Giustizia

  • In attesa di Giustizia: alterum non laedere

    “Diciamo che le cose che vi dobbiamo chiedere le sappiamo già…vogliamo vedere che risposte ci date: se quello che voi ci dite non converge ve ne andate dritti in galera”, “Tua moglie lo sa cosa hai fatto? Tu, mo’ ti puoi alzare, te ne vai, e poi ci rivediamo tra un mesetto però in una diversa posizione: tu dietro le sbarre”, “Noi le vogliamo bene, ha visto che città stupenda è Trani? E noi vogliamo farla tornare però in galera e dal carcere c’è una vista spettacolare sul mare”.

    Questo intercalare, definito nell’accusa “con modalità intimidatorie, minacciose, irridenti ed irrispettose”, è quello con cui due schietti gentiluomini, i Pubblici Ministeri di Trani, Michele Ruggero ed Alessandro Pesce, interrogavano i testimoni, in particolare tre dirigenti di azienda approfittando del fatto che quali persone informate sui fatti non erano assistite da un avvocato come gli indagati: il tutto nell’ambito di un’indagine relativa a presunti appalti truccati e questi fatti risalgono al 2015. Ci sono voluti nove anni tra giudizio penale per violenza privata (condannati) e disciplinare per arrivare ad una sanzione definitiva sebbene le intimidazioni, di cui abbiamo dato un saggio molto riassuntivo, fossero addirittura scolpite nei verbali di interrogatorio.

    Parliamone: sei mesi di reclusione per il primo, quattro per il secondo e con la condizionale per entrambi; la sentenza disciplinare, invece, ha previsto due anni di sospensione per Ruggero e nove mesi per Pesce…nel frattempo sono solo stati trasferiti a Bari ed hanno continuato a svolgere le loro funzioni incassando ogni mese e senza ritardo il meritato stipendio. Al termine della sospensione, che sta per iniziare, saranno ulteriormente trasferiti uno a Torino e l’altro a Milano a fare, però, i giudici civili e riprenderanno a macinare promozioni con il semplice passare degli anni e con esse aumenti salariali.

    “Alterum non laedere”  è uno dei principi fondanti del diritto romano che sembra essere stato dimenticato proprio dai rappresentanti della legge e se è vero che l’Ordine Giudiziario non è costituito interamente da campioni come questi (o altri di cui questa rubrica ha narrato le gesta) e neppure da simpatici burloni come il Marchese di Popogna, la cui nobile figura è stata tratteggiata nel numero della settimana scorsa, un minimo comune denominatore caratterizza queste decine di casi che hanno provocato danni, a volte irreparabili, ai cittadini e di immagine al sistema giustizia: la lunghezza dei giudizi, con la quale vengono accompagnati verso sanzioni miti rispetto alle malefatte o ad una confortevole pensione quando il giudizio disciplinare non si conclude per “raggiunto limite di età” facendo salve liquidazioni da centinaia di migliaia di euro (ultimo stipendio, intorno ai 9000 abbondanti al mese, moltiplicato per almeno quarant’anni di servizio) e trattamento di quiescenza misurato sempre sull’ultima retribuzione.

    Allo sventurato Giudice Andrea Paladino, un galantuomo che ha subito una via crucis giudiziaria prima di essere assolto da accuse infamanti di corruzione (anche di lui e della sua vicenda umana si trovano tracce su questo settimanale), viceversa è stata avviata un’azione disciplinare che sta per concludersi ed è stata chiesta la radiazione. Radiato per non aver commesso il fatto: cosa ci sarà dietro questo scempio richiesto dal Procuratore Generale della Cassazione? Forse la non appartenenza ad una corrente della magistratura oppure ad una minoritaria? O, semplicemente, la condanna viene chiesta per non aver compreso il fatto? Mistero.

    A volte, invece, tutto fila via velocissimo come nel caso di Luca Palamara, destituito prima ancora che si concludesse l’indagine penale e dopo avergli mutilato la lista dei testimoni a difesa nel disciplinare mentre nel processo a Perugia una modifica delle imputazioni dell’ultimo momento ha consentito di patteggiare: cioè a dire, un altro giudizio evitando di ascoltare testimoni e – soprattutto – senza dare la parola a lui che nel frattempo aveva mandato clamorosi segnali di allerta pubblicando con Alessandro Sallusti due libri andati a ruba, trecentomila copie vendute solo del primo, nei quali scoperchiava il vaso di Pandora della magistratura…ma non del tutto, un po’ per volta fino ad essere zittito almeno nelle sedi in cui doveva rispondere da incolpato.

    Perché al clamore iniziale suscitato dall’affaire Palamara è seguita la consegna del silenzio? Una lettura postuma degli atti rivela una genesi quantomeno oscura di queste investigazioni e dei suoi sviluppi; e di chi era quella manina che ha guidato lo spegnimento del captatore informatico inserito proprio nel cellulare di Palamara e proprio in occasione di alcune conversazioni molto critiche? Un captatore informatico (o trojan che dir si voglia) inoculato nel telefono di Palamara in assenza dei presupposti di legge, così come era impalpabile l’accusa originaria di corruzione rivoltagli sulla cui debolissima struttura sono state inizialmente richieste le intercettazioni tradizionali. Sarà interessante ritornare su questi argomenti.

    Sembra di essere al cospetto di un generale regolamento di conti ed a pensar male si fa peccato (a volte nemmeno quello) ma non si sbaglia: l’unica certezza è che l’amministrazione della giustizia in questo sventurato Paese è un’area non sorvegliata della democrazia.

  • In attesa di Giustizia: il marchese di Popogna ed altre storie

    “Se per qualsiasi infermità giudicata permanente o per sopravvenuta inettitudine un magistrato non può adempiere convenientemente ed efficacemente ai doveri del proprio ufficio, è dispensato dal servizio previo parere conforme del Consiglio Superiore della Magistratura”.

    Fascisti, carogne, tornate nelle fogne! Sembra già di sentir tuonare la Giunta dell’ANM ma…ma questo non è il testo del tanto avversato disegno di legge che mira ad introdurre i test psico attitudinali, bensì il primo comma dell’articolo 3 del decreto legislativo n. 511/1946 che declina le Guarentigie della Magistratura, approvato su proposta e firmato dal Guardasigilli dell’epoca, Palmiro Togliatti. Ed è tutt’ora vigente.

    Le leggi ci sono e basta applicarle. Le Guarentigie non ne parlano ma i test psicoattitudinali appaiono indispensabili per darvi attuazione: con cadenza periodica oppure secondo le necessità nel corso della carriera; il testo licenziato dal Consiglio dei Ministri è sicuramente migliorabile e dovrebbe essere proprio l’ANM ad offrire utili contributi prendendo le mosse proprio dalle Guarentigie senza fingere di ignorarne le disposizioni più scomode; quanto alla opposizione, è il momento di ispirarsi, in generale,  al pensiero di grandi statisti del passato piuttosto che a quello di nuovi campioni della sinistra come Fedez e Sumahoro.

    Ed il Marchese di Popogna cosa c’entra in tutto questo? Sembra il titolo di un film di Alberto Sordi ma è il titolo nobiliare, per l’esattezza “Marchese di Popogna e dello Andirivieni” di un magistrato autoproclamatosi tale, che pretendeva di farsi chiamare “Marchese” dagli avvocati e si era fatto stampare biglietti da visita con tanto di corona a dodici perle, uno che fece proposta di nozze ad una giovane insegnante con il garbato approccio: “Signorina, siete bona e mi avete fatto eccitare”: fu sospeso dopo una visita medica disposta dal Capo del suo Ufficio ma solo per un anno…infine, dopo altri tre anni, si dimise ma solo a condizione (esaudita) di essere insignito del titolo di Commendatore della Repubblica al Merito.

    Vi sono molti altri esempi di appartenenti all’Ordine Giudiziario che, in virtù della garantita inamovibilità e della mancanza di test, prima di essere dispensati dal servizio hanno dispensato giustizia a modo loro per anni: ce ne sono voluti dieci al CSM per decidere il caso di uno che aveva accumulato un arretrato di quasi novecento fascicoli, mai esaminati, e che al concorso per la Polizia di Stato era stato scartato proprio perché, sottoposto ai test (in quel caso previsti) aveva evidenziato “fragilità emotiva”.

    Un altro ancora, ufficialmente dichiarato infermo di mente nel corso di un giudizio, prima che si concludesse l’iter per la destituzione, collezionando con il passar del tempo una promozione dopo l’altra, è andato a riposo per raggiunti limiti di età con il titolo onorifico di Primo Presidente aggiunto della Corte di Cassazione.

    C’è stato anche chi si era convinto che nel ristorante in cui si recava abitualmente gli mettessero i chiodi nella minestra e aveva denunciato il titolare. E che dire di quello che si aggirava per il suo tribunale gridando “A noi le belle femmine, schiaffoni per tutti” ed in udienza annunciava che “il santo ha detto che oggi sono schiaffoni per tutti”?

    Finiamola qui, sono solo alcuni dei molti esempi. Purtroppo l’infermità non può consistere (almeno per il C.S.M.) in semplici estri o bizzarrie ma deve essere conclamata come un irreversibile disturbo della personalità: senza i test ciò è di fatto impossibile perché nessuno psicoterapeuta si presterebbe a formulare una simile diagnosi in assenza di un quadro normativo che regoli la materia e con il rischio – in caso di errore – di essere chiamato a rispondere delle conseguenze.

    A gennaio si è concluso il reclutamento del Comando Subacqueo degli Incursori della Marina e su oltre 1.300 candidati meno dell’1% ha ottenuto il brevetto e la consegna del prestigioso basco verde dei COMSUBIN: tutti sono stati sottoposti a severi test tra cui quelli psicoattitudinali e nessuno – nemmeno tra le centinaia ritenuti non idonei – si è lamentato. Ma questa è un’altra storia.

  • In attesa di Giustizia: quando la giustizia è stupefacente

    Continua a tener banco la querelle sui test psico attitudinali per i magistrati e quel buontempone di Nicola Gratteri, Procuratore della Repubblica di Napoli, si è detto favorevole a condizione che vengano introdotti anche per altre categorie “a rischio” tra qui – neanche a dirlo – i politici e con l’aggiunta di alcol e narco test.

    La storia che stiamo per raccontarvi gli dà (in un certo senso) ragione e anche a chi, come chi scrive, sostiene che i test dovrebbero essere periodici e non solo somministrati al momento di entrare in servizio dopo il superamento del concorso. Accade in Calabria, proprio la terra in cui Gratteri è nato ed ha esercitato le funzioni per la quasi interezza della sua carriera, che un giudice sia stato appena riammesso in ruolo dopo una sospensione di un anno  seguita ad un certificato abuso di droga, cocaina ed anfetamine…e non era il primo provvedimento disciplinare inflitto a costui che, dal 2003 (sì, ventuno anni!) quando, ubriaco alla guida, ha anche percosso un passante: più volte segnalato per avere guidato in stato di ubriachezza e, per non farsi mancare nulla, di violenza e minacce nei confronti di appartenenti alle Forze dell’Ordine.

    Non vogliamo né possiamo giudicare: la evidente fragilità di quest’uomo, i problemi personali irrisolti che lo hanno condotto nel baratro delle dipendenze suggeriscono quella pietas di romana memoria…però è sconcertante che, a fronte di fenomeni di recidiva, gli sia stato consentito di proseguire nel suo delicatissimo ministero amministrando giustizia sotto i postumi di una sbornia o di qualche altra sostanza.

    I motivi di una deriva possono essere molteplici e la vita, poi, può essere crudele: solo per fare un esempio estremo torna alla memoria il caso di un grande giudice e giurista milanese che, alla fine degli anni ’70, andandola a trovare, trovò il cadavere fatto a pezzi a colpi di scure della anziana madre; il delitto rimase irrisolto, e divenne un alcolizzato: la umana comprensione non si discute, non fu destituito ma assegnato ad un ruolo (in collegio con altri due) nel quale non poteva nuocere ma, anzi, portare la sua esperienza e competenza che continuavano ad affiorare nei momenti di lucidità non infrequenti.

    Ed allora, Procuratore Gratteri, suvvia Presidente dell’ANM, è più responsabile riconoscere che i magistrati non sono superuomini e soffrono delle medesime debolezze e patologie di tutti, soprattutto di tutti coloro che devono giudicare; fu Davigo, negli anni ’90, a sostenere che i giudici sono il meglio della società ed i pubblici ministeri il meglio del meglio del meglio: infatti si è vista la fine che ha fatto.

    Per par condicio è giusto riferire che il Consiglio di Disciplina di Bologna ha di recente sospeso dalla professione un’avvocata che remunerava le sue praticanti (forse bisognerebbe definirle “aspiranti”) con generose righe di cocaina e questo accadimento consente di stagliare la differenza con il destino analogo di un magistrato: per un avvocato una lunga sospensione comporta non solo perdita di avviamento ma anche prestigio ed affidabilità pur senza sapere le ragioni del provvedimento perchè la selezione la fa il “mercato”, un politico è sottoposto al giudizio degli elettori mentre un magistrato è sostanzialmente inamovibile grazie, in buona misura, alla tradizionale indulgenza della Sezione Disciplinare del C.S.M..

    In questo quadro desolante, nei giorni di Pasqua, la splendida preghiera del penalista scritta dall’Avvocato Francesco Maisano di Bologna può aiutare ad alimentare la speranza in quella giustizia cui i difensori offrono un contributo essenziale:

    O Signore, Tu che hai detto “Beati i perseguitati a causa della giustizia” fai che io possa assolvere con spirito di fratellanza e carità il compito di difendere chi si affida a me; fai che sia, per chi mi cerca nel bisogno, quel che il Cireneo fu per te lungo la via dolorosa. Assistimi quando prenderò le ragioni di chi spera e lascia che io stesso speri in te quando la tua amorosa difesa mi salverà dal male.

  • In attesa di Giustizia: bene ma non benissimo

    Carlo Nordio ha preannunciato che questa settimana porterà in Consiglio dei Ministri la bozza di disegno di legge che prevede la somministrazione di test psico attitudinali per i magistrati che dovrebbero consistere sostanzialmente in una terza prova da sostenere dopo avere superato quelle scritte e l’orale del concorso.

    L’ Associazione Nazionale Magistrati, non c’è bisogno nemmeno di dirlo, strepita sostenendo che si tratti di una prova irragionevole e – forse – non ha tutti i torti seppure per ragioni diverse da una trasparente tutela della casta.

    In effetti – se quello nei termini riassunti sarà il criterio – la modalità è poco convincente: innanzitutto, se proprio si deve, sembrerebbe meglio che i test vengano somministrati prima di partecipare al concorso e non dopo per così evidenti ragioni che non vale neppure la pena di enumerarle: se, poi, il neo magistrato dovesse mostrare segni di un sopravvenuta inidoneità o squilibrio tutto ciò potrà ben essere rilevato durante il periodo di tirocinio da coloro a cui è affidato con le necessarie conseguenze.

    In secondo luogo, non è da escludere che una deriva psico fisica si possa verificare più avanti nel corso della carriera ed, allora, una soluzione maggiormente sensibile all’esigenza di garantire che il destino giudiziario dei cittadini sia affidato a magistrati compos sui può essere quella ipotizzata già molti lustri addietro da un avvocato piacentino, Carlo Tassi, e proposta senza fortuna nella sua veste di deputato del Movimento Sociale.

    Per quello che, con una certa frequenza, si annota in questa rubrica casi meritevoli di un check up non mancano e, del resto, è nella natura delle cose che un uomo possa subire un decadimento mentale o fisico che lo renda inabile a determinate mansioni: non c’è nulla di cui sgomentarsi, test analoghi sono previsti in altri Paesi come la Francia e la Germania, nel nostro li fanno i militari, gli appartenenti alle forze dell’ordine e nessuno si indigna se viene richiesto di rinnovare periodicamente la patente di guida o il porto d’armi: si tratta solo di prendere le misure necessarie a bilanciare il principio di inamovibilità dei funzionari pubblici prendendo le dovute distanze dal pur brillante pensiero espresso da Erasmo da Rotterdam nel suo “Elogio della follia”.

    Nel frattempo prende quota l’indagine della Procura di Perugia sugli accessi abusivi alle banche dati e il possibile “dossieraggio” ad opera di un militare della Guardia di Finanza distaccato alla Direzione Nazionale Antimafia e dal suo superiore, il P.M. Antonio Laudati: tra sussurri e grida, più che altro uno scaricabarile tra i personaggi coinvolti, spicca la scelta di quest’ultimo di avvalersi della facoltà di non rispondere all’interrogatorio  opportunamente disposto dal Procuratore Capo umbro, Raffaele Cantone.

    Lo abbiamo chiarito più volte: il diritto al silenzio per l’accusato è un canone costituzionale implicito nel secondo comma dell’articolo 27 ed espressamente previsto dal codice; essendo l’interrogatorio un atto di natura essenzialmente difensiva, ognuno ha diritto di difendersi come ritiene più opportuno, anche tacendo.

    L’esercizio di questo diritto spetta, ovviamente, anche a Laudati ma non è trascurabile il dettaglio che al silenzio di fronte a Cantone abbia fatto seguire la distribuzione, tramite il suo avvocato, di una nota scritta in cui, viceversa, risponde dettagliatamente alle contestazioni che erano state formulate nell’invito a comparire in Procura e che avrebbero costituito il fil rouge dell’interrogatorio senza trascurare qualche bordata all’indirizzo dell’allora Procuratore Nazionale…ed il trasferimento di una delicata fase investigativa, che dovrebbe essere scongiurato, dalle aule di tribunale alla stampa a “redazioni unificate” è servito.

    Bene ma non benissimo, anche questa settimana ed in attesa di giustizia le ombre sono più delle luci: non c’era da aspettarsi nulla di buono, particolarmente in periodo di Passione quando si celebra il ricordo del più clamoroso errore giudiziario della storia.

    Buona Pasqua a tutti.

  • In attesa di Giustizia: lo show dei record

    Ci sono primati da Guinness di cui si farebbe volentieri a meno ma tant’è, se non proprio celebrati, devono almeno essere documentati.

    Il merito, si fa per dire, questa volta va ascritto al P.M. anglo-partenopeo Henry John Woodcock, già campione europeo di competenza creativa ai tempi in cui era in servizio a Potenza quando, saccheggiando le riviste di gossip piuttosto che informative (peraltro inesistenti) della Polizia Giudiziaria diede vita alla celeberrima indagine nota come “Vallettopoli”: un feuilleton in salsa Dagospia, frantumatosi in rivoli investigativi distribuiti a manciate in diverse Procure della Repubblica che, dopo aver sbirciato dal buco della serratura delle discoteche alla moda cosa facevano nel tempo libero veline, calciatori, nani e ballerine, ha esitato qualche modesta condanna per piccole cessioni di cocaina ad uso “socializzante” ed, in compenso, uno sputtanamento ad alzo zero per fatti  totalmente privi di rilevanza penale.

    Ma è con l’indagine “CONSIP” che sono stati raggiunti risultati da pessima gestione investigativa posti su vertici che mai nessuno aveva mai osato scalare: tutti assolti gli imputati e condannati solo i responsabili delle indagini…game, set, match! Nemmeno quelle Procure che nascondono i testi a discarico, almeno per ora, erano riuscite a tanto.

    Qualche esempio può illustrare plasticamente la manettara approssimazione con cui è stato utilizzato il materiale raccolto, tra l’altro, invadendo l’esistenza dei cittadini con migliaia di costose quanto inutili intercettazioni: secondo Johnny Woodcock in una di queste – sfruttata come caposaldo dell’accusa – sarebbe risultato che in un’azienda fosse stato addirittura istituito il ruolo di “responsabile del crimine”, dunque un’impresa  a matrice esclusivamente delinquenziale.

    Da un magistrato bilingue ci si sarebbe aspettato di meglio: un riascolto dell’intercettazione ha chiarito senza lasciare spazio a dubbi che la funzione cui si alludeva era quella di “responsabile cleaning”, cioè a dire l’addetto alle pulizie. Ci sarebbe da ridere, tutti tranne Woodcock che all’evidenza, ha una conoscenza spannometrica anche dell’inglese, se non fosse che c’è chi sulla base di accertamenti tanto grossolani ha subito mesi di carcerazione come l’imprenditore Romeo: sei in galera ed altrettanti agli arresti domiciliari. Complimenti vivissimi anche al GIP che ha accolto le domande di arresto, per non parlare di quello che ha disposto rinvii a giudizio fondati su di un vuoto torricelliano…

    L’evanescenza dell’impianto probatorio, forse, era palese anche agli inquirenti e sin da subito tanto è vero che sono stati chiamati in soccorso i più fidati lacchè della carta stampata, con fuga pilotata di notizie che avrebbero dovuto restare riservate (inutile fare nomi delle redazioni destinatarie: possono facilmente immaginarsi e, comunque, risultano dalla sentenza): ecco, allora, i titoli cubitali e gli articoli copia e incolla di una informativa degli uomini di Woodcock contenente grossolane falsità.

    Su questa melma sono state scritte paginate di disinformazione e persino un libro; è uno Show dei record che fa inorridire ma non è finita: conclusa questa prima tranche  del processo a Roma, una seconda è ancora in corso a Napoli con immutati protagonisti ed interpreti e può immaginarsi con quale credibilità agli occhi del Tribunale, a tacere del fatto che il P.M. – sempre Enrico l’Inglesino – non ha più l’interesse a stabilire la verità ma quello di ottenere condanne per provare a salvare se stesso.

    E il C.S.M.? Tutto tace, mentre i cittadini si pongono delle domande: che garanzie si potranno mai avere se si dovesse diventare bersaglio in una delle sbilenche inchieste di un magistrato incorso in incidenti di percorso così gravi e senza precedenti nel mondo Occidentale? Se Roma piange, Sparta non ride ma questa è una piccola consolazione solo per la devastata Repubblica della Procura di Milano.

  • Presentato a Milano ‘Meglio separate’ di Gaetano Bono, il libro sulla separazione delle carriere in magistratura

    Presentato a Milano, lo scorso 6 marzo, il libro Meglio separate. Un’inedita prospettiva sulla separazione delle carriere in magistratura, del dott. Gaetano Bono, Sostituto Procuratore Generale alla Corte d’Appello di Caltanissetta, incentrato sulla divisione delle carriere dei Magistrati. Ad ascoltare Bono, attualmente il più giovane sostituto procuratore generale in servizio, una platea di avvocati e magistrati ,che ha affollato la Biblioteca “Avv. Giorgio Ambrosoli” al Palazzo di Giustizia di Milano, interessata ad un argomento sul quale, da trent’anni circa, si dibatte con pareri contrastanti. Bono, infatti, ha affrontato la questione, sia nel libro, sia durante la presentazione, senza pregiudizi, mostrando i punti di forza, le criticità e le possibili soluzioni. Criticità che portano la magistratura, come è emerso anche durante l’incontro, a contrastare e criticare la proposta, non ravvisando alcuna contrapposizione dei ruoli se non, piuttosto, un limite professionale e di ruolo. Punti di forza colti, invece, dagli avvocati. Il dibattito ha permesso di focalizzare l’attenzione anche sullo stato attuale della giustizia italiana, sui processi dilatati nel tempo e su quelli mediatici, sulle fughe di notizie, sulle difficoltà che sta affrontando il settore penale. E non poteva mancare un riferimento a Giovanni Falcone, la cui morte ha fatto scattare nell’autore, a oli 9 anni, il desiderio di diventare da grande sostituto procuratore.

    Introdotto dall’Avv. Daniele Terranova, Commissione Giustizia Tributaria dell’Ordine Avvocati Milano e moderato dall’Avv. Alessandro Mezzanotte, Consigliere dell’Ordine degli Avvocati di Milano, l’incontro ha visto la partecipazione del Dott. Fabio Roia, Presidente del Tribunale di Milano, del Dott. Marcello Viola, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano, dell’Avv. Valentina Alberta, Presidente Camera Penale di Milano, del Dott. Giuseppe Santalucia, Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, dell’Avv. Giovanni Briola, Consigliere Tesoriere dell’Ordine degli Avvocati di Milano.

  • In attesa di Giustizia: the joker

    Due perle di saggezza sembrano perfette per introdurre il commento di questa settimana.

    Il primo è di un grande avvocato di scuola napoletana e risale a diversi anni fa: “nei processi, molte volte non servono nemmeno i testimoni, le indagini della polizia giudiziaria, basta che gli imputati aprano bocca tentando di discolparsi…”

    Non a caso l’articolo 27 della Costituzione, prevedendo la presunzione di innocenza, tra i canoni impliciti sottende da un lato l’onere della prova a carico del Pubblico Ministero e dall’altro il corrispondente diritto al silenzio dell’accusato: quello che nei verbali viene definito “facoltà di non rispondere” di cui può avvalersi non rispondendo ad alcune o a tutte le domande che gli vengono poste così mettendo anche in sicurezza il rischio di autoincriminarsi con dichiarazioni contraddittorie, poco credibili se non apertamente autolesive.

    La seconda perla di saggezza è recentissima ed inaspettatamente riferibile a Federico Leonardo Lucia, in arte Fedez che – incalzato dai cronisti per avere aggiornamenti sulla presunta (ma non troppo) crisi coniugale – ha affermato che, dal collezionare francobolli in avanti, ci sono cose decisamente più interessanti da fare piuttosto che impicciarsi della sua vita e spiegando che, anche quando sui social media hanno pubblicato spaccati generosi della loro vita, i cosiddetti Ferragnez hanno scelto cosa condividere e cosa no. Impeccabile e bisogna dargli atto di avere abilmente mantenuto sin dall’inizio un profilo molto basso non solo sulle vicende famigliari ma anche su quella del pandoro Farlocco, pardon, Balocco non meno che sulle obiezioni fatte direttamente a lui a proposito di gesti di liberalità, un po’ grossier, fatti a bordo della sua Lamborghini (e con denari non suoi), piuttosto che l’origine dei fondi per realizzare strutture sanitarie ed il reale numero dei posti letto resi disponibili. Consigliato bene o guidato da quella astuzia connaturata di chi, come lui, è “cresciuto sulla strada” e non nega le sue radici, poco importa: ciò che conta è che è rimasto comunque ai margini della shit storm che ha investito la moglie, una tempesta di m**** per chi non ha dimestichezza con gli anglicismi.

    Chiara Ferragni, invece, non ha mai praticato sin dall’inizio quel “bel tacer che non fu mai scritto” e che, come abbiamo visto è una garanzia scritta anche nella Costituzione: consigliata male o indifferente a buoni consigli (conoscendoli personalmente, sono sicuro che i suoi eccellenti avvocati non abbiano lesinato ottimi suggerimenti) si è prodotta in una quantità di spiegazioni che non giustificano nulla e che, anzi, sono state spesso contraddette da evidenze insuperabili: basti pensare alla palese equivocità del messaggio promozionale che accompagnava la confezione del dolcetto natalizio origine di tutti i guai che può definirsi “errore di comunicazione” solo per chi non conosca le basi della lingua italiana. La cosa peggiore è che, se un domani l’imprenditrice digitale dovesse sottoporsi ad un interrogatorio, sicuramente le sue dichiarazioni pubbliche potrebbero esserle ricordate chiedendo di chiarire meglio il suo pensiero verosimilmente riproducendole nei verbali di interrogatorio fino dalla fase di indagini per poi diventare micidiali polpette avvelenate perfette per inserirla senza misericordia nel tritacarne di uno di quegli esami dibattimentali al termine dei quali non si fanno prigionieri.

    Donna copertina ormai solo per l’Espresso, Chiara Ferragni non perde occasione per riproporre sempre gli stessi ritriti argomenti, indifferente alla mancanza di risultati ed al monito immarcescibile di Giulio Andreotti secondo il quale una smentita è una notizia data due volte…ed in questo caso parliamo di multipli di due elevati a potenza e ricorda un po’ Davigo che si è morsicato la lingua ma lo ha fatto tardi, solo dopo la Caporetto dei manettari celebrata dalla Corte d’Appello di Brescia che ha confermato una condanna fondata in quella che fu un’autentica quanto supponente confessione, nell’erroneo convincimento di chi crede di essere sempre dalla parte della ragione anche quando ha torto. In questa rubrica è stato espresso e viene per ora mantenuto il convincimento – sulla base degli elementi disponibili – che il reato di truffa a carico della Ferragni non sussista ma in attesa della conclusione delle indagini e giustizia dello Stato, questa donna inconsapevole del valore del silenzio si è già sottoposta al giudizio del Tribunale che, forse, più le interessa: quello dei followers esponendosi ad un’autentica dèbacle.

  • In attesa di Giustizia: terno, quaterna, cinquina?

    Anche questa settimana ci sarebbe più materia di commento di quanto lo spazio della rubrica – se non dell’intero Patto Sociale – possa ospitare: del trasferimento di Chico Forti per scontare la pena in Italia, sul quale si è mosso qualcosa che ha offerto più una concreta speranza, tratteremo senz’altro quando il nostro concittadino tornerà in Italia ma il Governatore della Florida ha già firmato il corrispondente provvedimento.

    A Lucca, salta fuori da un fascicolo una sentenza già scritta prima ancora che sia concluso il processo: non è una novità ma la dice lunga sulla insofferenza di ampie fasce della magistratura rivolta alla funzione difensiva vista più come un ostacolo che un contributo a rendere giustizia.

    A tal proposito, naturalmente, meriterebbe almeno qualche riga la vicenda milanese che vede una donna imputata di aver lasciato morire di stenti la propria bimba mentre trascorreva uno spensierato week end con il fidanzato del momento: storia orribile peggiorata dalla scelta inaudita del Pubblico Ministero di indagare il difensore e due psicologhe del carcere di San Vittore supponendo che abbiano cercato di pilotare gli esiti della perizia psichiatrica; detto francamente, non si fa così: si attende la fine del processo e con tutti gli elementi a disposizione si apre un altro fascicolo senza sollevare clamore mediatico ed il rischio di condizionare soprattutto i giudici popolari oltre che il perito nel frattempo incaricato dalla Corte. In Procura sono volati gli stracci, la P.M. coassegnataria, in aperto dissenso con il collega (da cui non era stata neppure informata della iniziativa) ha restituito la delega al Procuratore Capo e gli avvocati di Milano hanno proclamato una giornata di sciopero indicendo nello stesso giorno un dibattito dall’eloquente titolo “Il processo alla difesa, la difesa del processo”.

    Nel frattempo a Perugia, accompagnata dalla tradizionale fuga di notizie, si allarga l’indagine sul presunto dossieraggio commissionato non si sa da chi e finalizzato non si sa a che cosa ad opera di funzionari della Direzione Nazionale Antimafia con il coinvolgimento del P.M. Laudati. Ricorda un po’ lo scandalo Telecom di qualche anno fa (in quel caso il capro espiatorio fu Giuliano Tavaroli, responsabile della sicurezza dell’azienda, un altro che dei dossier non se ne sarebbe fatto nulla) e vedremo come andrà a finire.

    E, mentre a Brescia si apre la fase preliminare del processo di revisione a carico di Olindo Romano e Rosa Bazzi, il C.S.M., dando un buon esempio di cui questa volta non si sentiva il bisogno e ad una velocità sinora sconosciuta ha già comminato la censura a Cuno Tarfusser, il magistrato che aveva osato presentare la richiesta di revisione senza interpellare prima il suo superiore. Colpevole di lesa maestà per il mancato rispetto di bizantine circolari interne di cui non è nemmeno certa l’esistenza. Qualcun altro, per marachelle più sostanziose sta, invece, attendendo in pensione un pronunciamento dell’Organo di autogoverno che varrà meno della carta su cui è scritto: non luogo a sanzione perché non più appartenente all’Ordine Giudiziario.

    Tuttavia, la giustizia quando vuole trionfa: Marco Travaglio è stato condannato per una evidentissima diffamazione nei confronti dell’attuale Vice Direttore del TG1 Grazia Graziadei sebbene ci sia voluto un po’ di tempo, per l’esattezza quattordici anni. Anni serviti per vedere uscire prima il terno sulla ruota di Roma con tre sentenze consecutive di assoluzione in udienza preliminare ed altrettanti annullamenti dalla Cassazione.

    Solo al quarto tentativo c’è stato un rinvio a giudizio ma non è bastato: condannato in primo grado, l’assoluzione è arrivata in appello ma ha subito un ulteriore annullamento della Cassazione (roba da Guinness dei primati) e nel giudizio di rinvio vi è stata una nuova condanna…non ancora definitiva.

    La decisione è teoricamente ricorribile in Cassazione questa volta, facendo cinquina, dal paladino della libertà di stampa che spesso confonde con quella di diffamare. Dunque, dopo quasi tre lustri, potrebbe non essere ancora finita e del resto come dicono gli americani “un bravo avvocato conosce la legge, un ottimo avvocato conosce i giudici” e la cricca del Fatto Quotidiano, autentico house organ delle Procure, li conosce molto bene tanto è vero che il pluripregiudicato Direttore continuerà a predicare la morale e la verità sulle colonne del suo giornale e nelle ospitate televisive senza che nessuno noti la stranezza di intere trasmissioni in cui i conduttori pendono dalle labbra di un diffamatore seriale.

    In attesa di Giustizia, noi de Il Patto Sociale, se anche dovessimo rimanere gli ultimi, andiamo avanti con il nostro sorriso ed il coraggio di raccontare e combattere.

  • In attesa di Giustizia: la strage degli innocenti

    Altre morti: quello degli infortuni sul lavoro è un argomento di cui questa rubrica si è già occupata ma gli anni passano e non sembrano esserci miglioramenti nella drammatica statistica delle “morti bianche” (oltre mille anche nel 2023) a tacere di quegli incidenti che comportano mutilazioni, lesioni gravi e di quelli in cui solo la fortuna ha evitato il peggio, insomma è una vera e propria strage degli innocenti.

    Ovviamente, dopo l’ultima tragedia a Firenze, c’è già chi invoca pene più gravi: una soluzione tanto facile, di gradimento a populisti e forcaioli, quanto statisticamente destinata a non produrre risultati; tanto per fare un esempio, restando nell’ambito dei reati colposi (cioè quelli non voluti ma verificatisi per negligenza), basta scorrere i dati relativi agli incidenti automobilistici fatali per avere contezza della inutile introduzione del reato di omicidio stradale che ha prodotto risultati controversi. Nelle annate migliori vi sono state riduzioni percentualmente marginali sui decessi: l’inasprimento delle pene, quindi, non ha svolto nessuna reale efficacia dissuasiva né risultati apprezzabili anche se, come suol dirsi, anche una sola vita salvata è un successo…ammesso che non si tratti di mere casualità registrate su grandi numeri.

    Senza dimenticarne altre sciagure terribili – come quello dei manutentori della linea ferroviaria a Brandizzo – l’indagine sulle morti a Firenze ha fatto emergere il problema legato al sub appalto dei lavori, spesso affidato con una lunga serie di delegazioni ad imprese che non assicurano standard minimi di sicurezza né  affidabilità, reclutando lavoratori privi di formazione specifica: altra circostanza che sta risultando proprio dall’inchiesta fiorentina sono le assunzioni con contratto misurato su mansioni diverse da quelle assegnate e questo è un ulteriore rilievo che fa riflettere più che sulle pene sulla esigenza di una rigorosa opera di prevenzione e vigilanza.

    Sebbene i ruoli degli Ispettori del Lavoro continuino a segnalare carenze della pianta organica vicine al 50%, ed è all’Ispettorato che è assegnata – tra le altre – la funzione di controllo sul rispetto della legislazione in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, gli strumenti volti ad una efficace prevenzione non mancano ma sono affidati ai privati, soprattutto allorquando si tratti proprio di assegnazione di opere in sub appalto.

    Sembra, dunque, che questa funzione sia misurata sulla serietà delle aziende che, per prime, devono offrire garanzie reali in materia (ed in difetto delle quali non potrebbero neppure partecipare alle gare sia pubbliche che private) ma che restano del tutto vanificate qualora, senza verifica neppure dalle stazioni appaltanti, le opere vengano subassegnate a soggetti che le medesime garanzie non offrono: i committenti  più rigorosi, per esempio, non solo esigono che solo una percentuale assai ridotta (a regola non oltre il 10%) possa essere subappaltata ma anche che tutte le realtà impiegate dispongano di un sistema di prevenzione degli illeciti ai sensi del d.lgs. 231/01 che contempla la responsabilità da reato delle imprese che, quindi, rispondono per una forma di colpa in organizzazione unitamente ai dirigenti e manager il cui comportamento integri un reato tra quelli previsti da uno specifico catalogo: e gli infortuni sul lavoro vi rientrano.

    In sintesi, il sistema – con la inaccettabile eccezione della mancanza di ispettori del lavoro, ma i soldi per le assunzioni non ci sono mai…- è strutturato per una adeguata prevenzione e basterebbe farlo funzionare senza affidarsi solo al “buon cuore”, se così si po’ dire, degli imprenditori che non sempre mostrano più sensibilità alla sicurezza, alla integrità fisica, alla vita, che non alle economie derivate dal risparmio su materiali impiegati, formazione, dotazione di strumenti individuali di protezione.

    L’aumento delle pene, la creazione del reato di omicidio sul lavoro difficilmente farebbero scomparire il fenomeno delle morti bianche, rendendo solo più complesso un sistema già bizantino. Questo vale per ogni cosa: prima di introdurre nuove leggi sarebbe buona cosa far rispettare quelle esistenti. Altrimenti è solo propaganda e l’attesa di giustizia per il popolo dei lavoratori, di quelli più umili, meno pagati e meno “garantiti”, non risiede certo in condanne esemplari il cui dispositivo è buono solo per essere affisso su quelle troppe lapidi che non vorremmo più vedere ma in quelle morti che si devono e si possono evitare.

  • In attesa di Giustizia: galline in attesa di giustizia

    Solo gli sciocchi non sono in grado di riconoscere i propri errori e cambiare opinione se adeguatamente avviati sulla strada del ripensamento: di recente questa rubrica ha affrontato il tema – di grande attualità – del trattamento penitenziario riservato dall’Ungheria ad una nostra concittadina (e non solo a lei, per non discriminare nessuno) e della diversità dei codici e degli apparati giudiziari europei, con buona pace del principio del mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie che affonderebbe (condizionale d’obbligo) nelle comuni radici e tradizioni continentali e nella condivisa Convenzione dei Diritti dell’Uomo.

    Aspre critiche sono state mosse al mancato ravvicinamento dei sistemi penali, lamentando che questa non sia l’Europa che avrebbe dovuto unire gli uomini facendoli sentire “cittadini europei”…eppure, qualcosa si muove, anzi si è mosso e già da molto tempo in questa direzione ed in questo numero è cosa buona e giusta fare ammenda di quelle che paiono rivelarsi infondate doglianze.

    La buona notizia, ingiustamente sottovalutata e che riabilita un’Unione Europea – attenta a dettarci regole, regolamenti e codicilli con una frequenza tale da trasformarli in imposizioni – riguarda la tutela offerta alle galline ovaiole e parliamo dell’attuazione ad una direttiva nientemeno che del 1999 a cui noi italiani ci siamo tardivamente e colpevolmente adeguati con una delega al Governo del 2003 volta a provvedere al riordino e la revisione della disciplina sanzionatorio in materia di protezione delle galline ovaiole.

    Era ora: queste simpatiche bestiole da cortile aspettavano da anni un po’ di tutela e di giustizia! Forse non a caso il nostro provvido legislatore ha inserito il tutto nel medesimo disegno di legge che regola la responsabilità civile dei magistrati prevedendo un inasprimento delle pene già esistenti da irrogare a chi delinqua contro le gallinelle con pene “da irrogare secondo principi di effettività, proporzionalità e dissuasività” nonché mediante “riformulazione e razionalizzazione e graduazione dell’apparato sanzionatorio”.

    Ci mancherebbe altro! E, si badi bene, la Corte Costituzionale insegna che non vi è disparità di trattamento tra galline ovaiole e nullafacenti perché la diversificazione è conseguente alla esigenza di regolamentare situazioni non omogenee (volete mettere quelle adorabili creature che vi mettono l’ovetto in tavola con quelle scansafatiche che si limitano a razzolare tutto il giorno becchettando granaglie?).

    La questione è molto seria: nessuno leda i sacrosanti diritti delle galline e di ogni altra specie, è l’Europa che ce lo ha chiesto e bene ha fatto il legislatore nazionale, severo ma giusto, ad intervenire con l’autorevolezza che gli è propria.

    Certamente, dopo essersi occupato di “adeguare gli stabilimenti di allevamento” per queste docili fattrici, dispensatrici di gioie ai galli del pollaio, non sarebbe male che il Parlamento si occupasse  anche di adeguare agli standard di un paese civile gli stabilimenti di detenzione per coloro che sono in attesa di giudizio o in espiazione delle pene…perlomeno una volta risolto quel problemino legato alla carenza di organico di circa 18.000 Agenti di Custodia (i cui stipendi, ahimè costano…), misurato sulla attuale struttura carceraria e che è destinato ad aumentare vertiginosamente se la soluzione fosse quella di costruire nuove carceri o ristrutturare quelle già esistenti e in disarmo: a Monza, per esempio, ce n’è una in pieno centro abbandonata da decenni e divenuta luogo di rifugio di topi, ragni e salamandre ed in progressiva rovina. Ed è solo un esempio: nel Paese ce ne sono una quarantina, alcune mai neppure entrate in funzione: da Arghillà (RC) per mancanza di allacciamento idrico a Busachi, in Sardegna, un’altra frettolosamente chiusa e lasciata alle intemperie da lustri è quella di Pinerolo, altre ancora hanno i lavori fermi da tempo immemorabile per mancanza di fondi e nel frattempo vengono saccheggiate di quello che può tornare utile altrove: dai gabinetti ai serramenti.

    Ma questi sono problemi tipicamente nostri, di un’Italia che – per fortuna – sta al passo con i partner europei e garantisce alle galline il giusto processo.

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