il loro figlio nell’ospedale che preferiscono? E’ mai successo che un arcivescovo cattolico accetti l’eutanasia anziché il diritto alla vita? Che una diocesi proclami una bugia nei confronti di un padre che, pur essendo battezzato, non viene considerato cattolico? Sono state diffuse fotografie che dimostrano lo stato d’incuria in cui Alfie è stato lasciato dall’ospedale in cui è ricoverato. Sono fotografie che fanno male al cuore. Una mostra addirittura una bruciatura sull’avambraccio e un’altra la sporcizia che avvolge i tubi attraverso i quale il bambino respira. Papa Bergoglio ha accolto il papà di Alfie mercoledì scorso e l’ha lodato per il coraggio dimostrato nel battersi per salvare la vita del figlio, ma nello stesso tempo la segreteria di stato vaticana ha rifiutato il passaporto ai genitori. Anche le ragioni diplomatiche prevalgono sulla morte di un innocente.

    Il silenzio dei politici inglesi ed europei è significativo, oltre che aberrante. Non si deve disturbare il manovratore che conduce alla morte un piccolino di 22 mesi. Non parliamo poi della Corte europea dei diritti umani che anziché tutelare il diritto alla vita ha respinto per ben due volte il ricorso dei genitori di Alfie. Inutili le offerte dell’ospedale Gaslini di Genova e del Bambin Gesù di Roma per ospitare Alfie. La stampa inglese, altra aberrazione incomprensibile, non ha scritto una riga sulla vicenda di Alfie; ha soltanto dato notizia dell’incontro del papà di Alfie con il Papa. Mentre scriviamo queste righe ci giungono due notizie. La prima dice che alle 14.00 sono iniziate le procedure per il distacco del macchinario per la ventilazione che teneva in vita il piccolo Alfie e la seconda che la duchessa di Cambridge, Catherine Middleton, ha dato alla luce alle 11.00 di stamattina il terzo figlio, un maschietto, Sua Altezza Reale Principe di Cambridge, fratello di George e Charlotte. L’accostamento dei due fatti è voluto da parte nostra, a significare la contraddittorietà simbolica dei due eventi: da un lato la morte di un innocente ed il dolore inconsolabile di due genitori, dall’altro la gioia di una nuova nascita che allieta non solo due genitori, ma addirittura un popolo intero, come è giusto che sia. E’ la vita, si dirà! Certamente, è la vita! Ma allora perché tanto accanimento per dare la morte ad un innocente e per far soffrire oltre il dovuto due genitori che la morte procurata per il loro piccolino non la volevano? Due avvenimenti, dicevamo, entrambi riferiti a due piccolini:  uno naturale, per la vita e la gioia, l’altro innaturale, artefatto, per la morte e il dolore. Gioiamo per il piccolo principe, piangiamo e soffriamo per il piccolo Alfie e per i suoi genitori. Alla fine ci viene un dubbio atroce: se Alfie non fosse appartenuto ad una famiglia di povera gente, ma ad una famiglia dell’alta borghesia o addirittura ad una famiglia della nobiltà, avrebbe avuto la stessa sorte? L’ospedale, i medici, i giudici nazionali ed europei, la conferenza episcopale inglese, avrebbero usato la stessa ipocrisia per giustificare una scelta di morte nel suo esclusivo interesse? Il dubbio permane e con esso tutto il nostro disprezzo non solo per la pratica dell’eutanasia, ma anche per tutti i suoi sacerdoti, che una cultura di morte trasforma in carnefici d’innocenti.

    P.S.: Apprendiamo ora da un lancio dell’Agenzia si stampa ANSA che sono state sospese le procedure per il distacco dei macchinari che tengono in vita il piccolo Alfie e che l’Italia gli ha concesso la cittadinanza italiana. Che accada veramente un miracolo?

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