Made In

  • Meglio poco che niente

    La Commissione europea accoglie con favore l’accordo politico provvisorio raggiunto tra il Parlamento europeo e il Consiglio sugli elementi centrali del regolamento relativo alla sicurezza generale dei prodotti, facente seguito alla proposta della Commissione del giugno 2021.

    L’accordo stabilirà nuove norme per garantire che all’interno dell’Unione ai consumatori siano venduti solo prodotti sicuri, sia in negozio sia online, indipendentemente dal fatto che tali prodotti siano stati fabbricati nell’UE o altrove. Il regolamento affronterà anche i rischi collegati ai nuovi prodotti tecnologici, come i rischi di cibersicurezza, e introdurrà norme sulla sicurezza dei prodotti per il mercato online. Le nuove norme sono in linea e coerenti con la normativa sui servizi digitali.

    La Vicepresidente per i Valori e la trasparenza, Věra Jourová, ha dichiarato: “I consumatori hanno il diritto di sapere che i prodotti che usano sono sicuri. Rimangono troppi prodotti pericolosi sul mercato dell’Unione, che causano un danno annuale stimato a 11,5 miliardi di €. Accolgo con favore l’accordo provvisorio sulla proposta della Commissione per un regolamento relativo alla sicurezza generale dei prodotti: siamo quasi al traguardo di questo importante fascicolo, che costituisce un elemento chiave per proteggere meglio i consumatori europei”.

    Il Commissario per la Giustizia, Didier Reynders, ha aggiunto: “L’accordo di ieri è un passo avanti verso un mercato unico più forte e sicuro per i consumatori nell’Unione europea, del quale beneficeremo tutti. Il regolamento sulla sicurezza generale dei prodotti garantirà parità di condizioni e norme chiare per tutte le imprese che vendono a consumatori europei, e consentirà una migliore applicazione da parte delle autorità. Per esempio, le imprese di paesi terzi che esportano prodotti nell’UE dovranno indicare un referente responsabile all’interno dell’Unione. Il regolamento renderà così tali imprese responsabili della sicurezza dei prodotti che immettono nel mercato interno”.

    Il Parlamento europeo e il Consiglio dovranno ora adottare formalmente l’accordo politico di ieri.

  • Etichettatura alimentare: il Centro comune di ricerca pubblica una serie di studi in vista della revisione delle norme UE

    Il Centro comune di ricerca (JRC) della Commissione ha pubblicato i risultati di quattro studi scientifici relativi alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori. I risultati di questi studi contribuiranno alla definizione delle politiche future. In particolare, contribuiranno alla valutazione d’impatto di una proposta della Commissione atta alla revisione delle norme UE sulla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori, nel quadro della strategia “Dal produttore al consumatore” e del Piano europeo di lotta contro il cancro.

    Gli studi riguardano diversi ambiti: l’etichettatura nutrizionale nella parte anteriore della confezione, l’etichettatura delle bevande alcoliche, l’informazione sugli alimenti attraverso mezzi diversi dall’etichettatura, inclusi quelli digitali, e l’etichettatura di origine dei prodotti.

    Le ricerche dimostrano che in generale i consumatori apprezzano le etichette nutrizionali sulla parte anteriore della confezione come modo semplice e veloce per ottenere informazioni nutrizionali quando fanno la spesa. Globalmente, i consumatori preferiscono e utilizzano etichette più semplici e colorate. Un’analisi di mercato mostra che l’industria delle bevande alcoliche ha aderito volontariamente alla possibilità di fornire in etichetta informazioni nutrizionali e riguardanti gli ingredienti.

    Gli studi evidenziano che tra settori e paesi esistono disparità nella frequenza e nel contenuto delle informazioni. I dati indicano inoltre che le informazioni sugli alimenti fornite attraverso mezzi diversi dall’etichettatura, come le etichette sugli scaffali e i display dei punti vendita, possono essere efficaci nell’incoraggiare i consumatori ad adottare comportamenti alimentari sani, rispetto ai mezzi online che richiedono strumenti esterni. Gli studi rivelano anche che le informazioni sul paese d’origine e sulla provenienza influenzano notevolmente le scelte alimentari dei consumatori.

    Fonte: Commissione europea

  • President Biden: 1.2.3…7

    Da anni sostengo la necessità di rivedere le regole del commercio internazionale in modo da creare un mercato realmente concorrenziale e non basato sul  mero sfruttamento del costo minore di manodopera e con un minimo comune denominatore normativo. Ovviamente questa visione  viene snobbata ed indicata dalla nomenclatura politica ed economica come veteroindustrialista espressione della Old Economy da abbandonare a favore  della new/app/gig/sharing Economy o della economia monotematica turistica  definita come il “petrolio italiano”.

    Il 2020 ma soprattutto l’amministrazione Trump hanno dimostrato una volta per tutte come l’unico valore aggiunto reale e stabile che assicuri benessere diffuso sia rappresentato dalla complessa ed articolata  filiera industriale. L’amministrazione statunitense, negli ultimi quattro anni, ma anche prima con l’amministrazione Obama, aveva adottato una strategia politica nella quale venivano previsti forti incentivi  al reshoring produttivo riportando il settore industriale al centro dello sviluppo strategico. Tanto è vero che l’economia statunitense prima della pandemia registrava la piena occupazione e contemporaneamente operava  una forte pressione politica con la Cina in relazione alle politiche commerciali. Una scelta, o meglio, una strategia che partiva anche dal conseguimento della indipendenza energetica che lo shale oil ha garantito all’economia statunitense. Specialmente ora, in un periodo di crisi come quello attuale, è fondamentale rivalutare le filiere produttive per ridare slancio all’economia e quindi all’occupazione nazionale (https://www.ilpattosociale.it/attualita/made-in-italy-valore-economico-etico-e-politico/), molto più dei soliti voli pindarici relativi ad una economia più Green (la nostra economia industriale risulta la più ecocompatibile in Europa già dal 2018) che tanti sostenitori, ancora oggi, trovano tra le forze che si definiscono  “progressiste” ma sempre più scollegate dalla economia reale (https://www.ilpattosociale.it/2018/12/10/sostenibilita-efficienza-energetica-e-sistemi-industriali/).

    Gli Stati Uniti probabilmente continueranno anche nei prossimi quattro anni  a  basare  la propria strategia partendo da questi fattori caratteristici della amministrazione  Trump. Il neo eletto presidente Biden conferma questa impostazione fondamentale per assicurare lo sviluppo economico ed occupazionale al proprio paese in particolar modo ora dopo una crisi così grave legata alla pandemia. Una visione ancora oggi sconosciuta a buona  parte  di politici economisti ed accademici che lo hanno appoggiato sicuri di un “ritorno ai voli pindarici”. Questi stessi adesso abbracciano il concetto di eco sostenibilità e digitalizzazione, concetti utilizzati privi di ogni contenuto reale, esattamente come un’autostrada priva delle auto e camion risulta inutile.

    Con grande piacere, ripeto grandissimo piacere, rilevo come il nuovo presidente degli Stati Uniti seguirà le medesime linee guida della precedente amministrazione in relazione alle strategie economiche e politiche commerciali. Le linee guida di Biden da nuovo presidente degli Stati Uniti, infatti, possono venire sintetizzate  in questi sette principali  punti: 1. compra americano,  2. producilo in America, 3. innova in America, 4. investi in tutta l’America, 5. Difendi l’America,  6. rifornisci l’America, 7. riduzione della dipendenza da fornitori esteri.

    In altre parole, gli Stati Uniti sono passati da “American First “(slogan dell’amministrazione Trump) ad “American at the center”, versione edulcorata ma sostanzialmente uguale della nuova amministrazione Biden.

    Con malizioso e compiaciuto piacere rilevo come, in relazione alla politica economica e commerciale, il neo presidente Biden assomigli molto a Trump, solo un po’ più elegante.

  • Made in Italy: l’ennesima sconfitta

    Oltre Un anno e mezzo fa l’Unione Europea decise di togliere l’obbligo di indicare la località di fabbricazione dei beni alimentari sulle confezioni. Per completare poi l’opera di smantellamento della filiera produttiva dell’agroalimentare stabilì contemporaneamente l’annullamento della certificazione e della dichiarazione della filiera lattiero casearia. Un’azione e decisione politica che dimostrano ancora una volta quanto l’Unione Europea, attraverso le politiche economiche e strategiche,  rappresenti il vero problema per quanto riguarda la tutela del made in Italy e delle famose 4 A (Tessile-abbigliamento-calzaturiero-pelletteria, Agroalimentare-vinicolo, Arredamento, Automazione).

    Immediatamente, e in più occasioni, anche recentemente, ho espresso la mia totale ed assoluta contrarietà verso tali iniziative politiche ed economiche perché questa scelta europea va esattamente contro gli interessi non solo dei produttori del settore agroalimentare italiano ma soprattutto dei consumatori che hanno tutto il diritto di essere informati al meglio relativamente alla filiera a monte del prodotto, che rappresenta un valore economico ed etico.

    Allo stesso tempo avevo molto criticato l’azione dell’attuale governo, in particolare del ministro Calenda e dell’ex ministro Martina che lo scorso anno hanno reintrodotto tale obbligatorietà relativamente all’indicazione del sito produttivo annullata dall’Unione Europea. La mia posizione fortemente negativa non era e non è tutt’ora tanto nel merito (in quanto la conoscenza rappresenta sempre un valore anche economico) ma nella semplice considerazione che la materia afferente il Made In è di competenza esclusiva dell’Europa. Questo significa che qualsiasi normativa nazionale debba uniformarsi obbligatoriamente a quanto stabilito dalla legge europea nella materia specifica perché la legge europea è superiore a quella italiano. L’azione del governo, invece, ha ignorato tale principio, e cioè la capacità di incidere normativamente sulla materia, supportato dagli ottimi consulenti legali, giuridici ed economici che si ritrovano ora a vederla annullata dall’Unione Europea, come era naturale immaginare e prevedere bocciando clamorosamente l’azione dei due ministri del governo nel suo complesso.

    Viene da pensare allora, considerando la pletora di consulenti economici e giuridici della quale il  governo si avvale, come tale annullamento dimostri essenzialmente la mancanza di competenze dell’intera compagine governativa. In questo contesto infatti è paradossale come questa iniziativa del governo italiano si sia trasformata in un ulteriore fattore anticompetitivo per imprese italiane dell’agroalimentare rispetto ai concorrenti esteri che assolutamente non erano, né lo sono ora, soggetti a tale quadro normative.

    E’ naturale chiedersi allora come sia stato stato possibile varare una norma che poi sarebbe stata automaticamente bocciata, come scrissi l’anno scorso e anche pochi mesi fa, cosa che automaticamente e normalmente è avvenuta.

    Ancora una volta la voglia di dimostrare di aver operato a favore del made in Italy ha portato ad un ennesimo fallimento di questo governo, in particolare della ministri dell’Economia e delle ex ministro dell’Agricoltura, i quali, tra l’altro, hanno esposto il nostro Paese ad una figura decisamente ridicola in rapporto alle competenze giuridiche dimostrate attraverso questa iniziativa normativa.

    Quando si parla di declino culturale questo potrebbe rappresentarne l’esempio in quanto coinvolge nella loro articolata complicità ministri e viceministri con i diversi consulenti giuridici ed economici, nessuno dei quali è stato in grado di prevedere tale bocciatura ma ha preferito dare il proprio consenso ad una legge solo per dimostrare di aver realizzato qualcosa a favore di cittadini e soprattutto delle aziende .

    Mai come adesso questo declino sta costando all’Italia in termini economici, giuridici e di considerazione internazionale e mai come adesso questo risulta espressione di  una classe di ministri e di consulenti di vario genere inadeguati al complesso mercato globale nel quale noi operiamo.

    Al tempo stesso mai come ora riemerge il rammarico per quei sei mesi gettati al vento di presidenza dell’Unione Europea nel secondo semestre del 2015 annullati per ottenere uno 0,1/0,2% di maggior deficit che avrebbe supportato, finendo interamente a debito, la politica legata al Jobs Act e agli 80 euro di rimborso fiscale.

    In un paese normale e quindi di un paese democratico gli autori di questa legge verrebbero chiamati a rendere conto pubblicamente delle proprie azioni in considerazione dei pessimi risultati ottenuti.

  • Tutela normativa: da opportunità a vincolo

    Può sembrare incredibile come la tutela o perlomeno la presunta tutela spacciata dalla compagine governativa possa trasformarsi da strumento valorizzatore della filiera del made in Italy in vincolo e fattore anticompetitivo. Probabilmente o, meglio, purtroppo il governo spinto da una voglia e da una smania di dimostrare la propria attività dopo il disastro del semestre di presidenza dell’Unione Europea ha varato queste nuove normative relative alla filiera nel settore della pasta e del riso (che imporrebbe l’utilizzo di solo grano italiano per ottenere made in Italy) e quasi contemporaneamente ha  imposto l’aumento della percentuale di arancia nelle produzioni delle aranciate industriali.

    Paradossale poiché questa iniziativa relativa anche al riso risulti successiva alla decisione di togliere i dazi all’importazione di riso vietnamita esponendo in questo modo l’intero settore della risicoltura italiana a prodotti espressione di dumping economico, igienico, sociale e normativo. Dimenticando, anzi, peggio, omettendo come la materia relativa alla disciplina del made in risulti di competenza esclusiva dell’Unione europea e che, di conseguenza, ogni normativa all’interno del singolo Stato possa essere ritenuta valida solo per le aziende nazionali.

    Viceversa, gli operatori internazionali possono bellamente bypassare questa nuova normativa trasformando così l’iperattivismo normativo (vecchia problematica della politica italiana con 250.000 leggi) in un ulteriore fattore anticompetitivo per le aziende nazionali. Forse il governo, in pieno delirio normativo, era convinto che valesse il principio della sussidiarietà tanto caro alle compagini autonomiste ma assolutamente  non contemplato nella attribuzione delle competenze legislative nell’Unione europea.

    Per inquadrare la paradossale situazione normativa aiuta infatti rimarcare come la titolarità e la potestà legislativa relativa al made in risulti di attribuzione dell’Unione europea e non dei singoli stati. Quindi ogni iniziativa normativa in materia deve presentare un respiro ed una valenza europea.

    Logica conseguenza di queste divisioni delle potestà legislative tra singoli stati ed Unione Europea è che ogni imposizione normativa che venga attuata sul territorio italiano in relazione alla tutela, o presunta tale, dei prodotti risulti valevole solo ed esclusivamente per le aziende che operano nel territorio italiano non certo per le imprese industriali estere che esportano i propri prodotti nel mercato italiano. In questo contesto, e dimostrando una grande intelligenza, il pastificio De Cecco ha avviato una campagna di sensibilizzazione relativa al proprio prodotto indicando i luoghi di provenienza del grano (Italia Francia Australia Arizona Usa) al fine di valorizzare il processo di trasformazione italiano che rende la pasta italiana unica al mondo. Mediando il principio dello Swiss Made, che tutela la produzione del famoso cioccolato senza possedere la Svizzera all’interno del proprio territorio un unico campo coltivato a cacao e tutelando perciò il processo di trasformazione come vero valore aggiunto.

    Tale mancanza di sussidiarietà normativa fa emergere ancora una volta l’assoluta incompetenza sia dei vari ministri che hanno varato queste nuove norme quanto degli economisti ed accademici che non hanno compreso il valore disastroso di questa iniziativa legislativa al solo fine di spacciarla come un’azione di tutela e quindi semplicemente mediatica. Un iperattivismo normativo e comunicativo che ha avuto come unico risultato quello di favorire i prodotti di importazione che arrivano dall’Unione Europea che godono di un vantaggio competitivo rispetto alle aziende italiane le quali invece a queste norme risultano sottoposte.

    In più, entro la fine dell’anno, dovrebbe entrare in vigore una nuova normativa relativa all’etichettatura dei prodotti obbligando le aziende a cambiare ulteriormente il proprio packaging e la dichiarazione dei prodotti. Ancora una volta viene spacciata un’iniziativa normativa a favore  delle nostre aziende e soprattutto a tutela dell’intera filiera nazionale che interviene nella realizzazione del prodotto finito, espressione della cultura italiana intesa come sintesi felice di know how industriale, capacità professionali e creatività. Un’iniziativa che viceversa si rivela come ulteriore fattore anticompetitivo legato ad una profonda incompetenza di chi l’ha pensata e trasformata in normativa, riuscendo in una follia tutta nostrana come sintesi ed espressione della nostra cultura politica ed economica che riesce nell’arduo compito di trasformare un un’opportunità come la tutela made in Italy in vincolo.

    Una contraddizione tra intenzione ed effetto reale che dimostra l’esistenza di una classe politica assolutamente incapace anche solo di conoscere le reali esigenze delle aziende che operano nel made in Italy reale ma anche le singole competenze ed attribuzioni normative tra l’Italia e l’Unione Europea.

  • Il valore contemporaneo

    Alla fine di una campagna elettorale che ha rappresentato il livello più basso ed infimo di un degrado culturale ormai inarrestabile, durante la quale si sono sparate soluzioni strategico-economiche prive di qualsiasi copertura e soluzioni assolutamente inattuabili sotto il profilo normativo, nessuno ha centrato la propria attenzione sullo sviluppo economico che si traduce in prodotti di alto livello ed espressione di una articolata filiera. A tal fine si ricorda per l’ennesima volta come non esista più l’azienda a ciclo completo come, allo stesso modo, un singolo prodotto risulti essere la sintesi di diversi know how i quali, ciascuno per le proprie competenze, professionali e industriali, concorrono alla creazione del  prodotto finale.

    In questo senso quindi, per una volta, va riconosciuto al settore dello sci alpino, al quale sono particolarmente legato, dimostrare anche attraverso la semplice comunicazione la scelta valoriale che rappresenta una delle poche ed ultime possibili vie di sviluppo, tanto nel breve ma soprattutto nel medio e lungo termine.

    La scelta di certificare infatti, e contemporaneamente di comunicare, il valore del Made in Austria come un valore e quindi attribuirgli un valore anche economico rappresenta una scelta intelligente ed anche strategicamente importante soprattutto a tutela delle più diverse professionalità che concorrono alla realizzazione dello sci. Non possono certamente le semplici politiche di apertura dei mercati rappresentare la soluzione per una crescita economica ma la tutela dei prodotti nazionali nella loro massima espressione all’interno di mercati liberi, i quali tuttavia non possono ma soprattutto non devono sottovalutare il peso del dumping sociale, economico e fiscale all’interno di un mercato che si definisce aperto alla concorrenza. Mercati quindi che abbiano un impianto normativo che sappia tutelare ogni espressione industriale, professionale e culturale in quanto i prodotti rappresentano l’espressione culturale contemporanea della conoscenza ma anche del progresso culturale, tecnologico e quindi storico di un paese. A conferma di questa definizione di prodotto, semplicemente a titolo di curiosità, basti pensare a quanti brand dei diversi settori merceologici cerchino, attraverso la propria strategia di comunicazione, di dimostrare una supposta o reale storia industriale come un valore aggiunto al prodotto attuale.

    Viceversa, nessuno in questi mesi di campagna elettorale ha parlato della tutela del Made in: non i partiti, non gli economisti, non gli accademici. Un atteggiamento e soprattutto una mancanza di attenzione in quanto tale scelta risulta espressione di una società assolutamente distonica rispetto alle aspettative del mercato, pur all’interno di una continua evoluzione. Il marchio austriaco di sci Blizzard infatti oggi risulta di proprietà del gruppo italiano Tecnica di Giavera del Montello il quale ha recentemente visto l’ingresso con il 40% del fondo di investimento industriale Italmobiliare, un fondo italiano che si occupa di investimenti industriali. Quindi, anche per quella che viene indicata come la naturale evoluzione dei gruppi industriali familiari che si devono aprire agli investimenti di fondi privati con questo nuovo asset l’azienda madre considera strategica la valorizzazione del Made in come fattore fondamentale, storico e tecnologico per assicurarsi con successo sui mercati globali un posizionamento di alto di gamma.

    Una struttura moderna dimostra perciò come la sintesi del valore storico, unita alla certificazione e alla tutela normativa della filiera a monte come a valle, riesce ad assicurare la creazione del valore stesso, definendo ed attribuendo attraverso tale scelta strategica un valore assolutamente contemporaneo alla definizione di Made In che nello specifico si dimostra made in Austria.

    Ancora una volta l’economia reale risulta molto più avanti di coloro che pretenderebbero di definirla persino nelle sue dinamiche future e soprattutto governarla.

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