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  • CAA: India to enforce migrant law that excludes Muslims

    India’s government has announced plans to enact a controversial citizenship law that has been criticised for being anti-Muslim.

    The Citizenship Amendment Act (CAA) will allow non-Muslim religious minorities from Pakistan, Bangladesh and Afghanistan to seek citizenship.

    The authorities say it will help those facing persecution.

    The law was passed in 2019 – sparking mass protests in which scores of people died and many more were arrested.

    Rules for it were not drawn up in the wake of the unrest but have now been, according to the country’s home affairs minister Amit Shah.

    He made the announcement on Monday, writing on social media that Prime Minister Narendra Modi had “delivered on another commitment and realised the promise of the makers of our constitution to the Hindus, Sikhs, Buddhists, Jains, Parsis and Christians living in those countries”.

    India’s home ministry in a statement said that those eligible can now apply online for Indian citizenship. An online portal for receiving applications has already been set up.

    The ministry said that there have been “many misconceptions” about the law and its implementation was delayed due to the Covid-19 pandemic.

    “This act is only for those who have suffered persecution for years and have no other shelter in the world except India,” it added.

    The implementation of the CAA has been one of the key poll promises of Mr Modi’s ruling Hindu nationalist Bharatiya Janata Party (BJP) in the run-up to general elections this year.

    It amends the 64-year-old Indian Citizenship law, which currently prevents illegal migrants from becoming Indian citizens.

    Under the new law, those seeking citizenship will have to prove that they arrived in India from Pakistan, Bangladesh or Afghanistan by 31 December 2014.

    Monday’s announcement did not come as a surprise to many, as BJP leaders have been dropping hints over the past few months that the law could be implemented before the elections. After the notification was issued, BJP handles trended hashtags like “Jo Kaha So Kiya” (We did what we said) online.

    In the meantime, protests against the CAA have started in some states, including Assam, where the All Assam Students’ Union (AASU) – which spearheaded the 2019 protests in the north-eastern state – has given a call for a shutdown on Tuesday.

    In the southern state of Kerala, the ruling Communist Party of India (Marxist) party has called for state-wide protests. “This [the law] is to divide the people, incite communal sentiments and undermine the fundamental principles of the Constitution,” Chief Minister Pinarayi Vijayan said, adding that the law would not be implemented in his state.

    Critics of the CAA say it is exclusionary and violates the secular principles enshrined in the constitution, which prohibits discrimination against citizens on religious grounds.

    For example, the new law does not cover those fleeing persecution in non-Muslim majority countries, including Tamil refugees from Sri Lanka.

    It also does not make provision for Rohingya Muslim refugees from neighbouring Myanmar.

    There is concern that, when harnessed in tandem with a proposed national register of citizens, the CAA could be used as a way to persecute the country’s 200 million Muslims.

    Some Indians, including those who live close to India’s borders, are also worried that implementing the law will lead to an influx of immigrants.

    Monday’s announcement has not gone down well with the opposition, who accuse the government of trying to influence the upcoming election.

    This is expected to be held by May and Prime Minister Narendra Modi is seeking re-election for a third term in a row.

    “After multiple extensions in four years, its [the law’s] implementation two to three days before the election announcement shows that it is being done for political reasons,” said All India Trinamool Congress party leader, Mamata Banerjee, at a press conference.

    Jairam Ramesh, the communication head of the Indian National Congress, wrote on social media that “the time taken to notify the rules for the CAA is yet another demonstration of the Prime Minister’s blatant lies”.

    Asaduddin Owaisi, the leader of the All India Majlis-e-Ittehadul Muslimeen party, questioned the timing of the move.

    “CAA is meant to only target Muslims, it serves no other purpose,” he wrote on X (formerly Twitter).

  • Due più due

    Putin si reca dal presidente cinese lanciando un messaggio criptico: ”Il piano cinese per la pace può essere un buon punto di partenza”, peccato che nessun altro, oltre a loro due, lo conosca e che tutti invece conosciamo molti degli interessi comuni che legano i due paesi, interessi che ovviamente non corrispondono ai diritti del popolo ucraino.

    Dopo le stragi di Hamas Il presidente cinese ha annunciato al mondo arabo la sua vicinanza ed il suo sostegno alla causa palestinese.

    Abu Mazen proclama che i palestinesi non sono Hamas, ma i palestinesi di Gaza hanno scelto Hamas già dal lontano 2007.

    Hamas ha usato i soldi della cooperazione internazionale per armarsi sempre di più senza migliorare di un millimetro la vita degli abitanti della striscia di Gaza, ha come obiettivo principale la distruzione di Israele, ha condotto in modo militare un’operazione terrorista di violenza inaudita, che ha portato alle morte, per ora accertata, di più di 1300 cittadini israeliani, migliaia di feriti, almeno 200 ostaggi, e ben sapendo che ci sarebbe stata una violenta e legittima reazione da parte di Israele.

    L’Isis ha proclamato la Jihad, il che non è una novità visto che non l’aveva mai ritirata, e nei paesi occidentali stanno ricominciando gli attentati, documenti e volantini del cosiddetto stato islamico sono stati ritrovati dai soldati israeliani nei luoghi delle stragi.

    Gli hezbollah si uniscono alla guerra contro Israele mentre i paesi musulmani più moderati, anche se carenti di democrazia sostanziale, rischiano rivolte interne da parte dei fratelli musulmani.

    L’Iran gioca le sue carte per ottenere via libera per l’atomica e ancor maggiore peso nell’area o per scatenare una guerra non solo contro Israele o altri paesi musulmani nemici da sempre, ma anche per dare una svolta alle proteste interne che continuano e l’amicizia, la collaborazione tra Iran e Hamas è nota da sempre.

    Non ci sarebbe da stupirsi se ricominciassero, con più violenza, anche le azioni degli al Shabaab non solo nel corno d’Africa ma in tutti quei paesi africani nei quali i governi sono impegnati a combattere  il terrorismo.

    Molti paesi africani hanno al loro interno guerre e sommosse nelle quali la mano della Russia è presente, anche dopo la scomparsa di Prigozhin, mentre la Cina tiene in pugno altri paesi del continente africano per gli enormi prestiti fatti e che questi non avranno mai modo di restituire, i gravi problemi del continente africano rientrano nello scenario di un conflitto che rischia di essere sempre più esteso.

    La Russia con la battaglia del grano sta portando alla fame paesi africani musulmani le cui democrazie agli albori si sono dimostrare  troppo fragili.

    L’attenzione dei media da alcuni giorni si è spostata quasi completamente dalla guerra in Ucraina con il rischio che l’opinione pubblica se ne disinteressi e che possano crescere le più o meno palesi simpatie di alcuni per Putin e per il suo progetto, condiviso con il presidente cinese e non solo, di un nuovo ordine mondiale.

    Non è un mistero la convinzione, che troppi hanno, che i sistemi autoritari funzionino meglio delle democrazie, democrazie che rischiano quando metà della popolazione non si reca al voto.

    La reazione di Israele, se sarà portata avanti fino alla distruzione, almeno di gran parte di Hamas, rischia di scatenare un altro conflitto senza precedenti, se si fermerà Israele rischia la propria esistenza e il rischio è anche del mondo occidentale che non potrà più pensare di vivere in pace come negli anni seguiti al secondo conflitto mondiale.

    Sono solo alcune considerazioni, molte altre se ne potrebbero fare, esaminando gli errori degli uni e degli altri e la debolezza, la quasi inesistenza, da tempo, delle Nazioni Unite ma lasciamo questo lavoro ai tanti che in televisione parlano, spesso a ruota libera, mentre abbiamo, anche in questi giorni, visto bruciare in piazza le bandiere di Israele e gridare morte ai sionisti.

    La sofferenza dei civili palestinesi sotto le bombe, che doveva portare a più tempestivi aiuti umanitari, non deve lasciare indifferenti ma non può farci dimenticare che Hamas usa i civili come scudi umani mentre continua a lanciare missili su Israele, due errori non fanno mai una ragione, ciascuno si prenda  responsabilità e conseguenze
    Vogliamo solo ricordare che 1) è difficile fare i fluire maggiormente la diplomazia dopo che la si è ignorata per anni basandoci invece su qualche  improvvido Twitter, 2) se si vuole salvare Gaza bisogna eliminare Hamas, 3) se si vuole fermare la guerra Abu Mazen e i paesi arabi devono subito riconoscere Israele, solo con il pieno riconoscimento di Israele, e a seguire dello stato palestinese, si potrà sperare di costruire un Medio Oriente che guardi al futuro e continuare nelle azioni necessarie a distruggere il terrorismo. Resta fermo il fatto che Gerusalemme è la culla delle tre religioni monoteiste.

    In sintesi due più due non fanno quattro se chi conta ha obiettivi diversi dalla pace.

  • Il nome di Dio va rispettato

    Il calcio, la passione per il calcio, specie quando gioca la propria nazionale è più che comprensibile ma desta una certa perplessità sentire lo speaker, a seguito dell’ultimo gol che segna la vittoria dell’Arabia Saudita, urlare più e più volte Allah Allah Allah.

    Comprendiamo la gioia, l’entusiasmo ma non crediamo che Allah, il Dio dei musulmani, debba essere scomodato per un gol frutto non di un miracolo ma della bravura del calciatore.

    Mi sembra che mischiare il sacro col profano sia un po’ blasfemo e sintomo di come il nome di Dio sia usato invano e rappresenti non un’invocazione religiosa ma una specie di urlo di guerra contro gli altri. D’altra parte siamo abituati a sentire invocare Allah dopo attentati e violenze e questo non giova ai veri credenti musulmani che dovrebbero insegnare, fin dalle scuole coraniche, che il nome di Dio, di qualunque fede religiosa si sia, va sempre rispettato e non usato per esultare dell’effimero o per coprire le nostre colpe.

  • Orrore in Nigeria, lapidata e bruciata giovane cristiana

    Orrore e incredulità sono protagonisti in Nigeria per la fine disumana toccata alla studentessa cristiana Deborah Samuel, che il 12 maggio è stata lapidata e bruciata da studenti musulmani a causa di un messaggio scritto su WhatsApp e ritenuto offensivo nei confronti del profeta Maometto. L’efferato omicidio è accaduto nella città di Sokoto, ubicata a nord-ovest del Paese e capitale dell’omonimo Stato nigeriano in cui la sharia – la legge islamica – è applicata insieme al diritto comune, analogamente a quanto avviene in altri Stati della Nigeria settentrionale.

    Il portavoce della polizia di Sokoto, Sanusi Abubakar, ha detto che gli studenti dell’istituto Shehu-Shagari, infuriati dopo la lettura del messaggio, hanno prelevato con la forza la giovane “dalla stanza dove era stata portata in salvo dai funzionari dell’istruzione”, uccidendola. Due sospetti sono stati arrestati ed è in atto una caccia all’uomo da parte della polizia per trovare altri soggetti, identificati grazie a un filmato pubblicato sui social media e che mostra una folla che infierisce sulla vittima, frustandola e gridando insulti, prima di ammucchiare pneumatici usati sul suo corpo e appiccarvi il fuoco al grido di “Allah Akbar”.

    I leader religiosi nigeriani hanno chiesto oggi giustizia per la ragazza, invitando al contempo la popolazione alla calma. Muhammadu Saad Abubakar, sultano di Sokoto e massima autorità spirituale tra i musulmani nigeriani, e l’influente vescovo della Chiesa Cattolica di Sokoto, Mathew Hassan Kukah, hanno rilasciato delle dichiarazioni con i loro appelli.

    “Il Consiglio del Sultanato ha condannato quanto accaduto nella sua totalità e ha sollecitato le agenzie di sicurezza a portare davanti alla giustizia i responsabili dell’imperdonabile episodio”, ha affermato Abubakar in una nota, esortando “tutti a rimanere calmi e garantire una coesistenza pacifica” nel Paese. Abubakar, infatti, è a capo del Consiglio inter-religioso della Nigeria, che ha come suo obiettivo l’armonia tra le fedi presenti nella nazione, a nord prevalentemente musulmana e a sud principalmente cristiana.

    Anche il vescovo Kukah ha condannato l’omicidio, definendolo “una tragedia” e un “profondo shock”. “Noi…chiediamo alle autorità di indagare su questa tragedia e assicurare che tutti i colpevoli siano chiamati a rispondere delle loro azioni”, ha aggiunto.

  • Amicizie occulte e sudditanze pericolose

    La maggior parte dei tiranni sono stati demagoghi,
    che  si sono acquistata la fiducia del popolo con le calunnie.

    Aristotele; Politica

    Un proverbio cinese ci avverte che bisogna fare molta attenzione a chi arriva con un regalo perché chiederà sicuramente un favore. Una saggezza millenaria quella, che si verifica spesso, non soltanto tra gli esseri umani, ma anche quando si tratta di rapporti governativi tra Paesi diversi. E soprattutto quando quelli che governano e gestiscono la cosa pubblica hanno stabilito tra di loro dei rapporti occulti e delle sudditanze ed ubbidienze pericolose.

    Una settimana fa, lunedì 17 gennaio, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan è stato in Albania per una visita ufficiale, anche se, realmente, è stata proprio una visita per incontrare ed accordarsi con il suo “amico e discepolo”, il primo ministro albanese. Con colui che non nasconde, anzi, esprime pubblicamente la sua “ammirazione” per l’illustre ospite. Colui che proprio quel lunedì dichiarava che era “…molto orgoglioso di potersi considerare amico del presidente Erdogan”. Guarda caso, il protocollo di Stato aveva escluso dagli incontri, anche quello, protocollarmente obbligatorio, tra i due omologhi. E cioè dell’ospite, nella qualità di Presidente della Turchia e del Presidente albanese. Una “inedita protocollare” che non è stata mai spiegata e chiarita da chi di dovere, nonostante l’espresso interessamento pubblico e mediatico.

    Durante quella breve ma intensa visita in Albania il 17 gennaio scorso, il presidente turco era venuto anche per inaugurare quanto aveva “generosamente regalato” in precedenza, durante la visita del primo ministro albanese in Turchia, il 6 – 7 gennaio 2021. Si è trattato di 522 unità abitative in una località colpita dal terremoto del 26 novembre 2019. Dei regali per il povero e bisognoso popolo albanese. Ma soprattutto dei “regali” per il suo amico e discepolo, il primo ministro. Si è trattato e si tratta di “regali”, di supporto, anche elettorale, come nel caso di un ospedale in una città albanese, bastione del partito del primo ministro. Un’altra promessa fatta dal presidente turco al suo “fratello ed amico” albanese nel gennaio 2021, proprio tre mesi prima delle elezioni politiche del 25 aprile. L’ospedale è stato ormai inaugurato l’anno scorso, come promesso. Chissà però in cambio di quali favori quei “regali”?! E dei favori fortemente voluti e richiesti, anche pubblicamente, ci sono e come!

    Lunedì 17 gennaio, il presidente turco ha inaugurato la restaurazione, con dei finanziamenti turchi, di una moschea nel pieno centro della capitale albanese. Ma come ci insegna il sopracitato proverbio cinese, non è mancata neanche la richiesta del presidente turco, dopo i regali fatti. Una richiesta per il suo “fratello”, per il suo “amico”, per il primo ministro albanese; una sola, ma all’esaudimento della quale il presidente turco ci tiene fortemente e in maniera determinata. Una richiesta fatta anche prima. Una richiesta però, che mette in serie difficoltà il primo ministro albanese perché lo mette tra due “fuochi” dai quali si guarda ben attentamente di non essere “bruciato”: sia dal “fuoco” del suo “amico”, il presidente turco, sia dal “fuoco” dei Paesi occidentali e degli Stati Uniti d’America. Si tratta di una richiesta, quella pubblicamente fatta dal presidente turco, che riguarda tutto quello e quelli che hanno a che fare con colui che, fino al 2012, era un suo caro amico e stretto collaboratore. Colui che però, dal 2013, ha denunciato pubblicamente diversi scandali di corruzione, che vedevano direttamente coinvolto l’attuale presidente turco e/o i suoi familiari. E proprio per quella ragione, da quel periodo lui diventò un pericoloso nemico da perseguire e combattere, ad ogni costo. Quel nemico è Fethullah Gülen. Ed insieme con lui tutti i suoi collaboratori e sostenitori, compresi tutti gli appartenenti dell’organizzazione FETÖ (Fethullahçı Terör Örgütü – Organizzazione del Terrore Gülenista; n.d.a.), ovunque loro si trovino nel mondo. Anche in Albania. Il presidente turco considera Gülen l’ideatore e l’organizzatore del fallito colpo di Stato del 15 luglio 2016 in Turchia. Ormai lui è il principale ricercato dalla giustizia turca, accusato di terrorismo. Da anni ormai Gülen si trova negli Stati Uniti d’America. Ragion per cui la Turchia ha chiesto, a più riprese, alle autorità statunitensi la sua estradizione. Estradizione che è stata però sempre rifiutata. Non solo, ma sia gli Stati Uniti che tutti gli Stati membri dell’Unione europea hanno fermamente condannato le accuse di Erdogan nei suoi confronti. Questo acerrimo nemico del presidente turco, un noto politologo e predicatore dell’Islam, è anche il fondatore di una ben altra organizzazione, il Movimento Gülen. Egli è, allo stesso tempo, tra i fondatori dell’Associazione per la Lotta contro il Comunismo, nonché il fondatore di una rete di scuole e altre strutture di insegnamento privato, ben radicate sia in Turchia che in altri paesi, Albania compresa. Ma il presidente turco, nonostante la protezione personale data al suo principale nemico dagli Stati Uniti d’America, non demorde mai e, determinato, usa ogni occasione ed ogni mezzo per colpire e danneggiare sia il suo nemico che i suoi collaboratori e sostenitori, compresa la rete di scuole da lui fondate. Ragion per cui il presidente turco continua ad insistere con la sua richiesta per combattere i sostenitori del Movimento Gülen e sradicare le strutture scolastiche da lui fondate e finanziate. Presenti anche in Albania. E così facendo, da anni, sta mettendo in seria difficoltà anche il primo ministro albanese, suo “discepolo” perché essendo il nemico del presidente turco protetto dagli Stati Uniti e sostenuto anche dai Paesi europei il primo ministro albanese, il “fratello e amico” del presidente turco, cerca in tutti i modi di esaudire le ripetute richieste del suo “idolo”, ma cerca anche, possibilmente, di fare tutto senza dare nell’occhio dell’altra parte. Mentre il presidente turco, determinato ed agguerrito com’è, non perde occasione di ripetere e pretendere che la sua richiesta sia presa e trattata con la dovuta attenzione ed esaudita prima possibile. Lo ha fatto determinato, ma anche con una certa arroganza e prepotenza, lunedì 17 gennaio, parlando ai deputati presenti nell’aula del Parlamento albanese. Riferendosi ai collaboratori e ai sostenitori del suo acerrimo nemico, il presidente turco ha detto che “…questo gruppo mantiene ancora la sua presenza in Albania nel settore dell’istruzione, della sanità, delle organizzazioni religiose e nel settore privato”. Poi ha “avvertito” i deputati che gli appartenenti alle organizzazioni fondate dal suo nemico rappresentano anche un “pericolo per la sicurezza nazionale dell’Albania”, come per la Turchia. E con dei “messaggi tra le righe”, riferendosi sempre ai suoi nemici, considerandoli come dei “terroristi che hanno le mani coperte di sangue”, ha ribadito che “mentre ci sono tante questioni tra noi di cui parlare, discutere e intraprendere dei passi verso il nostro futuro comune, a noi (presidente turco e i suoi; n.d.a.) dispiace che stiamo perdendo tempo per una simile cosa. Speriamo che durante il nostro prossimo incontro di turno, questa questione possa essere cancellata dalla nostra agenda!”.

    Parte integrante, molto importante e significativa della visita del presidente turco in Albania, lunedì scorso 17 gennaio, ben preparata e gestita dal “protocollo ufficiale”, era proprio, come sopracitato, anche la cerimonia per la restaurazione, con dei finanziamenti turchi, della moschea sulla piazza principale, in pienissimo centro di Tirana. Una cerimonia con la quale si è conclusa la breve visita del presidente turco e nella quale però il “protocollo ufficiale” non aveva previsto la presenza dei rappresentanti della Comunità musulmana dell’Albania. In realtà in quella cerimonia tutto parlava turco. Da colui che invitava a parlare tutti quelli che era previsto parlassero, alle scritture sul podio fino alle scenografie sui muri “ristrutturati” della moschea. Anche la preghiera è stata recitata in lingua turca da un alto religioso turco. Mentre la ragione della vistosa e molto significativa mancanza, durante quella cerimonia, dei rappresentanti della Comunità musulmana dell’Albania era “semplicemente” dovuta al fatto che il presidente turco considera loro come sostenitori del suo sopracitato acerrimo nemico.

    La visita del presidente turco lunedì scorso, 17 gennaio, in Albania ha suscitato molte contestazioni espresse pubblicamente da analisti, opinionisti, ma anche da molti semplici cittadini. E non solo per il fatto che quella visita coincideva proprio con il 554o anniversario della morte dell’Eroe nazionale albanese, Giorgio Castriota. Di colui che per 25 anni consecutivi, dal 1443 e fino al 1468 (morì da malattia il 17 gennaio 1468), ha combattuto e vinto contro gli eserciti ottomani, alcune volte guidate personalmente dai sultani dell’epoca. Tenendo presente anche l’agenda della visita e le dichiarazioni del presidente turco il 17 gennaio scorso in Albania, la “coincidenza” sulla data scelta a molti è sembrata proprio come una sfida che l’ospite ed il caro “amico” del primo ministro faceva agli albanesi, i quali sono molto legati al loro Eroe nazionale. In più, sia il presidente turco che il suo anfitrione, il primo ministro albanese, durante quella visita, con le loro dichiarazioni hanno cercato di camuffare e di nascondere le vere ragioni della visita stessa. Hanno detto delle frasi che ne contraddicevano altre e non riuscivano a nascondere i veri obiettivi geostrategici della Turchia in Albania e nei Balcani. Tutto come previsto nella ormai nota Dottrina Davutoglu. Una dottrina quella che, da più di dieci anni ormai, è diventata parte integrante ed attiva della politica estera della Turchia. La Dottrina Davutoglu, fortemente sostenuta anche dall’attuale presidente turco, si basa sul principio dell’istituzione di una specie di Commonwelth degli Stati ex ottomani, dal nord Africa fino ai Balcani. Secondo questa dottrina, la Turchia dovrebbe diventare un “catalizzatore e motore dell’integrazione regionale”. La Turchia deve non essere “un’area di anonimo passaggio” ma diventare “l’artefice principale del cambiamento”. Mentre Erdogan, prima da primo ministro e poi da presidente, continua deciso all’attuazione di questa dottrina. Da alcuni anni l’autore di queste righe ha informato il nostro lettore, non solo della Dottrina Davutoglu, ma anche dei rapporti di “amicizia occulta” tra il presidente turche e il primo ministro albanese e di quelle che egli considera come delle “sudditanze pericolose”. (Erdogan come espressione di totalitarismo, 28 marzo 2017; Relazioni occulte e accordi peccaminosi, 11 gennaio 2021; Diabolici demagoghi, disposti a tutto per il potere, 18 gennaio 2021).

    Chi scrive queste righe da tempo è convinto della pericolosità delle amicizie occulte e dei rapporti di ubbidiente sudditanza che crea e segue il primo ministro albanese con altri suoi “simili”. Compreso anche il presidente turco. Simili soprattutto per il loro comportamento con il potere istituzionale e per i loro rapporti con i principi della democrazia. Simili per la loro arroganza e prepotenza e per il loro modo despotico di calpestare i sacrosanti diritti innati, acquisiti e riconosciuti dell’essere umano. Ma simili anche per le loro capacita demagogiche con le quali cercano e spesso anche riescono ad ingannare i propri cittadini. Confermando così quanto pensava Aristotele circa cinque secoli fa. E cioè che “La maggior parte dei tiranni sono stati demagoghi che si sono acquistata la fiducia del popolo con le calunnie”.

  • Secondo Ramadan col virus, tra strette e coprifuoco, per 1,5 miliardi di musulmani

    Per il secondo anno consecutivo più di un miliardo e mezzo di musulmani in tutto il mondo si apprestano a iniziare il Ramadan dovendo fare i conti con le restrizioni imposte dalla pandemia.     Quest’anno la luna nuova del mese è arrivata nella notte tra 12 e 13 aprile e l’obbligo di digiuno giornaliero, interrotto solo dal tramonto all’alba, durerà fino al 12 maggio.

    Rispetto all’anno scorso, quando i luoghi santi, le moschee, i ristoranti e i negozi erano rigorosamente chiusi, quest’anno le misure anti-Covid per il mese islamico del digiuno sono generalmente più blande. E consentiranno a seconda dei diversi contesti di rispettare almeno in parte i riti religiosi e le usanze sociali. La novità principale riguarda la Mecca, la città santa dell’Islam, che sarà sanificata 10 volte al giorno – con ben 60mila litri di gel – e che potrà accogliere i fedeli, ma solo quelli già immunizzati: che hanno già ricevuto almeno una dose di vaccinazione o che sono guariti dal virus. Per i trasgressori, assicurano le autorità saudite, sono previste multe “stellari”. A Gerusalemme si ricorda ancora con tristezza la vista della moschea al Aqsa, terzo luogo santo per l’Islam, deserta l’anno scorso. Quest’anno si prevede invece che nei vari giorni di Ramadan affluiranno sulla Spianata, all’aria aperta, centinaia di migliaia di fedeli, chiamati a rispettare il distanziamento.

    A differenza dell’anno scorso, le moschee nei vari Paesi rimangono aperte, con orari ridotti e con l’imposizione del distanziamento sociale. Fuori dai luoghi di culto la vita proseguirà in maniera diversa a seconda della diffusione della pandemia nei vari Paesi. L’Iran sabato scorso ha decretato un nuovo lockdown di 10 giorni in gran parte del Paese, di fatto bandendo ogni forma di aggregazione. Questa è invece assicurata nella Siria in guerra, dove la popolazione, stremata dalla crisi economica e dall’insicurezza alimentare, considera il Covid l’ultima minaccia alla sopravvivenza. L’agenzia governativa siriana Sana ha mostrato immagini di persone intente a fare la spesa nei mercati ortofrutticoli prima dell’inizio di Ramadan senza rispettare la distanza sociale e senza indossare mascherine. Nel vicino Libano è polemica tra la commissione governativa scientifica anti-Covid e il governo stesso, che ha posticipato di 2 ore l’inizio del coprifuoco notturno per consentire ai ristoratori e negozianti di vendere le loro merci, ad asporto, anche durante l’iftar, la tradizionale rottura serale del digiuno. Il coprifuoco notturno è stato imposto un po’ ovunque in tutto il Medio Oriente, mentre a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, dove la percentuale dei vaccinati è altissima, è consentito girare fino a tarda notte e i mezzi pubblici circoleranno fino oltre la mezzanotte nel fine settimana.

  • In Cina donne uigure sterilizzate con la forza

    Continuano le atrocità di Pechino nei confronti degli uiguri e questa volta le vittime sono le donne, stando ad un nuovo rapporto sulla persecuzione che si protrae da anni. Pare infatti che molte donne siano costrette ad essere sterilizzate o dotate di dispositivi contraccettivi nello Xinjiang nel tentativo di limitare l’aumento della popolazione di uiguri musulmani. Il Partito Comunista Cinese ha relegato negli ultimi tre anni la comunità uigura nel campo di rieducazione dello Xinjiang, una regione autonoma della Cina che confina con le ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale. Pechino ha etichettato i campi come “centri di aiuto”, progettati, secondo il Partito Comunista, per combattere l’estremismo religioso. Precedenti documenti trapelati hanno però mostrato che si tratta invece di campi di rieducazione ideologica. Le Nazioni Unite stimano che oltre un milione di musulmani siano stati incarcerati nello Xinjiang. Il motivo principale per il quale le persone vengono mandate nei campi è quello di avere troppi bambini. Il rapporto cita statistiche del governo, documenti statali e interviste con ex detenuti e un ex istruttore del campo di detenzione. Le detenute hanno dichiarato di aver ricevuto iniezioni che hanno interrotto le mestruazioni o causato sanguinamenti insoliti in linea con gli effetti dei farmaci anticoncezionali. L’indagine ha rilevato che i funzionari sottopongono regolarmente le donne di minoranza uigura ai controlli di gravidanza e costringano centinaia di esse ad usare dispositivi intrauterini, alla sterilizzazione e persino all’aborto. Le associazioni per la difesa dei diritti hanno denunciato la pratica come un “genocidio lento e doloroso”. E’ probabile, secondo il rapporto in questione, che le autorità dello Xinjiang si stiano impegnando nella sterilizzazione di massa di donne con tre o più bambini. La Cina ha negato le accuse, definendole “prive di fondamento”.

  • US Congress approves China sanctions over Uyghur crackdown

    The United States House of Representatives on Wednesday approved a legislation calling for human rights sanctions on Chinese officials deemed responsible for the oppression of Uyghur Muslims.

    The Chinese Communist Party has for the last three years forced the Uyghur community into re-education camp in Xinjiang, an autonomous region in China that borders the former Soviet republics of Central Asia.

    Beijing has labelled the camps as “help centres”, which the Communist Party claims are designed to combat religious extremism. Leaked documents showed that the centers are forced ideological re-education camps. The United Nations estimates that more than a million Muslims have been incarcerated in the camps.

    The bill singles out the region’s Communist Party secretary, Chen Quanguo, a member of China’s political bureau, or Politburo, as responsible for “gross human rights violations” against the Uyghurs.

    In support of the bill, congressman Michael McCaul stressed that Beijing is out to “completely eradicate an entire culture simply because it doesn’t fit within what the Chinese Communist Party deems ‘Chinese’”.

    The Uyghur Human Rights Act will now be sent to the White House, where president Donald Trump can either veto the bill or sign it into law. Uyghur activists urged Trump to sign it into law “as a matter of priority and take immediate steps to implement it”.

  • Le Nazioni Unite chiedono alla Cina di accedere incondizionatamente alla regione uigura

    L’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, Michelle Bachelet, ha accolto con favore l’invito della Cina a visitare la regione dello Xinjiang, a maggioranza musulmana, nota per i suoi campi di rieducazione, ripetutamente condannati dall’Occidente perché violano i diritti umani, che il Partito comunista sostiene essere stati progettati solo per combattere l’estremismo religioso.

    L’invito di Pechino prevede però una condizione, e cioè che le Nazioni Unite rimangano fuori dagli affari interni della Cina. Da New York fanno sapere invece di volere analizzare attentamente la situazione dei diritti umani, compresa quella della minoranza uigura. Secondo documenti recentemente trapelati dai campi sembra che la Cina stia monitorando ogni famiglia e ogni movimento delle minoranze musulmane uigure. Dal documento risulterebbe che siano state arrestate persone perché avevano la barba troppo lunga, per i digiuni e per avere numerosi figli. I detenuti nei campi ottengono punti seguendo rigide regole, una pratica questa che permette alle autorità cinesi di classificare ‘gli ospiti’ come studenti e laureati ‘dai campi’.

    L’ambasciatrice cinese presso le Nazioni Unite, Chen Xu, naturalmente ha respinto le accuse al mittente definendole “inaccettabili”.

  • UN fails to take measures on order against Myanmar on Rohingya

    The United Nations’ Security Council discussed the International Court of Justice’s order that Myanmar do all it can to prevent genocide against the Rohingya Muslims. It however, failed to agree on a statement.

    The country denounced claims that it tried to exterminate the minority in a bloody 2017 crackdown by its military, during which some 740,000 Rohingya were forced to flee into camps in Bangladesh.

    After evidence showed that Myanmar’s government intentionally targeted its Rohingya Muslim minority, the top court in the Hague ordered the country to stop its genocidal campaign against the Rohingyas.

    According to diplomats, France, Estonia, Germany, Poland and Belgium urged Myanmar to comply with measures meant to prevent genocide set forth by the court. According to a diplomatic source, China and Vietnam opposed issuing a joint declaration by the entire council during the closed-door meeting of the Council.

    “Accountability of perpetrators of human rights and humanitarian law violations is a necessary part of this process”, the EU members said, adding that “Myanmar must address the root causes of its conflicts”.

    Myanmar’s case is the third genocide case filed at the court since World War II. A motion to protect the Rohingyas from an extermination campaign was first launched in November when the Gambia accused Myanmar of breaching the 1948 Genocide Convention. The Gambia asked the court for emergency measures to stop Myanmar’s “ongoing genocidal actions”.

    Myanmar’s civilian leader, the now-disgraced Nobel laureate Aung San Suu Kyi, has been accused of overseeing the genocide against Rohingyas. She said in court that Myanmar was defending itself against attacks by Muslim militant groups.

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