guerra

  • Dichiarazione della Presidente von der Leyen sull’attacco dell’Iran contro Israele

    Ieri l’Iran ha lanciato un massiccio attacco contro Israele, utilizzando droni e missili. Un simile attacco diretto dell’Iran contro Israele è senza precedenti.

    Oggi noi, leader del G7, abbiamo condannato quest’attacco con la massima fermezza. Esprimiamo la nostra solidarietà e il nostro sostegno al popolo israeliano e ribadiamo il nostro risoluto impegno per la sua sicurezza.

    Le azioni dell’Iran rischiano di provocare un’escalation incontrollabile nella regione, che deve essere evitata.

    Continueremo a lavorare per stabilizzare la situazione.

    Chiediamo all’Iran e ai suoi alleati di cessare completamente gli attacchi. Tutte le parti devono esercitare la massima moderazione.

    Abbiamo anche discusso della necessità di porre fine quanto prima alla crisi a Gaza. Ciò implica un immediato cessate il fuoco e l’immediato rilascio di tutti gli ostaggi da parte di Hamas, oltre alla fornitura di maggiore assistenza umanitaria ai palestinesi in difficoltà.

    Valuteremo ulteriori sanzioni contro l’Iran in stretta collaborazione con i nostri partner, soprattutto in relazione ai programmi su droni e missili.

    Grazie.

  • Non c’è tempo da perdere e parole da sprecare in annunci roboanti

    “La vera pace ci sarà, si potrà raggiungere, quando l’Ucraina prevarrà”, ha detto il Segretario generale delle Nazioni Unite evidenziando comunque che prima o poi un accordo si dovrà trovare.

    Quello che però continua a rimanere il problema è che i russi avanzano con un costante aumento di mezzi ed uomini mentre l’Ucraina è sempre più in difficoltà perché non arrivano le armi promesse dall’Occidente, Stati Uniti in testa.

    L’Ucraina baluardo a difesa della sicurezza dell’Europa, l’Ucraina esempio di come i popoli debbano difendere il suolo nazionale ed i governi le leggi internazionali mentre vanno sconfitti coloro che queste leggi violino e non rispettano i diritti umani e la libertà. Questo è tanto altro si è detto in questi anni di guerra.

    Tutto bello, anche romantico, ma intanto gli ucraini muoiono davvero e gli edifici civili, le case della gente, le infrastrutture che danno luce ed acqua, sono rasi al suolo in una guerra d’aggressione che Putin conduce, dall’inizio, ignorando ogni regola mentre, nel frattempo, gli aiuti promessi sono molti, molti di più di quelli che invece sono effettivamente arrivati e spesso anche in ritardo.

    Non c’è tempo da perdere e parole da sprecare in annunci roboanti ai quali non seguono fatti concreti, le armi servono ora altrimenti gli ucraini non potranno più difendersi ed i russi vinceranno anche su di noi.

  • Rinasce a Milano la sezione dell’Associazione nazionale ex internati nei lager nazisti

    Il 6 aprile 2024, dalle ore 10 alle ore 13, si svolgerà a Milano, nella sede del Circolo De Amicis (via De Amicis, 17 – sala grande), la prima assemblea milanese della nuova sezione dell’Associazione nazionale ex internati nei lager nazisti – ANEI. A quasi 20 anni dalla fine della sezione che era stata fondata dagli internati militari italiani (IMI) nell’immediato Dopoguerra, il testimone è stato ora raccolto dai loro figli e nipoti e da coloro che condividono la scelta di 650.000 soldati italiani che, catturati dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, preferirono patire la prigionia nei lager nazisti piuttosto che combattere a fianco della Repubblica sociale e del reich hitleriano. Il presidente della sezione milanese è il giornalista Marco Brando, il vicepresidente è l’avvocato Luciano Belli Paci (figlio di Liliana Segre), entrambi figli di padri IMI.

    All’incontro Interverranno il Prefetto Claudio Sgaraglia; il coordinatore di “Milano è memoria” per il Comune di Milano, Luca Gibillini; il membro del direttivo nazionale di Anei, Gastone Gal; i rappresentanti di varie associazioni (Circolo De Amicis, Ancfargl, Aned, Anpc, Anpi, Anppia, Fiap). Nel corso dell’assemblea il professor Andrea Bienati (docente di Storia e Didattica della Shoah, delle Deportazioni e dei Crimini contro l’Umanità) terrà la conferenza intitolata “La storia degli Imi: il difficile cammino di una Memoria ritrovata”; successivamente interverrà Sveva Tedeschi, attrice, figlia dell’attore Gianrico Tedeschi (ex IMI), con una performance intitolata “Quando recitare nel lager era questione di vita o di morte”.

  • La disinformazione arma di guerra

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Franco Maestrelli apparso su Corrispondenza Romana il 3 aprile 2024

    Nel dicembre 2023 è tornato in libreria un romanzo da anni esaurito. Si tratta de Il montaggio di Vladimir Volkoff (Edizioni Settecolori, Milano 2023, pagine 350, euro 25,00 con una postfazione di Stenio Solinas), pubblicato per la prima volta in Italia da Rizzoli nel 1983 e che viene presentato solitamente come un romanzo di spionaggio. Uscito in Francia nel 1982, ottenne il Grand Prix du Roman de l’Académie Française e venne tradotto in una decina di lingue.

    A prescindere dal successo del romanzo, quale interesse riveste ora questo libro e chi è l’autore? La trama è abbastanza complessa: Aleksandr Psar, figlio di un emigrato russo, deluso dalla società occidentale e desideroso di rientrare in Russia, vende la sua anima al diavolo sotto l’aspetto di Pitman, funzionario del KGB a Parigi. Psar nelle vesti di agente letterario servirà il governo sovietico come “agente di influenza”. Istruito dal suo reclutatore Pitman e da Abdulrakmanov, il cervello dell’ufficio D del KGB, Psar opera negli ambienti letterari parigini. Il suo incarico è diffondere idee che destabilizzino la società occidentale, usando come armi la disinformazione e l’intossicazione. Si serve di intellettuali di sinistra e di destra come pedine più o meno consapevoli che gli servono da cassa di risonanza.

    La chiave di lettura del romanzo è in questa frase dell’autore. «Non sarei creduto, se affermassi che Il montaggio è soltanto frutto della mia immaginazione». Sotto forma di romanzo quindi l’autore descrive le reali «misure attive» come effettivamente svolte.

    Volkoff nato a Parigi nel 1932 da una famiglia della prima emigrazione russa e morto nel 2005, dopo la laurea e il servizio militare in Algeria (nel servizio di intelligence), svolge un’intensa attività di romanziere. Grazie a un suo romanzo di spionaggio di successo incontra Alexandre de Marenches allora direttore dello SDECE, il servizio di controspionaggio d’oltralpe che gli suggerisce l’idea di dedicarsi al tema della disinformazione che l’Unione Sovietica utilizzava ampiamente nei paesi occidentali. Volkoff sceglie come mezzo questo romanzo. Come seguito e corollario pubblicherà alcuni saggi, mai tradotti in italiano, che permettono di approfondire il tema quali La désinformation arme de guerre. Textes base (L’Age d’Homme, 1986), Petite histoire de la désinformation. Du Cheval de Troie a Internet (Editions du Rocher, 1999) e Manuel du politiquement correct (Editions du Rocher, 2001).

    Nel vocabolario occidentale la parola disinformazione giunge piuttosto tardi (in quello sovietico però era già presente) e si fonda sul manuale del generale e filosofo cinese Sun Tzu (V – VI secolo a,C.) L’arte della guerra. Il segreto dell’antico stratega cinese può essere riassunto in queste sue affermazioni: «La suprema arte della guerra, sta nel soggiogare il nemico senza combattere» e «Tutta l’arte della guerra è fondata sull’inganno». Per fare questo bisogna pianificare e raccogliere informazioni sul nemico attraverso le spie ma soprattutto, prima di aprire le ostilità, gli agenti segreti devono cercare di dividere il fronte nemico, suscitare falsi rumori, dare informazioni errate e demoralizzarlo affinché perda ogni volontà di resistenza.

    Nella guerra si usano dunque astuzie, intossicazione attraverso informazioni false, uso della propaganda “bianca” o “nera” (quella la cui fonte non è individuabile come nemica), e l’influenza sulle popolazioni attraverso operatori in territorio nemico che, ben mimetizzati, suscitino sottilmente divisioni e contrapposizioni nel paese. La disinformazione in senso stretto secondo Volkoff si colloca a mezza strada tra l’intossicazione e l’influenza e, attraverso l’uso dei media che fungono da cassa di risonanza, cerca di modificare l’atteggiamento della popolazione nemica.

    Se l’uso della cosiddetta guerra psicologica è una tecnica, la disinformazione è una dottrina. La disinformazione nell’epoca attuale ha avuto uno sviluppo sempre maggiore al punto che oggi accanto alla guerra convenzionale troviamo sempre un’attività di disinformazione che la precede o la affianca e ormai si parla di guerra asimmetrica, di guerra ibrida e di grey war zone. Storicamente è stata sviluppata fin dagli anni Cinquanta del secolo scorso in Unione Sovietica nel Dipartimento D del KGB. Questa dottrina si sposa perfettamente con l’insegnamento di Lenin che, accanto all’uso del terrore, prevede che i comunisti all’occorrenza debbano essere pronti, per il trionfo della Rivoluzione, a impiegare ogni astuzia, ogni stratagemma illegale, a negare e dissimulare la verità. Da qui l’abilità del Dipartimento D di falsificare fotografie, firme, documenti con cui intossicare l’Occidente. Non è propaganda, la cui fonte nemica è ben visibile, ma un’intossicazione lenta attraverso una lunga catena, con un misto di vero e di falso, usando i media come cassa di risonanza o inquinando intellettuali e politici di sinistra e di destra. Se necessario la Rivoluzione è capace di creare anche la reazione, per screditarla o per disarmarla come nel caso del “Trust” narrato anche nel romanzo. L’attuale offensiva contro l’Occidente ha riportato l’interesse e l’allarme nei confronti del pericolo delle “misure attive” di disinformazione utilizzate da Cina e Russia.  Oggi la disinformazione ha raggiunto livelli altamente sofisticati grazie all’enorme sviluppo di internet e della “intelligenza artificiale”, che all’epoca del romanzo Il Montaggio, pur previsto, non era ancora così diffuso. In questa complessa epoca di guerre asimmetriche, il confronto dell’Occidente con i suoi nemici si gioca più che con le armi, con i media e con la disinformazione che disarma la già fragile società occidentale. Auspicabile, pertanto, far tesoro degli scritti di Volkoff anche sotto forma di romanzo per farsi idee proprie e non suggestioni e fake news ispirate dagli agenti di influenza.

  • Chi trarrà vantaggio dall’attentato a Mosca?

    Putin, costretto dalle prove ad ammettere che il tragico attentato di Mosca è stato compiuto da terroristi islamici, insiste nel cercare responsabilità di Kiev e dei paesi occidentali, additandoli come i mandanti e gli addestratori, per giustificare il fallimento dei suoi servizi di sicurezza e crearsi un ‘alibi’ per intensificare i barbari attacchi contro i civili ucraini.

    Lo zar sostiene, e sarebbe ridicolo se invece non fosse tragico, che l’Ucraina avrebbe un beneficio dalla strage di Mosca! Quale sarebbe questo beneficio? Non è stato un attacco contro una struttura militare, contro lo stesso Cremlino, contro chi tiene detenuti i dissidenti ma un eccidio di civili che porterà nuove repressioni in Russia e ancora maggiore violenza militare, bombe, morti e feriti in Ucraina.

    Il cui prodest vede solo due ipotesi, quella ovvia e ufficializzata di una nuova azione dell’Isis K, che ha già ripetutamente preso di mira la Russia e che vuole, come ogni organizzazione terrorista, colpire nel mucchio e diramare il terrore, o quella di un attentato cresciuto all’interno dell’apparato per giustificare le prossime nefandezze e crudeltà di Putin.

    In effetti l’unico che trarrà vero beneficio dalle morti e dai feriti è lo stesso presidente che, come in altre occasioni simili, chiamerà tutti ad una maggiore coesione per difendere la madre Russia, spazzerà via quei dissidenti che hanno avuto il coraggio di opporsi il giorno delle elezioni, additerà l’Occidente come il nemico numero uno e chiederà di seguirlo senza protestare nella distruzione dell’Ucraina.

    Ormai sappiamo bene che ogni dichiarazione di Putin è una falsità, che mente sapendo di mentire e che dalle sue menzogne costruisce le sue verità, conosciamo da tempo i sistemi di controinformazione e manipolazione dell’apparato del Cremlino e sappiamo altrettanto bene che la sete di sangue e di potere del nuovo zar è immensa, perciò prepariamoci.

  • La Commissione stanzia 500 milioni di euro a sostegno della produzione di munizioni

    La Commissione europea ha stanziato i 500 milioni di € previsti nell’ambito del regolamento sul sostegno alla produzione di munizioni (Asap). Ciò consentirà all’industria europea della difesa di potenziare la propria capacità di produzione di munizioni fino a 2 milioni di proiettili all’anno entro la fine del 2025.

    La Commissione ha completato in tempi record la valutazione a norma del regolamento sul sostegno alla produzione di munizioni e ha selezionato 31 progetti per aiutare l’industria europea ad aumentare la produzione e la preparazione delle munizioni. I progetti selezionati riguardano cinque settori: esplosivi, polveri, proiettili, missili e collaudo e certificazione di ricondizionamento. Il regolamento sul sostegno alla produzione di munizioni si concentra sulle polveri e sugli esplosivi, che costituiscono strozzature nella produzione di munizioni, a cui verranno assegnati circa tre quarti del programma. Il programma sosterrà progetti atti ad aumentare la capacità produttiva annua di oltre 10 000 tonnellate di polvere e di oltre 4 300 tonnellate di esplosivi.

    La Commissione ha inoltre avviato il programma di lavoro per lo strumento per il rafforzamento dell’industria europea della difesa mediante appalti comuni (Edirpa) e il quarto programma di lavoro annuale del Fondo europeo per la difesa (Fed).

    Questi due programmi dispongono di una dotazione complessiva di quasi 2 miliardi di euro. Le misure odierne volte a rafforzare la base industriale e tecnologica di difesa europea fanno seguito alla prima strategia industriale europea della difesa e alla relativa proposta di un programma europeo di investimenti nel settore della difesa (Edip).

  • ‘Operazione satellite’, presentazione a Milano del libro di Frediano Finucci che racconta i conflitti invisibili dalla terra

    Martedì 19 marzo, alle ore 18, presso la Fabbrica del Vapore, a Milano, nell’ambito dei ‘Salotti dell’Intelligenceì, sarà presentato il libro-inchiesta Operazione satellite del giornalista Frediano Finucci, capo redattore economia ed esteri de La7. Con l’autore dialogheranno il giornalista e saggista Andrea Vento, moderatore della tavola rotonda, Novica Mrdovic Vianello, CEO e general Partner Add Value & Star Tech Ventures, (in collegamento) Simonetta Di Pippo, ‘Professor of Practice of Space Economy’, direttrice SEELab SDA Bocconi e l’astronomo Marco Langbroek che insegna alla Delf Techinical University “space situational awarness”, cioè la caccia ai satelliti.

    Nel libro, che è stato presentato al Parlamento Europeo di Bruxelles e all’Istituto Italiano di Cultura di Londra, Finucci ricostruisce, per la prima volta, con documenti inediti e fonti esclusive, le incredibili e sconosciute attività che accadono a centinaia di chilometri di distanza dalla terra. Dal ruolo di Elon Musk ai satelliti ‘fantasma’ mandati in orbita dalla Russia per intercettare e disturbare le comunicazioni dei satelliti occidentali, compresi gli attacchi informatici alle infrastrutture satellitari dell’Ucraina prima dell’invasione del Paese, agli esperimenti satellitari tra Russia e Cina. Un’inchiesta rigorosa e divulgativa che svela e spiega le ultime tecnologie satellitari, un tempo riservate solo a militari e governi, oggi disponibili anche a utenti non specialisti, con risvolti economici, sociali e geopolitici finora impensabili.

  • Bandiera bianca e la forza della diplomazia

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo del Prof. Francesco Pontelli

    Come ha specificato Matteo Bruni, direttore della sala stampa del Vaticano, “Il Papa usa il termine bandiera bianca, riprendendo l’immagine proposta dall’intervistatore, per indicare la cessazione delle ostilità, la tregua raggiunta con il coraggio del negoziato”.

    In altre parole il Papa, a differenza delle interpretazioni ideologiche dei media, i quali arrivano ad accusare il Papa di esprimere una posizione filorussa, non ha interpretato la figura retorica della “bandiera banca” come una resa, ma semplicemente deve venire intesa come l’inizio di una presa di coscienza della impossibilità di un esito positivo della guerra (un esito per entrambi i belligeranti, sia chiaro) e da questa consapevolezza andrebbe considerata una inevitabile e immediata apertura di un tavolo di negoziazione.

    In questo contesto, in una sola battuta, vengono azzerate tutte le strategie dell’Unione Europea e del leader ucraino, i quali invece chiedevano e pretendono tuttora maggiori investimenti in armamenti ed equiparano la crisi russo-ucraina a quella del 1939 che diede inizio alla Seconda guerra mondiale, paragonando Putin ad Hitler. Quasi che il quadro politico-istituzionale ed internazionale prebellico della Seconda guerra mondiale potesse essere anche solo paragonato a quello attuale, una visione che definisce l’approccio puramente ideologico nella azzardata similitudine tra i due momenti storici.

    Esattamente come dovrà avvenire a Gaza, così nello scenario russo-ucraino la soluzione finale non può venire individuata in una semplice vittoria di uno dei due contendenti all’interno di una progressiva escalation bellica ed anche di spese pubbliche finalizzate alla acquisizione di maggiori armamenti.

    Viceversa, a questa strategia va affiancata un’altra che valuti da subito l’istituzione di un tavolo negoziale al quale dovranno sedersi i due nemici e i diversi negoziatori. In questo contesto si manifesta evidente la perdita di un’occasione unica per l’Europa in chiave diplomatica, avendo appoggiato sic et nunc la sola difesa dell’Ucraina, eletta a simbolo della democrazia, senza aprire un tavolo negoziale con Putin, di fatto adottando la strategia della NATO come la propria politica estera.

    Il fallimento di questa strategia è evidente in quanto la sottovalutazione della capacità di resistenza della Russia emerge chiara poiché l’economia russa crescerà nel 2024 ben quattro volte quella europea, quando dal 2022 tutti i vertici dell’Unione Europea parlavano di un prossimo default dello Stato russo.

    Queste medesime competenze europee ora spingono a favore della creazione di un esercito europeo e magari di un arsenale nucleare, del cui effetto deterrente, anche in considerazione dell’esito ottenuto con le strategie europee dal 2022 ad oggi, è legittimo dubitare.

    All’interno, quindi, di una rinnovata attenzione alla realpolitick, poco importa che sia stato Putin, come tutti sappiamo, ad iniziare il conflitto. E ricordando l’importanza, come fattore di pressione, della politica espansiva della NATO che ha accentuato questa tensione regionale, quello che risulta fondamentale adesso è individuare come si possa ottenere una pace senza arrivare ad uno scontro bellico ancora più generale.

    Se veramente si credesse che la vita rappresenti il bene supremo da tutelare, di conseguenza chiunque si adopererebbe con l’obiettivo di trovare un accordo, se non altro per interrompere la carneficina di civili.

    Tutto il resto è delirio ideologico, politico e purtroppo militare.

  • Cosa si aspettava Hamas dal tremendo atto del 7 ottobre?

    Nessuno è in grado di dire oggi come sarà la Gaza del futuro e la stessa incertezza riguarda la Cisgiordania. È risaputo che dentro il governo di Netanyahu ci sono personaggi e forze politiche che ambiscono all’assorbimento di tutti questi territori dentro lo Stato di Israele ma, anche se ciò dovesse (improbabilmente) avvenire, resta la domanda su cosa sarà dei milioni di palestinesi che oggi abitano quelle zone. Il desiderio dei fanatici religiosi e dei super-nazionalisti israeliani è quello di tenerli fuori dai futuri confini ma questa possibilità sembra irrealistica. Giordania ed Egitto, i due Stati confinanti che, in teoria, dovrebbero accoglierli hanno già dichiarato in modo inequivocabile che non se ne parla nemmeno. Il loro atteggiamento è più che comprensibile poiché non si tratta di qualche centinaio d persone ma di milioni: un popolo con una propria identità e un odio sempre più condiviso e radicale contro gli occupanti delle loro terre.  È ovvio che costoro rappresenterebbero un enorme fattore di instabilità interna ed esterna per entrambi i Paesi ospitanti. La Giordania ha già un problema con la grande quantità di palestinesi che vivono dentro i suoi confini e, a prescindere da possibili (forse probabili) sentimenti affettivi, il fatto che il re di Giordania abbia scelto come sposa proprio una palestinese suona un po’ come quando gli antichi sovrani sposavano le figlie del re di un Paese potenzialmente nemico proprio per farselo amico. In Egitto non stanno molto meglio. Se, come ipotizzano alcuni fanatici a Tel Aviv, tutti i palestinesi fossero confinati nel semi-desertico Sinai da lì rilancerebbero le loro battaglie, esattamente come hanno fatto assieme a Hezbollah in Libano. Con l’aggravante che, di là dalla retorica, il governo egiziano ha tutto l’interesse, economico e politico, ad avere buoni rapporti con i governi di Israele e non diventare la base di partenza per un nuovo conflitto.

    Considerata la situazione attuale, ci sarebbe da domandarsi perché l’ha fatto e cosa si aspettava Hamas dal tremendo atto disgustoso del 7 ottobre. Solo per ingenuità si può immaginare che Hamas con quell’azione sperasse poi di distruggere Israele sul campo di battaglia e i dirigenti di questo gruppo terroristico sono tutto salvo che ingenui. Gli obiettivi veri erano almeno tre e, considerato il susseguirsi degli eventi, li ha raggiunti tutti. Ecco le ragioni che hanno spinto Hamas ad agire proprio in quel momento e in quel modo truce dopo essersi preparato a farlo per lungo tempo:

    • Gli accordi di Abramo cui avevano già aderito Emirati Arabi e Bahrein stavano per estendersi anche all’Arabia Saudita. Grazie all’azione diplomatica iniziata da Jared Kushner (genero di Donald Trump), i colloqui in questa direzione continuavano da alcuni mesi e tutti gli osservatori si aspettavano potessero concludersi abbastanza a breve. L’Arabia Saudita è pur sempre un Paese politico di riferimento per molti Stati arabi e la riapertura di questi rapporti economici e politici con Israele avrebbero cambiato radicalmente gli equilibri in tutto il Medio Oriente. A Mohamed Bin Salman servivano i capitali e il know how israeliano per dare una ulteriore spinta al suo progetto avveniristico Vision 2030 e per Israele avrebbero rappresentato un grande successo diplomatico. Certamente, nell’intesa si sarebbero spese parole di facciata per lo status futuro dei palestinesi ma era chiaro a tutti che, dopo la firma, il futuro di questi ultimi sarebbe stato segnato negativamente e, forse, per sempre. Chi, assieme a loro, ci avrebbe rimesso pesantemente era il nemico più pericoloso che Israele ha attualmente e cioè l’Iran. Una alleanza tra Riad e Tel Aviv avrebbe accentuato l’isolamento di Teheran anche in barba all’accordo sottoscritto pochi mesi orsono con la mediazione cinese e la riapertura dei rapporti diplomatici. I fatti del 7 ottobre e ciò che ne è seguito hanno messo una pietra molto pesante sulla strada di quel negoziato.
    • Tutti i sondaggi svolti tra i palestinesi di Gaza e di Cisgiordania prima del 7 ottobre attestavano che l’impopolarità sia di Hamas sia della Autorità Nazionale Palestinese era in costante aumento. Nel frattempo, sempre più coloni israeliani occupavano abusivamente con le armi nuovi territori appartenuti a contadini palestinesi in Cisgiordania, alimentando in loro una sensazione di rabbia e di impotenza. Il disumano attacco del 7 ottobre è apparso a tutti i palestinesi che nutrivano odio per gli occupanti e per il governo di Tel Aviv che li legittimava come una doverosa punizione e una giusta vendetta. Ogni sondaggio effettuato dopo quella data presso gli stessi soggetti ha mostrato che, mentre l’Autorità continua a perdere consenso, Hamas lo ha riguadagnato in grande misura.
    • La reazione spropositata e tragica di Israele era stata, in una certa misura, preventivata dai capi del gruppo terrorista ma, proprio in vista di quella reazione, erano stati presi quel centinaio di ostaggi che dovevano servire a obbligare Tel Aviv ad una qualche trattativa, o almeno a contenere la dimensione della ritorsione. Il fatto che l’esercito israeliano abbia invece ricevuto l’ordine di agire con tutti i mezzi e senza alcun riguardo per la popolazione civile ha causato quello che, seppur impropriamente, qualcuno arriva a definire come genocidio. A questo proposito va considerato che i guerriglieri terroristi sono mischiati tra la popolazione civile e che strutture teoricamente intoccabili quali scuole, moschee e sedi della UNRWA sono stati usati, in superficie o nei loro sotterranei, quali basi logistiche. Tuttavia, il risultato che sta sotto gli occhi di tutto il mondo è che decine di migliaia di civili, molti dei quali magari perfino ostili ad Hamas, sono rimasti uccisi sotto i bombardamenti più o meno indiscriminati. È duro affermarlo ma è evidente che, con il loro solito cinismo, i capi di Hamas traggono vantaggio da questa carneficina. Infatti, dopo ogni nuovo bombardamento o scontro a fuoco i responsabili delle relazioni pubbliche di Hamas e la sodale Al Jazeera si precipitano ad offrire al mondo e ai giornalisti stranieri (nessuno di loro è autorizzato ad essere presente) cifre, magari gonfiate, delle vittime civili. Se, come posso dare per certo, il terzo obiettivo di Hamas era quello di attirare l’attenzione e la simpatia mondiale verso la causa del popolo palestinese e suscitare una incontenibile indignazione contro gli israeliani il risultato voluto è stato raggiunto. Nonostante gli americani (e i loro alleati) critichino le “esagerazioni” israeliane nessun governo amico osa condividere formalmente le condanne indirizzate all’ONU contro Tel Aviv. Ciò che vale per alcuni governi non vale però per la maggior parte della popolazione mondiale e cortei e manifestazioni di solidarietà verso i palestinesi sono sempre più numerose e partecipate in Europa, negli Stati Uniti e in tutto il mondo arabo. È evidente ad ogni osservatore che una componente tra i manifestanti lo fa per puro e mai sopito antisemitismo ma la motivazione formale di tutti è quella più utile ad Hamas e cioè la condanna dell’aggressione degli “ebrei” contro una popolazione araba indifesa.

    Dopo la feroce azione del 7 ottobre e indipendentemente dai sentimenti di simpatia per un partito o l’altro tutti gli israeliani furono, contemporaneamente, indignati e impauriti ed è stato quindi facile formare un governo di emergenza che comprendesse quasi tutte le forze politiche di Tel Aviv. Sarebbe stato difficile, nei giorni immediatamente successivi al tragico evento, opporsi a un qualche atto che suonasse come pesante ritorsione e tuttavia i risultati ottenuti fino ad oggi dimostrano che le decisioni prese si sono rivelate un tragico errore. Neanche la metà dei guerriglieri di Hamas sono stati identificati e messi fuori combattimento, i combattimenti a Gaza continuano tuttora, dal Libano (seppur senza passare un certo limite) sono ricominciati i lanci di razzi e perfino nel non vicino Yemen gli Houthi stanno contribuendo ad allargare il conflitto colpendo le navi che vorrebbero transitare verso il Canale di Suez. Che dietro gli Houthi ci siano gli iraniani è scontato, ma lo fanno nascondendo le mani poiché né all’Iran né agli Stati Uniti conviene dichiarare una guerra aperta, almeno fino ad ora. Gli iraniani, pur dichiarando sostegno ai palestinesi, non ammettono nessun loro coinvolgimento diretto e anche gli americani ed i britannici giustificano i loro attacchi contro le basi missilistiche e dei droni degli Houthi come semplici come atti di difesa.

    Col senno di poi è certamente più facile ragionare, ma che il tipo di reazione israeliana si stia rivelando un errore per loro e una vittoria per Hamas è qualcosa che non si può negare.  In altre parole, comunque finisca il conflitto, chi sta realmente vincendo al momento questa guerra non è l’esercito israeliano. Forse possiamo affermare che sarebbe stato più opportuna un altro tipo di reazione. Magari un atto simbolico contro le postazioni missilistiche di Hamas già conosciute, un sostegno internazionale per la liberazione immediata degli ostaggi e, nel tempo, qualcosa di simile a ciò che fu fatto dai sevizi segreti israeliani dopo l’attentato di Monaco durante le olimpiadi: una identificazione sicura dei vertici dell’organizzazione terroristica e l’eliminazione fisica di tutti loro.

    Purtroppo, del senno di poi …

  • L’Eritrea rivendica territori in Etiopia

    Il governo dell’Eritrea sostiene che le sue truppe ancora presenti in Etiopia occupino in realtà “territori sovrani eritrei”, tornando a rivendicare una porzione di territorio contesa con Addis Abeba ai sensi dell’accordo di Algeri del 2000. Lo riferisce “The Reporter Etiopia”, precisando che Asmara fa riferimento in particolare alla città frontaliera di Badem e ad altri territori contesi sulla punta più settentrionale dell’Etiopia, zone che il governo del presidente Isaias Afwerki rivendica come eritrei. “Le truppe eritree si trovano all’interno dei territori sovrani eritrei senza alcuna presenza nella terra sovrana etiope”, si legge in una dichiarazione pubblicata lo scorso 28 febbraio dall’ambasciata eritrea nel Regno Unito ed in Irlanda, nella quale si afferma che le aree di confine sono sotto il controllo delle truppe eritree sin dal conflitto del Tigrè, durato due anni e concluso a novembre del 2022. Si tratta, si legge ancora, di “territori sovrani eritrei che il Tplf (il Fronte di liberazione popolare del Tigrè) ha occupato illegalmente ed impunemente per due decenni”.

    I termini dell’accordo di pace di Pretoria, che ha messo fine al conflitto tigrino, prevedevano il ritiro dal nord etiope delle forze alleate con il governo federale del premier Abiy Ahmed: fra queste le milizie regionali amhara, note come Fano; e le stesse truppe eritree, sebbene né le une né le altre fossero esplicitamente citate nel testo. È da questa assenza dell’Eritrea dalle trattative per l’accordo di pace, siglato a Pretoria il 2 novembre 2021, che il già precario equilibrio esistente fra Etiopia ed Eritrea dopo l’accordo di riconciliazione del 2018 si è sgretolato, portando le truppe eritree a mantenere le loro posizioni al confine ed impedendo agli abitanti di quelle zone di rientrare a casa dopo la fine del conflitto. Durante la guerra il governo etiope ha negato a lungo che le forze eritree fossero implicate nei combattimenti, nonostante ripetute denunce internazionali a questo proposito. I funzionari dell’amministrazione provvisoria del Tigrè e il suo presidente Getachew Reda denunciano da tempo al governo federale etiope quella che di fatto vivono come un’occupazione del loro territorio da parte delle forze eritree, che dopo la guerra non si sono mai ritirate oltre il confine.

    Lo scorso 28 febbraio, nel suo intervento al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite il vicesegretario generale Onu per i diritti umani Ilze Brands Kehris ha dichiarato che il suo ufficio “ha informazioni credibili che la Forza di difesa eritrea (l’esercito) rimane nel Tigrè e continua a commettere violazioni transfrontaliere, vale a dire rapimenti, stupri, saccheggi di proprietà, arresti arbitrari e altre violazioni dell’integrità fisica”. Secondo l’amministrazione tigrina, peraltro, il 52 per cento delle terre della regione etiope non è ad oggi coltivabile proprio a causa della presenza delle forze eritree ed amhara, esponendo la zona ad un altissimo rischio di carestia. Come sottolineato a “Ethiopian Reporter” dal vice capo dell’Ufficio regionale dell’agricoltura del Tigrè, Adolom Berhan Harifyo, il governo federale etiope non ha pienamente attuato l’accordo di Pretoria e la maggior parte delle aree che producono alti rendimenti nella regione sono state catturate dalle forze eritree. L’effetto finale è che su una previsione di raccolto di circa 15 milioni di quintali di grano a metà dell’anno fiscale in corso è stato possibile ottenerne solo 5 milioni, ovvero il 33 per cento del totale. Nella regione tigrina ci sono complessivamente 1,3 milioni di ettari di terreno coltivabile, di cui 640mila sono stati coltivati. In tutto, nel Tigré è coltivabile il 48 per cento del territorio.

Pulsante per tornare all'inizio