Gran Bretagna

  • La Truss esordisce sulle orme della Thatcher: via le tasse e Stato minimo

    Un taglio di tasse che, in questa dimensione e in un unico annuncio, non si vedeva dal 1972: esattamente mezzo secolo. Inizia col botto, e non senza polemiche, “la nuova era” di politica economica promessa dalla  versione riveduta e corretta del governo Tory britannico, passato due settimane fa, ultimo atto del regno di Elisabetta,  dalla leadership di Boris Johnson a quella – poco carismatica ma ideologicamente più radicale – di Liz Truss.

    L’occasione per mettere qualche carta sul tavolo è stato l’intervento con cui il neocancelliere dello Scacchiere, Kwasi Kwarteng, promosso a primo titolare delle Finanze di origini familiari africane nella storia isolana al numero 11 di Downing Street, ha illustrato alla Camera dei Comuni con la premier accanto quella che era stata presentata come una “mini manovra” aggiuntiva: una correzione di bilancio, fatta di misure pubblicamente preannunciate da giorni e imposta dagli effetti nel Regno del terremoto energetico globale aggravato dalla guerra fra Russia e Ucraina, da un’inflazione balzata al 10% e da una recessione che le ultime stime della Bank of England indicano aver fatto capolino in anticipo sul previsto già nel terzo trimestre del 2022. Ma che in realtà ha assunto le forme d’una svolta in piena regola: sulle orme del ricordo liberista di quella Margaret Thatcher addirittura superata per entità iniziale delle riduzioni fiscali.

    La premessa di una strategia da ‘o la va o la spacca’ per provare a ridare slancio all’economia dell’isola, fra scossoni geopolitici, conseguenze del post pandemia e danni collaterali del dopo Brexit. Strategia fatta del resto di deregulation e meno tasse, ma anche d’intervento pubblico a colpi d’extra deficit per assicurare il promesso congelamento delle bollette sull’energia per due anni alle famiglie e alle imprese. Nel quadro di un cocktail ad alto rischio che Kwarteng e Truss giudicano necessario correre, convinti di poter compensare gli esborsi, almeno a medio termine, con un rimbalzo del Pil; ma che suscita allarmi da più parti, in primis sulla tenuta delle finanze pubbliche.

    “Di fronte alla peggiore crisi energetica da generazioni, non possiamo non essere vicini alla gente, ha proclamato il cancelliere di genitori ghanesi a Westminster, difendendo i costi del blocco delle bollette: 150 miliardi di sterline a regime, con 60 miliardi di sovvenzioni governative ufficializzate per i soli primi sei mesi. Non senza rivendicare al contempo la scure fiscale come una cruciale terapia shock per la ripartenza.

    Ecco quindi spiegata la decisione di ridurre dal 2023 le aliquote sul reddito (dal 20 al 19% quella minima, dal 45 al 40 quella per chi guadagna dalle 150.000 sterline annue in su); di abolire l’imposta di bollo sulle transazioni immobiliari fino a 250.000 sterline (a 425.000 per chi acquista la sua prima casa); di cancellare l’incremento dell’1,25% sui contributi previdenziali della National Insurance e quello della Corporate Tax sui profitti delle aziende dal 19 al 25% predisposti dall’ex cancelliere Rishi Sunak in era BoJo dopo l’emergenza Covid per finanziare l’assistenza sanitaria e sociale; d’introdurre vendite tax free per i viaggiatori stranieri; d’eliminare il tetto fissato dal 2008 sui bonus di banchieri e top manager per ridare smalto all’attrattività della City.

    Scelte che economisti come Paul Johnson, dell’Institute for Fiscal Studies, giudicano “insostenibili”. Una perplessità che si estende anche ai mercati, a guardare il calo della sterlina a un nuovo minimo sul dollaro dal 1985.

    Di fronte a questi annunci, per varie ragioni, si indignano opposizioni e realtà impegnate nel sociale. Replicando a Kwarteng, la cancelliera dello Scacchiere ombra del Labour, Rachel Reeves, da un lato ha accusato il governo Truss di portare il debito pubblico a livelli “senza precedenti”; dall’altro ha denunciato gli interventi sulle tasse, paralleli alla decurtazione dell’Universal Credit per i più poveri, come una classica “ricetta conservatrice”. Destinata a “gratificare chi è già ricco”.

  • Eurexit: la Shell rinuncia al nome Royal Dutch e si traferisce a Londra

    Shell rinuncia all’apposizione Royal Dutch e si trasferisce in Gran Bretagna, dove porterà anche la residenza fiscale. Gli azionisti saranno chiamati a dare il via libera all’operazione il 10 dicembre che prevede anche una semplificazione della struttura azionaria, con un’unica linea di azioni. “In un momento di cambiamento senza precedenti per il settore, è ancora più importante avere una maggiore capacità di accelerare la transizione verso un sistema energetico globale a basse emissioni di carbonio. Una struttura più semplice consentirà a Shell di accelerare la realizzazione della sua strategia Powering Progress, creando valore per i nostri azionisti, clienti e società in generale” spiega il presidente di Shell, Sir Andrew Mackenzie ma la decisione ha spiazzato Amsterdam con il governo olandese che si è detto “spiacevolmente sorpreso” dall’annuncio.

    Il colosso petrolifero, una delle cosiddette Sette sorelle, fu costituita nel 1907 dalla fusione dell’olandese Royal dutch petroleum e della britannica Shell transport and trading; a controllarlo erano rimaste due holding distinte che nel 2005 si sono fuse e le azioni erano rimaste divise in due classi, A e B, che rappresentano le vecchie azioni Royal Dutch e Shell. A seguito della semplificazione, spiega il gruppo, gli azionisti continueranno a detenere gli stessi diritti legali, di proprietà, di voto e di distribuzione del capitale in Shell. Le azioni continueranno ad essere quotate ad Amsterdam, Londra e New York (attraverso il programma American Depository Shares), con l’inclusione dell’indice FTSE UK. Si prevede che l’inclusione nell’indice AEX verrà mantenuta.

    Non è però un addio all’Olanda: “Shell è orgogliosa della sua eredità anglo-olandese e continuerà a essere un importante datore di lavoro con una presenza importante nei Paesi Bassi – rassicura il gruppo -. La sua divisione Projects and Technology, le attività globali Upstream e Integrated Gas e il polo delle energie rinnovabili rimangono a L’Aia”. E poi ci sono i progetti eolici al largo delle coste olandesi, il progetto di costruzione di un impianto di biocarburanti a basse emissioni di carbonio su scala mondiale presso l’Energy and Chemicals Park di e del più grande elettrolizzatore d’Europa a Rotterdam.  “La semplificazione – aggiunge Sir Mackenzie – normalizzerà la nostra struttura azionaria sotto le giurisdizioni fiscali e legali di un singolo paese e ci renderà più competitivi. Di conseguenza, Shell sarà in una posizione migliore per cogliere le opportunità e svolgere un ruolo di primo piano nella transizione energetica. Il consiglio di amministrazione di Shell raccomanda all’unanimità agli azionisti di votare a favore della proposta di risoluzione”.

  • Brexit done: dall’1 ottobre anche gli europei devono esibire il passaporto per sbarcare sull’isola

    Il passaporto vaccinale anti-Covid no, quello ordinario sì. D’ora in avanti ai cittadini europei che vogliono entrare in Gran Bretagna non basterà più la carta d’identità. La misura, prevista negli accordi post-Brexit, era stata annunciata un anno fa ma è comunque destinata a causare un piccolo turbamento a chi era abituato a viaggiare nel Regno Unito con leggerezza e senza code eccessive alla dogana.

    Il provvedimento riguarda tutti i cittadini dell’Ue, dell’Area economica europea e della Svizzera, che vengono quindi equiparati ai viaggiatori stranieri di qualsiasi altra parte del mondo. Non si applica, invece, ai milioni di cittadini comunitari che si sono registrati all’Eu Settlement Scheme creato dal governo per garantire ai residenti i diritti acquisiti prima del divorzio di Londra da Bruxelles. Costoro potranno continuare a utilizzare le carte d’identità per entrare in Gran Bretagna almeno fino al 2025, anche se la maggior parte già mostra il passaporto alla dogana. Per ora, invece, i cittadini comunitari possono fare a meno del visto. Almeno per viaggiare nel Regno Unito e restarci fino a tre mesi. Per un periodo più lungo, nel caso in cui si intenda soggiornare per ragioni di lavoro o di studio, occorreranno invece visti analoghi a quelli richiesti attualmente agli stranieri non comunitari.

    La ministra degli Interni Priti Patel ha di recente spiegato che la scelta è stata determinata dalla volontà di impedire che “criminali” entrino in territorio britannico grazie a documenti falsi. Secondo dati del ministero, infatti, le carte d’identità sono quelle in assoluto più contraffatte e l’anno scorso la metà delle copie illegali erano proprio di carte europee e svizzere. “Il Regno Unito è orgoglioso della sua storia di apertura nei confronti del mondo e continuerà questa tradizione”, ha detto la ministra. “Ma dobbiamo reprimere i criminali che cercano di entrare illegalmente nel nostro Paese utilizzando documenti falsi. Mettendo fine all’uso di carte d’identità non sicure – ha sottolineato – rafforziamo i nostri confini e riprendiamo il controllo del nostro sistema migratorio”.

    D’altra parte l’esigenza di una stretta sulla libertà di movimento è stato uno dei fattori determinanti che hanno portato alla scelta della Brexit nel referendum del 2016. Per evitare caos e spiacevoli incidenti, nell’ultimo mese le ambasciate di quasi tutti i Paesi Ue hanno avvertito i loro connazionali dell’obbligo di avere con sé un passaporto valido prima di intraprendere un viaggio nel Regno Unito.

  • Downing Street decide spese militari da record

    Un piano multimiliardario di spese militari extra come non si vedeva da 30 anni: per tutelare “la sicurezza dei britannici”, per condividere di più “le responsabilità globali con gli alleati” della Nato e per “estendere l’influenza del Regno Unito” del dopo Brexit in un mondo “mai così pericoloso e intensamente competitivo dal tempo della Guerra Fredda”. Boris Johnson chiama alle armi i sudditi di Sua Maestà e promette una pioggia di sterline sia per “modernizzare” gli arsenali convenzionali e il deterrente nucleare, sia per affrontare con “tecnologie all’avanguardia” le nuove sfide della cyber difesa, della competizione spaziale e dell’intelligenza artificiale applicata agli apparati bellici.

    L’annuncio – secondo colpo a effetto in due giorni dopo quello della rivoluzione industriale verde che dovrebbe segnare la fine dell’era delle auto a benzina e diesel per il 2030 – arriva di fronte alla Camera dei Comuni. Con il premier Tory costretto al collegamento video dall’isolamento imposto dalle cautele Covid, ma deciso comunque a provare a ridare lustro all’immagine del proprio governo a dispetto delle faide interne, delle polemiche sull’emergenza coronavirus, delle incognite sui cruciali negoziati con l’Ue sulle relazioni future. Sul piatto spuntano 16,5 miliardi spalmati in 4 anni da sommare ai 24,1 previsti nel medesimo arco di tempo come incremento base del budget per le forze armate di uno 0,5% superiore all’inflazione: fino a un totale di oltre 40 miliardi aggiuntivi e a una somma finale stimata da qui al 2024 a 190 miliardi di sterline (212 miliardi di euro), ossia al 2,2% del Pil. Una quota superiore al 2% chiesto dall’Alleanza Atlantica a tutti gli Stati membri e destinata a consolidare tanto il primato europeo del Regno quanto il suo secondo posto dietro ai soli Stati Uniti negli stanziamenti per la difesa in cifra assoluta fra i partner Nato. Non senza la prospettiva parallela di stimolare 40.000 posti di lavoro grazie alle commesse militari, dalla cantieristica navale all’industria aerospaziale.

    Per BoJo ne va della necessità di “fermare il declino” e della possibilità di difendere gli interessi e i valori del Regno come dello scacchiere occidentale in una realtà nella quale – seguendo la sua narrativa – vi sono “nemici” (non citati apertamente, ma fra cui sembra scontato evocare il profilo fra gli altri di Cina o Russia) che tramano “in modo sempre più sofisticato, incluso nel cyberspazio”.  “Ho preso la decisione” di avviare questo programma “generazionale”, epocale, “in faccia alla pandemia poiché il settore della difesa è prioritario”, ha proclamato il premier ai deputati, elencando fra i vari progetti in nuce la creazione di un’agenzia militare ad hoc che si occuperà d’intelligenza artificiale, lo sviluppo di una National Cyber Force, la costituzione di una nuova struttura di comando delle Forze Spaziali incaricata di lanciare un primo razzo vettore con l’Union Jack nel 2022.

    Limitarsi a “sperare in bene” dinanzi alle minacce del “terrorismo” o degli “Stati ostili” non è del resto un’opzione prudente, nel messaggio di Johnson. Che intanto non esita a snobbare il ritiro dall’Afghanistan annunciato dall’amico uscente Donald Trump, riservandosi di discutere della sicurezza di quel Paese e del futuro dei contingenti britannici in altre aree di conflitto con i nuovi “amici americani dell’amministrazione eletta” di Joe Biden.

    Il tutto sullo sfondo di una retorica da neo-guerra fredda, o quasi, che neppure l’opposizione laburista – passata dalle mani del pacifista Jeremy Corbyn a quelle dell’uomo d’ordine sir Keir Starmer – contesta, salvo rimproverare a Boris di essere carente nella “strategia” al netto dei “grandi annunci”. E che nelle parole di plauso del deputato Tom Tugendhat, imitatore Tory dei neocon Usa modello George W. Bush, diventa l’occasione per riesumare lo spauracchio del pericolo rosso. “Non potremo spendere più dei comunisti” neppure con queste risorse, sospira Tugendhat riferendosi apparentemente al bilancio militare di Pechino; ma “abbiamo il dovere di essere più aggiornati” di loro.

  • Gran Bretagna, la Camera di Comuni vota il piano Brexit di Boris Johnson

    I parlamentari britannici hanno approvato il controverso disegno di legge sul mercato interno (Withdrawal Agreement) che prevede di ignorare parti dell’accordo Brexit con l’UE. Il disegno di legge che stabilisce le regole per il funzionamento del mercato interno del Regno Unito – commercio tra Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda del Nord – dopo la fine del periodo di transizione della Brexit è passato alla Camera dei Comuni con 340 voti contro 256 e ora andrà alla Camera dei Lord.

    La legislazione conferisce al governo il potere di modificare alcune clausole dell’accordo di recesso dall’UE, un accordo giuridicamente vincolante che disciplina i termini della Brexit stipulato all’inizio di quest’anno. La Commissione europea ha minacciato di intraprendere azioni legali per la decisione. La decizione infatti mina le regole del commercio internazionale.

    Il periodo di transizione post-Brexit dovrebbe concludersi il 31 dicembre e si teme che le due parti potrebbero non riuscire a raggiungere un accordo (no deal).

    Preoccupazione è stata espressa da cinque ex Primi Ministri britannici – John Major, David Cameron, Theresa May, Tony Blair e Gordon Brown – secondo i quali il disegno di legge rischia di mettere seriamente a rischio la reputazione e l’affidabilità internazionale del Regno Unito.

  • Londra giudica inevitabili controlli doganali per l’Irlanda del Nord dopo la Brexit

    Il governo britannico ha ammesso che sarà necessario effettuare controlli doganali su determinate merci tra l’isola della Gran Bretagna e la regione britannica dell’Irlanda del Nord alla fine del periodo di transizione post-Brexit. “Non ci saranno nuove infrastrutture doganali fisiche e non vediamo la necessità di costruirle”, ha affermato il governo di Boris Johnson pubblicando la sua posizione sul protocollo tra l’Irlanda del Nord e la vicina Repubblica d’Irlanda, negoziato nell’ambito del divorzio con l’Ue. “Tuttavia, espanderemo alcuni punti di accesso esistenti per i prodotti agroalimentari al fine di stabilire controlli aggiuntivi”, ha spiegato.

    Il protocollo irlandese mira a prevenire il ritorno di un confine fisico sull’isola d’Irlanda, dopo l’uscita britannica dall’Ue, che potrebbe minacciare la fragile pace raggiunta dopo tre decenni di sanguinosi conflitti grazie all’accordo del Venerdì Santo del 1998.

    Il ministro Michael Gove ha assicurato ai deputati che qualsiasi controllo sarà “assolutamente minimo”. “Tutto sarà fatto elettronicamente”, ha precisato. A novembre, il premier Johnson aveva garantito agli imprenditori irlandesi, spiegando l’accordo sulla Brexit negoziato con Bruxelles, che non vi sarebbero stati controlli sulle merci tra la Gran Bretagna e la regione britannica. Gove ha anche confermato che l’Irlanda del Nord rimarrà in linea con una serie di norme dell’Ue, anche in materia di salute, almeno fino al 2024.

  • Ritorna l’eugenetica?

    Ci risiamo: Ritorniamo all’eugenetica di memoria nazionalsocialista? Hitler l’aveva imposta e in Germania si praticava correntemente. Sono stati tempi bui per l’intera umanità, non solo per l’Europa diventata tedesca con la conquista hitleriana. Tempi in cui il livello di civilizzazione ha raggiunto i punti più bassi. Ma ciò nonostante, in Europa si parla ora di “grande scrematura”. Se ne parla in Gran Bretagna, che con la Brexit sembrava si fosse liberata dalle pastoie comunitarie dell’Unione europea, per ritrovare interamente la sua sovranità.  Ma se questa viene impiegata per consentire la “grande scrematura” sarà una sovranità da condannare, perché, bene o male, ci riporterà ai tempi bui del nazionalsocialismo hitleriano. E’ vero che l’eugenetica si praticava già in Gran Bretagna ed in America, sia pure in misure non di massa, come in Germania, ma è altrettanto vero che prima di allora mai in Europa si erano accettate forme simili di purificazione della razza. La differenza, tra l’altro, tra l’esperienza europea e quella inglese o americana, consisteva nella diversa ragione della “scrematura”. Fuori Europa i motivi erano pragmatici: ridurre le spese delle cure per i vecchi ammalati, per gli inabili e per i bambini considerati inguaribili. Per i nazionalsocialisti le motivazioni erano ideologiche. Sopprimendo gli ammalati e gli impuri, si contribuiva a migliorare la razza, a purificarla di tutte le scorie, a renderla ariana nella sua essenza. Il che non si capisce che cosa voglia significare realmente. Ma i miti sono duri a morire. Quando anziché la ragione è l’ideologia che ispira le azioni umane, c’è sempre da temere il peggio, c’è sempre il rischio di catastrofi immense. Ma siamo veramente giunti a questo punto ora? No, non ancora, ma potremmo arrivarci. Il tema è stato rilanciato da Boris Johnson e dai suoi consiglieri per la sanità in una recente conferenza stampa. A dire il vero il tema è stato quello della “grande scrematura”, cioè il ricambio delle generazioni, con la sostituzione dei vecchi con i meno vecchi. I costi della vecchiaia sono alti, quasi insopportabili, “e non sarebbe la prima volta – dice Ferrara sul foglio – che civilizzazione e natura si trovano alleate in una selezione demografica spinta”. Il che significherebbe, nella situazione attuale del corona virus, non curare i vecchi e lasciare che la pandemia faccia il suo corso. Ci penserà lei a selezionare quelli che sono in grado di farcela. Gli altri saranno sacrificati sull’altare della convenienza e della selezione naturale. Fa un certo effetto sentir dire queste cose. Cresciuti in un’Europa dalla profonde radici cristiane, oggi platealmente negate dalla cultura imperante, ci sembra inverosimile che questa stessa cultura assecondi la morte anziché la vita. E’ un rovesciamento dei valori e non possiamo non osservare che a mano a mano che i giorni passano notiamo un abbassamento di civiltà dove i valori e i principi cristiani vengono meno. Dove è stata confinata la dignità dell’uomo? I diritti umani di che cosa sono sostanziati, se non dalla consapevolezza che l’uomo ha una dignità irrepetibile, unica, universale. E senza dignità non ci possono essere diritti umani. Ci saranno i dettami delle nuove religioni: l’ambientalismo, la laicità, il politicamente corretto, il pansessualismo, ecc., ma non ci sarà un collante che lega l’uomo alla sua dignità ed al suo diritto all’infinito. La “grande scrematura” rimane una visione pagana, resa tra l’altro ignobile da motivi anche economici, oltre che ideologici. Se la Brexit della Gran Bretagna si macchierà anche di questo delitto, vorrà dire che si merita le astruserie di un premier noto per imboccarle tutte nel verso sbagliato. Uno che non si pettina da anni e che se lo fa è per spettinarsi, quali garanzie di serietà e di credibilità può offrire? Che qualche commentatore straniero critichi l’Italia per la sua decisione di curare tutti i vecchi colpiti dal virus, anziché lasciarli al loro destino, e senza preoccuparsi in primis delle conseguenze economiche, ci fa pensare che il nostro Paese sia ancora abitato da una comunità umana animata da pietas e da solidarietà con la vita. Che è sempre meglio, in ogni caso, della solidarietà con la morte e delle politiche per la purezza della razza ariana.

     

  • Brexit almost done, il divorzio dalla Ue passa ancora per alcune tappe

    L’uscita del Regno Unito dall’Unione europea è ormai certa ma non avverrà in un  colpo solo. La ratifica del divorzio tra Ue e UK non segna la fine del lungo e tortuoso processo attraverso cui la Brexit si tramuterà da scelta a realtà di fatto.

    Tra febbraio e marzo avranno inizio i negoziati commerciali. Londra si è detta pronta ad avviare i negoziati commerciali dal primo febbraio, ma i membri dell’Ue non hanno ancora maturato una posizione univoca circa gli obiettivi dei negoziati. Il premier Boris Johnson dovrebbe esporre le sue ambizioni per un accordo di libero scambio dello stesso tipo firmato dall’Ue con il Canada di recente, senza allineamento

    con le regole dell’Ue. Il mandato dell’Ue dovrebbe essere approvato a livello ministeriale entro il 25 febbraio, consentendo l’inizio dei colloqui intorno al primo marzo. Oltre al commercio, il Regno Unito e i 27 non sono a corto di argomenti sui quali dovranno accordarsi: sicurezza e cooperazione giudiziaria, istruzione, energia. Allo stesso tempo, Londra prevede di avviare negoziati con altri Paesi, guidati dagli Stati Uniti, per raggiungere accordi di libero scambio.

    Fino all’1 luglio il Regno Unito può estendere il periodo di transizione oltre la fine del 2020 per uno o due anni, previa comunicazione all’Ue della sua richiesta, che deve essere inviata appunto prima dell’1 luglio. Johnson insiste che non chiederà una proroga, ma la Commissione europea ritiene che la scadenza per il periodo di transizione sia molto ravvicinata. La presidente Ursula von der Leyen ha avvertito che sarebbe stato impossibile trovare un accordo su “tutti gli aspetti” e che si sarebbero dovute scegliere delle “priorità”.

    Il 31 dicembre, salvo proroghe, si concluderà il periodo di transizione e quindi si concluderanno a tutti gli effetti i 47 anni di adesione del Regno Unito alla Ue.

  • Il portoghese Almeida rappresenterà Bruxelles nel Regno Unito dopo la Brexit

    Il diplomatico portoghese João Vale de Almeida è stato nominato dal responsabile della politica estera dell’UE, Josep Borrell, capo della delegazione dell’UE nel Regno Unito, ruolo che rivestirà dal 1° febbraio, cioè dal giorno successivo all’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea. Con la Brexit, infatti, il Regno Unito sarà un paese terzo e, di conseguenza, l’UE avrà una sua rappresentanza come già accade in altri paesi del mondo.

    In passato, Vale de Almeida è stato ambasciatore dell’UE presso le Nazioni Unite, dal 2015 al 2019, e primo ambasciatore dell’UE negli Stati Uniti, dal 2010 al 2014. È stato anche capo di gabinetto di José Manuel Barroso, presidente della Commissione europea, tra il 2004 e il 2009.

     

  • Brexit: probabile entro il 31 gennaio 2020

    Il 2020 si apre con un evento di sicuro interesse per molti nostri concittadini e di importanza rilevante per il sistema Europa nel suo complesso: la definitiva uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea. 

    Il processo ha avuto un’accelerata dopo la vittoria elettorale di Boris Johnson del 12 dicembre scorso che, forte dei consensi ottenuti, ha sottoposto al parlamento britannico la legge di ratifica della Brexit entro il 31 gennaio, approvata a larga maggioranza.

    Un ultimo passaggio parlamentare sarà previsto entro la metà di gennaio per rendere definitivo il processo iniziato con il si referendario del 23 giugno 2016. 

    E’ previsto un periodo di transazione che si dovrà concludere entro il 31 dicembre 2020 con la ratifica di un accordo con la UE che dovrà regolamentare il commercio e i diritti dei cittadini. 

    Il processo ormai irreversibile e prossimo alla sua conclusione avrà non pochi effetti anche per i cittadini e le imprese del nostro Paese: con l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea di fatto si avrà a che fare con un Paese terzo con tutto ciò che ne consegue. 

    Gli acquisti e le vendite effettuati da e verso la Gran Bretagna non saranno più intracomunitari ma verranno trattate come importazioni e esportazioni; la circolazione dei cittadini potrebbe richiedere visti d’ingresso analogamente a quanto già avviene oggi con i Paesi extraeuropei. 

    La movimentazione delle merci sarà soggetta a regimi doganali nuovi che potrebbero avere costi differenti dagli attuali, nonché procedure più complesse che ne allungheranno i tempi rallentandone il flusso. 

    Non ci saranno aggravi burocratici e contabili con riferimento alla moneta, essendo già oggi la Gran Bretagna fuori dall’unione monetaria. Certo è che occorrerà vedere la reazione dei mercati monetari per capire gli effetti che l’uscita definitiva dalla UE avranno sul rapporto di cambio con l’euro, oggi attestato a circa 0,85 sterline per 1 euro. 

    Anche da un punto di vista finanziario gli scenari cambieranno. Gli istituti finanziari della Gran Bretagna diventeranno extracomunitari con implicazioni in termini di norme antiriciclaggio e di comunicazione dei dati. 

    Non dimentichiamo, a questo proposito, che Londra è un importante piazza finanziaria e molte società estere lì radicate potrebbero propendere per scegliere nuovi sedi all’interno dell’Unione Europea, un’occasione per noi e per le nostre città che dovranno farsi trovare preparate. 

    Saranno richieste moderne infrastrutture con possibili effetti positivi sugli investimenti e quindi sulla crescita. Sarà necessario un cambio di passo anche culturale sotto tutti i punti di vista, non ultimo la capacità di comunicare in lingua straniera. 

    L’uscita dalla UE comporterà importanti ricadute anche sui gruppi societari più strutturati che oggi possono distribuire dividendi in esenzione della ritenuta alla fonte applicando la direttiva “madre-figlia”: anche questo sarà un tema da tenere in debita considerazione e che, accumunato ad altri, potrebbe far propendere per spostare le sedi delle imprese dalla Gran Bretagna. 

    Alcune accortezze, ancorché banali, saranno richieste dal lato burocratico. Penso, ad esempio, agli statuti societari che spesso nelle norme assembleari richiamano la possibilità che queste siano convocate in Italia o nei Paesi dell’Unione Europea. Se si vorrà prevedere la possibilità di indirle anche in Gran Bretagna occorrerà esplicitarlo. 

    Tutto questo non cancella gli appeals del sistema anglosassone che resta molto smart ed efficiente e che, infatti, fino ad oggi, ha attratto molti investitori stranieri. I soggetti già oggi lì radicati difficilmente si lasceranno tentare da altre sedi europee in mancanza di un concreto cambio di passo in termini di sburocratizzazione, di tax rate e di politica economica e monetaria. 

    Certo è che, comunque lo si voglia analizzare, l’uscita dall’Unione Europea della Gran Bretagna resta un segnale estremamente importante per le Istituzioni europee che dovranno prendere atto del malcontento che serpeggia tra i cittadini e che saranno chiamate a mettere in campo azioni correttive per riavvicinarsi alle aspettative della popolazione.

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