Nato

  • Helsinki ha avviato la costruzione del muro con la Russia

    La data del 24 febbraio 2022 è uno spartiacque da cui non si tornerà indietro facilmente. Il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg ripete spesso i concetti ma al summit delle nazioni nordiche – organizzato quest’anno a Helsinki – ha voluto essere di una chiarezza cristallina: «Nemmeno la fine della guerra in Ucraina – ha avvertito – prevede un ritorno alla normalità nelle relazioni con la Russia». Perché lo scenario della sicurezza europea è «radicalmente mutato». La premier Sanna Marin, da padrone di casa, annuisce convinta. E non a caso la Finlandia ha appena dato il via ai lavori di costruzione del ‘muro’ lungo i confini con la Russia.

    La frontiera russo-finlandese, infatti, si estende per 1.300 chilometri ed è destinata a diventare uno dei punti caldi della nuova guerra fredda ora che Helsinki ha deciso di entrare nella Nato. Certo, blindarla tutta è impossibile. Ma il governo a novembre aveva presentato un piano per mettere in sicurezza i confini con una recinzione di circa 200 chilometri. Adesso si parte, con la rimozione degli alberi su entrambi i lati del valico di frontiera di Imatra e un primo troncone di tre chilometri di recinto per testarne la resistenza alle gelate invernali (o un eventuale massiccio afflusso di persone da est). Questa prima parte di muro di prova dovrebbe essere pronta a giugno. I cantieri poi continueranno e tra il 2023 e il 2025 saranno istallati ulteriori 70 chilometri di recinzione, principalmente nel sud-est del paese nordico – il progetto prevede reti di oltre tre metri con filo spinato, telecamere per la visione notturna, luci e altoparlanti.

    «Abbiamo dovuto prendere decisioni difficili, dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia era chiaro che lo status quo per Finlandia e Svezia non era più sostenibile», ha sottolineato Marin augurandosi che il processo di ratifica d’ingresso nella Nato del suo Paese da parte di Ungheria e Turchia si concluda «il prima possibile». Stoltenberg, interpellato più volte dai giornalisti sul punto, ha detto che «sono stati fatti dei progressi» e che ora è arrivato il momento di chiudere la partita, dato che Finlandia e Svezia «hanno rispettato» le clausole del memorandum firmato con la Turchia. L’obiettivo è quello di concludere le procedure in tempo per il summit di Vilnius dei leader dell’Alleanza, in calendario a luglio. Così facendo, il quadrante nord sarà definitivamente in sicurezza. «La Nato è l’unico confine che la Russia non osa varcare», ha tagliato corto Marin.

    Nel mentre, concordano i Paesi nordici, bisogna fare il possibile per aiutare Kiev a resistere all’assalto russo. “Quando la guerra finirà, dobbiamo essere sicuri che la storia non si ripeta e che Putin non possa invadere l’Ucraina un’altra volta», ha notato Stoltenberg parlando della necessità di rafforzare le capacità di autodifesa di Kiev. «Gli alleati – ha chiarito – hanno stabilito che il futuro dell’Ucraina è nella Nato ma si tratta di una prospettiva di lungo termine». Ecco perché, in generale, non si può tornare indietro e serve «spendere di più in difesa», anche a costo di altre voci importanti come «salute e istruzione». «Non c’è nulla di più cruciale della nostra sicurezza».

  • Il non senso

    La sospirata e tardiva decisione di Germania e Stati Uniti di fornire finalmente all’Ucraina i carri armati, dei quali ha bisogno da mesi e che da mesi Polonia e Repubbliche baltiche chiedono di poter inviare, non servirà nel breve tempo a dare un vero aiuto per impedire le scellerate violenze dei russi. Infatti, dato l’annuncio dell’invio è stato anche specificato che occorreranno circa tre mesi per addestrare i soldati ucraini al loro utilizzo.

    Ed eccoci ad uno dei tanti non senso di questa guerra perché non ha senso non aver addestrato per tempo i soldati Ucraini anche all’uso di questi super tecnologici carri armati, carri armati che rischiano di arrivare in un tempo troppo lontano, visti i massacri di oggi, ed in condizione meteo, il fango della primavera, che potrebbe renderli meno attivi per parecchio.

    Le guerre si fanno con molti strumenti che si possono predisporre in anticipo o in ritardo ma le condizioni meteo non dipendono né da presidenti o generali e non tenerne conto è improvvido e pericoloso.

    Tra tre mesi, se è questo il tempo che occorre, come comunicato ieri da Stati Uniti e da Germania, perché gli ucraini possano utilizzare i carri armati sarà aprile, la stagione del disgelo ed il fango regnerà sovrano più che mai rendendo molto più difficoltoso il passaggio dei tank, l’abbiamo già visto l’anno scorso.

    Tra pochi giorni entreremo nel secondo anno di guerra, l’Ucraina è stata quasi tutta rasa al suolo dalle bombe e dai missili russi ma i sistemi antimissili sono stati consegnati dagli alleati, anche questa volta, con molti ritardi e tutt’ora manca un supporto aereo adeguato per contrastare i bombardieri di Putin.

    Gli ucraini hanno dimostrato un coraggio fuori dal comune sia come soldati che come civili, sono inenarrabili le violenze fisiche ed i patimenti che questa popolazione ha dovuto sopportare senza cibo, acqua, luce, riscaldamento e troppo spesso senza casa, senza più nulla della propria vita passata.

    Inutile negarlo, per mettere d’accordo tra loro, per contemperare le paure, gli interessi, chiari o più oscuri, di ciascuno Stato dell’Unione e poi per mettersi d’accordo con Stati Uniti, Onu, Nato, ed altri alleati non è stato né semplice né veloce.

    I ritardi, le titubanze, le promesse non seguite da azioni immediate non hanno ammorbidito Putin, nessun tentativo, più o meno autorevole, di mediazione ha portato risultati se non quello di perdere ulteriore tempo mentre le varie milizie, dalla Wagner alle altre, hanno sempre intensificato le loro atrocità.

    Tutti coloro che conoscono un po’ di storia della guerre recenti sanno bene come la tempestività sia fondamentale mentre gli stalli, i tentennamenti, i ritardi incancreniscono i conflitti, né hanno grande esperienza i russi e gli americani in Afghanistan, gli americani anche in Vietnam.

    In questo conflitto non tutti gli interessi degli alleati sono chiari mentre è chiarissimo che se Putin continua a trovare sulla sua strada gli ucraini non armati a sufficienza, e tempestivamente, il destino, non solo dell’Ucraina, è segnato, sarà bene cominciare a tenerne conto in modo più adeguato.

    Molte possono essere le giustificazioni per i ritardi anche nell’addestramento degli ucraini ma in tempo di guerra non ci sono giustificazioni accettabili se non sono chiari i percorsi ed i tempi, come sempre dovremmo sentire meno annunci e più tempestività nel dare gli aiuti promessi.

    Certo è che non potremo guardare con serenità al futuro della democrazia e della pace nel mondo se Putin non sarà fermato o portato a miti consigli, inoltre il mondo di domani ha bisogno già da oggi di una totale riorganizzazione dell’Onu, della Nato e della stessa Unione Europea.

  • Ancora schermaglie tra Svezia e Turchia sull’ampliamento della Nato

    L’adesione della Svezia e della Finlandia alla Nato si conferma un percorso a ostacoli, per l’incognita di un possibile veto di Recep Tayyp Erdogan. «La Turchia ha avanzato richieste che non possiamo accettare», è l’ultimo allarme lanciato dal governo di Stoccolma. Resta ottimista invece il segretario generale dell’Alleanza Atlantica Jens Stoltenberg, secondo cui la partita si può chiudere positivamente entro quest’anno.

    Dopo l’intesa a tre firmata a giugno per sbloccare l’impasse (Svezia e Finlandia rinunciano a ospitare militanti del Pkk in cambio del sì turco all’adesione alla Nato), i punti di frizione non appaiono ancora essere stati superati. In particolare Stoccolma, che ha legami più solidi con la diaspora curda, è accusata da Ankara di non aver fatto abbastanza per estradare sospetti terroristi. Ora però il premier svedese Ulf Kristersson ha messo in chiaro che il suo governo ha rispettato i suoi impegni. «La Turchia ha confermato che abbiamo fatto quello che avevamo promesso, ma dice anche che vuole cose che noi non possiamo, che non vogliamo, dare», ha detto Kristersson durante una conferenza sulla sicurezza a Salen. Aggiungendo che la decisione di Erdogan dipenderà molto dalla “politica interna» turca: un chiaro riferimento alle presidenziali di giugno, in cui il sultano corre per la riconferma.

    Quanto alla Nato, si mantiene il profilo di fiduciosa attesa. Stoltenberg, sempre dalla conferenza di Salen, ha detto di aspettarsi un’adesione di Svezia e Finlandia entro il 2023, perché i 2 Paesi «sono chiaramente impegnati in una cooperazione a lungo termine con la Turchia». E l’ingresso dei 2 Paesi nell’Alleanza è fondamentale, nella misura in cui l’aggressività russa mostrata in Ucraina può avere conseguenze anche sulla “sicurezza delle regioni nordiche» dell’Europa, ha sottolineato Stoltenberg.

    La Svezia, in attesa del fatidico sì di Ankara (e di Budapest, che però non appare un ostacolo), parteciperà ai pattugliamenti della Nato nel Mare del Nord: un ulteriore segnale da parte del blocco militare occidentale che l’adesione di Stoccolma non è più una questione di se, ma di quando.

  • La supremazia militare e l’indebolimento diplomatico

    In un contesto complesso e  problematico che solo una guerra può determinare e mantenendo come primario il  principio che impone sempre la  ricerca di una via diplomatica per creare le condizioni per il raggiungimento  ed il  mantenimento di un cessate il fuoco stabile, solo una irresponsabile visione suprema militare, incurante di ogni conseguenza politica e bellica, avrebbe avviato e velocizzato le procedure per l’ingresso della Finlandia e della Svezia all’interno della NATO. Una scelta che è espressione di una scellerata strategia militare, sovrapposta a quella  politica, incurante tanto della posizione dei due Paesi a ridosso della Russia (e della stessa Ucraina) quanto della tempistica assolutamente inopportuna.

    Questa disastrosa escalation di una seconda “guerra di posizione”, in aggiunta a quella del territorio ucraino,  posta in campo ed  imputabile in toto alla direzione della NATO, andrebbe quantomeno negoziata perché va ampiamente oltre i propri compiti e i perimetri di competenza, dimostrando, in più, probabilmente, come la vera intenzione non si debba individuare nella ricerca complessa e difficile di un accordo  con l’obiettivo di bloccare la guerra e le sue terribili conseguenze quanto in quella di aumentare la zona di ingerenza della Nato stessa fino alle porte della Russia, ponendo fine quindi al concetto di stati “cuscinetto non allineati”  i quali  avevano assicurato comunque un instabile equilibrio.

    In più, all’interno di questa incerta quanto impervia trattativa diplomatica vengono fornite, con questa iniziativa della Nato, nuove argomentazioni alla retorica russa, il che si traduce nell’indebolimento negoziale della posizione occidentale all’interno di una trattativa finalizzata al raggiungimento di  una tregua stabile. Un indebolimento pericoloso e progressivo anche in considerazione dell’opposizione della Turchia a tale allargamento ai paesi scandinavi la quale, a tutt’oggi, rappresenta l’unico negoziatore occidentale con la Russia di Putin.

    Sembra veramente incredibile come tutte le istituzioni politiche nazionali ed internazionali possano accettare supine l’ingerenza politica della NATO che si insinua anche all’interno delle strategie  diplomatiche che, invece, dovrebbero restare di  esclusiva  pertinenza  politica.

    Sostanzialmente l’autorità militare della NATO sta invadendo quello spazio istituzionale nazionale ed internazionale  ponendosi  come una autorità suprema militare al vertice decisionale e negoziale.

    Questo percorso della Nato rappresenta una pericolosa sovrapposizione da considerarsi imbarazzante per l’intero continente europeo il quale non può più venire considerato un modello democratico all’interno del quale le forze armate rappresentano un elemento di difesa dello stesso sistema istituzionale basato  sulla precisa separazione democratica dei poteri tra i  quali quello militare non viene previsto.

    La mancata percezione di questa sempre maggiore ingerenza  militare all’interno di  sfere di competenza prettamente politiche definisce inequivocabilmente anche il livello di sensibilità istituzionale della classe politica italiana ed europea incapaci persino di difendere le proprie prerogative istituzionali ed il sistema economico.

  • Così la guerra di Putin cambia gli equilibri globali

    Nulla sarà più come prima. La guerra di Putin in Ucraina è destinata a cambiare gli equilibri geopolitici e la scacchiera globale che conoscevamo poco più di un mese fa, prima che i tank e i missili russi riportassero una guerra novecentesca nel cuore dell’Europa. Molti cambiamenti sono già in atto, altri sono in parte prevedibili, altri ancora potrebbero sorprenderci nei prossimi mesi e nei prossimi anni.

    È facile vedere quello che sta accadendo in Europa. Il futuro è già qui tra noi: il forte riavvicinamento tra Stati Uniti ed Unione europea dopo anni di rapporti faticosi, il rafforzamento della Nato che dalla ‘morte cerebrale’ vista da Macron adesso ha di nuovo un senso e un orizzonte, il passo deciso dell’Ue verso una politica estera comune e la creazione di un’identità di difesa comune, sempre che i leader europei non cadano di nuovo in qualcuna di quelle amnesie da cui ciclicamente sono colpiti.

    Sono passi che si pensava potessero richiedere anni e che invece stanno avvenendo, sotto i nostri occhi, in poche settimane. Ma allargando lo sguardo si può intuire come la guerra di Putin sia destinata a cambiare i rapporti diplomatici e gli schieramenti in tutti gli angoli del mondo.

    La Cina, suo malgrado, è al centro di queste novità. Pechino ha mantenuto una posizione volutamente ambigua ma sta già pianificando le mosse per i prossimi anni. Il recente rafforzamento delle relazioni voluto da Putin e Xi non è stato rinnegato. Ma la Cina da un lato evita di condannare esplicitamente Mosca e dall’altro continua a dire di credere nel dialogo e nel rispetto dell’integrità territoriale e della sovranità degli Stati. Il timore di Pechino è che la crisi economica conseguente alle sanzioni possa influire sul suo espansionismo centrato sul progetto nella ‘Nuova via della seta’.

    D’altra parte la globalizzazione così come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi è destinata a mutare velocemente e l’interconnessione e l’interdipendenza dell’economia globale sicuramente subiranno sensibili passi indietro.

    La Cina non si esporrà sulla guerra e nel frattempo preparerà il terreno per nuove alleanze. Il ministro degli Esteri Wang si è recentemente recato in India, per la prima visita dagli scontri del 2020 sul confine himalayano che portarono a un rapido deterioramento dei legami tra i due Paesi più popolosi del mondo. Ora tutto sembra quasi dimenticato di fronte ai nuovi problemi da affrontare. Possibilmente insieme. La Cina e l’India importano energia dalla Russia e il 50 per cento degli armamenti indiani viene da Mosca.

    L’Occidente teme quindi che nel medio periodo si possa creare un’alleanza tra India e Cina che strizzi l’occhio alla Russia. Sarebbe uno scenario impazzito che riporterebbe il mondo diviso fra 2 fronti con una nuova forma di Guerra fredda. Ma stavolta a guidare il fronte orientale non sarebbe più Mosca ma Pechino.

    Ma sarebbe anche uno scenario che andrebbe, in parte, contro gli interessi cinesi: dove finirebbero gli scambi commerciali con gli Usa e l’Europa di un Paese che punta tutto o quasi sul commercio internazionale? Anche, e soprattutto, nelle scelte di Pechino e nella risposta a questa domanda, che potremmo avere da qui a pochi mesi, si formerà il nuovo assetto della geopolitica globale dei prossimi anni.

    Per capire quanto la guerra di Putin stia cambiando il mondo si può anche guardare all’America latina dove Argentina e Brasile sono molto cauti nella condanna all’invasione russa e pensano invece a sostituire Mosca e Kiev nelle esportazioni di mais nei mercati globali. Buenos Aires e Brasilia sono rispettivamente il secondo e il terzo produttore mondiale di mais e adesso guardano alla guerra con un’altra prospettiva.

    Il Donbass, un mese fa, sembrava molto lontano. Adesso dalla guerra nata in quella piccola regione nascono i cambiamenti globali che costruiranno il mondo di domani.

    E Putin, dando il via libera ai suoi carri armati, voleva cambiare la storia. Ed è quello che sta accadendo, ma non nella direzione che voleva lui.

  • Le sconfinate ambizioni del nuovo zar

    Putin ha ribadito che la sicurezza della Russia non è negoziabile, corretto, ogni Paese ha il diritto di difendere il proprio territorio ma nessuno ha mai messo, né mette in discussione, la sicurezza della Russia, anzi molti Stati europei hanno sempre intrattenuto con lui e con il suo Paese rapporti economici e politici di rilievo. Quando il presidente russo dichiara al mondo che la sicurezza della Russia non è negoziabile non può stupirsi che altrettanto legittimamente l’Ucraina abbia lo stesso diritto di difendere i suoi i confini e la sua sicurezza. Non esistono, almeno dove vi è il rispetto delle leggi, due pesi e due misure, quello che Putin rivendica come suo diritto è lo stesso diritto che hanno gli altri Stati e lui è il primo ed unico ad aver violato questo diritto prima annettendo la Crimea e poi sostenendo per anni gli insorti nel Donbas. La sua non è una iniziativa difensiva dovuta ad un pericolo, potrebbe essere un’azione preventiva secondo il vecchio detto latino “se vuoi la pace prepara la guerra”? Putin di fatto è già in guerra perché ha avallato otto anni di guerra nel Donbas dopo aver annesso, senza colpo ferire, la Crimea. Un’azione preventiva anche quella? Azione preventiva che si sviluppa annettendo territori o creando stati fantoccio che poi riconosce come alleati erodendo inesorabilmente l’Ucraina e spostando i confini della Federazione russa sempre più avanti, sempre più vicini ai Paesi europei e Nato?

    In verità Putin ha deciso che questo è il momento per tentare di coronare il suo sogno: passare alla storia come uno zar dei tempi moderni, il federatore di territori immensi e stati diversi, il creatore di un nuovo impero russo che renda l’Europa sempre meno influente e la Cina consapevole di non poter continuare essa stessa ad espandersi nel mondo diventando di fatto la prima super potenza. La Cina, che è il nuovo grande alleato di Putin, è però un alleato scomodo perché diventa, di momento in momento, sempre più potente con le sue diramazioni, proprietà, interessi economici vitali nella maggior parte del mondo. Questo è il momento ideale per Putin per dare corpo al suo sogno, è ancora abbastanza giovane e potente al suo interno, dove rende gli avversari inoffensivi imprigionandoli, e varie contingenze sembrano essergli favorevoli: l’Europa non ha una politica comune, neppure quella per gli approvvigionamenti energetici, e i costi di gas e petrolio stanno mettendo in grave crisi famiglie e produzioni mentre l’economia e la pubblica opinione sono ancora  scossi per i problemi conseguenti la pandemia, la Germania non ha più un forte cancellierato, l’Italia soffre per le risse tra i partiti in vista delle elezioni nazionali, in Francia sono imminenti le elezioni per la presidenza, gli Stati Uniti, reduci dal disastro dell’Afghanistan soffrono di gravi incertezze per una presidenza di fatto debole e per l’aggravarsi di problemi razziali ancora irrisolti, la Nato può intervenire eventualmente solo per difendere il territorio di Stati membri e per altro non ha mai particolarmente brillato per successi, in concreto nessuno manderà soldati all’Ucraina, solo armi e soldi e non si sa fino a quando. Le mosse di Putin hanno reso l’Ucraina debolissima sul piano economico, chi vorrebbe oggi investire in un Paese così a rischio? Solo qualche oligarca russo o legato alla Russia che in questo modo potrebbe facilmente impossessarsi di gran parte dei suoi gangli economici più importanti. L’Ucraina ha sopportato la perdita della Crimea e la guerra del Donbas in pratica senza poter fare nulla di utile alla, almeno parziale, risoluzione dei tanti problemi. A questo aggiungiamo che molti Paesi europei non possono dare sanzioni che taglino l’arrivo del gas, in effetti anche Putin ha necessità di venderlo perché è una delle più importanti entrate della Russia e per questo ha siglato un nuovo accordo con Pechino aumentando considerevolmente le sue forniture di gas verso la Cina. Se aggiungiamo che le sanzioni che l’Europa metterà porteranno un danno anche a noi europei, sia per le mancate esportazioni verso la Russia che per l’evidente calo nel settore turistico, si comprende bene perché sia questo il momento migliore per Putin per sferrare la sua offensiva militare e diplomatica. Che fare allora? Certamente continuare con la diplomazia ma cercando di avere ben chiaro cosa vuole Putin e cosa si può concedergli ottenendo in cambio altre concessioni che garantiscano la sicurezza e l’indipendenza non solo dell’Ucraina ma anche di tutti gli stati che, avendo cittadini di lingua russa o di origini russe, potrebbero un domani entrare nel mirino del nuovo zar.

    Diplomazia ed accordi, compromessi onorevoli che impediscano azioni con risultati irreversibili e tragici. Un problema che anche Putin, speriamo non accecato da eccessivo orgoglio e onnipotenza, deve comprendere prima di insanguinare ulteriormente il suolo ucraino e prima di vedere tornare in Russia le bare dei suoi soldati perché in questo caso l’amore, il rispetto del suo popolo potrebbe tramutarsi in odio. E i soldati russi è bene che comincino a capire che se sarà guerra anche loro moriranno in tanti, vittime sacrificali al sogno di grandezza di Putin

  • L’Ue accelera sulla difesa comune

    La Nato appare meno interessata all’Europa e quindi sulla formazione di una difesa comune dell’Unione bisogna andare avanti e fare presto. Nel castello di Brdo, in una piovosissima serata slovena, l’Ue ha fatto un altro passo avanti verso un traguardo che, fino a poco tempo fa, sembrava un’utopia. Nella cena informale dei leader la difesa comune e l’autonomia strategica sono stati, assieme al dossier energetico, il piatto forte. Il percorso resta però in salita e il rapporto con l’Alleanza Atlantica è ancora tutto da delineare.

    Dalla Slovenia, infatti, non è emersa alcuna decisione ma un calendario che, nel marzo del 2022, potrebbe portare all’approvazione di un piano ad hoc per la difesa comune. “Ci sono scenari in cui non vediamo la Nato” e “potrebbe essere necessario che l’Ue sia in grado di agire”, sono state le parole della presidente della Commissione Ursula von der Leyen.

    A Brdo, sul fronte della difesa comune (e non solo), è tornato a riproporsi anche l’asse tra Mario Draghi e Emmanuel Macron. Il premier e il presidente si sono visti in un bilaterale a margine in cui hanno ribadito piena comunione d’intenti nei principali dossier internazionali. Preparandosi, di fatto, a vivere da protagonisti i mesi del post-Angela Merkel. Senza la cancelleria e in attesa del nuovo esecutivo tedesco, sono Draghi e Macron gli uomini forte dell’europeismo.

    Già nel corso della cena il premier italiano aveva avvertito i suoi colleghi che, sulla difesa comune, “non c’è più tempo”. Ma proprio mentre i leader Ue erano seduti a tavola, da Washington giungevano i primi, chiari malumori dei vertici Nato. “Un’organizzazione di difesa reciproca esclusivamente europea rischia di dividere e indebolire l’Alleanza atlantica”, ha avvertito il segretario generale Jens Stoltenberg. Parole che, alla Casa Bianca, poche ore dopo hanno accolto con favore. “Una migliore capacità di difesa europea è nell’interesse degli Usa ma dovrebbe essere complementare alla Nato”, è la linea del segretario di Stato Anthony Blinken, che a Parigi ha visto il ministro degli Esteri Luigi Di Maio con il quale ha parlato dei tanti temi cruciali su cui c’è sinergia tra Roma e Washington, ma non del dossier della difesa Ue.

    Il rapporto con la Nato resta insomma il primo grande ostacolo per una difesa comune europea. I Paesi baltici, per i quali tradizionalmente l’Alleanza è una sorta di ombrello anti-russo, non a caso sono tra i più scettici. Mentre la Germania paga la debolezza di un governo limitato di fatto agli affari correnti. Tanto che, nel corso della conferenza stampa a Brdo, il primo ministro Janez Jansa ha ammesso come un accordo unanime ancora non ci sia. Ma la crisi afghana e il patto Aukus sembrano portare l’Europa su una strada dalla quale non si potrà tornare indietro. Entro dicembre l’Ue è chiamata ad elaborare lo Strategic Compass, il piano che sarà la base regolamentare e politica della difesa comune. E che il Consiglio Ue, secondo il cronoprogramma di Bruxelles, dovrebbe approvare nel marzo 2022.

    Certo, non c’è solo il nodo del rapporto con la Nato a minacciare continui rallentamenti. “Se l’Europa non ha una politica estera comune è molto difficile che possa avere una difesa comune”, ha spiegato ad esempio Draghi sottolineando come all’unione militare ci si possa arrivare all’interno dell’Europa o con alleanze inter-governative tra i Paesi membri. “Il primo modo è di gran lunga il preferibile, perché manterremmo uno schema sovranazionale”, ha rimarcato il premier italiano annunciando che chiederà alla commissione un’analisi ad hoc sulle opzioni in campo. Mentre sul nodo della relazione con la Nato Draghi è stato netto: “Non credo che qualunque cosa nasca fuori dalla Nato indebolisca la Nato e indebolisca l’Europa”, ha sottolineato sulla stessa linea anche von der Leyen. Ma Draghi è andato oltre, lamentando una certa marginalità dei Paesi Ue nell’ambito dell’Alleanza e auspicando un maggior coordinamento intra-europeo per incidere di più.

  • L’Ucraina chiede un’adesione rapida alla Nato per salvarsi da Putin

    Lo scontro fra Kiev e Mosca continua, sullo sfondo di crescenti tensioni nel Donbass dove, negli ultimi tempi, si è ripreso tristemente a morire a furia di scaramucce tra i separatisti delle repubbliche autoproclamate e le truppe regolari ucraine. Il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, ha lanciato un appello alla Nato chiedendo di “accelerare” il processo di adesione del suo Paese perché solo così, entrando sotto l’ombrello protettivo dell’Alleanza Atlantica, si potrà fermare la guerra. “Il piano d’azione di adesione alla Nato sarà l’unico vero segnale per la Russia”, ha detto chiaro e tondo al segretario generale Jens Stoltenberg.

    Ecco, per il Cremlino questo è un vero e proprio anatema. Tant’è vero che il portavoce di Vladimir Putin gli ha risposto a stretto giro. “Questo scenario aggraverà ulteriormente la situazione perché quando si parla di aderire alla Nato in nessun modo si può ignorare l’opinione delle persone: se chiederete ai milioni di persone che vivono nelle repubbliche autoproclamate capirete che l’appartenenza alla Nato è davvero inaccettabile per loro”, ha commentato Dmitry Peskov. Dunque muro contro muro. Di nuovo. Pomo della discordia restano i famosi accordi di Minsk che Mosca vuole vedere attuati mentre per Kiev restano fumo negli occhi. La Russia chiede all’Occidente di fare pressioni sull’Ucraina in questo senso – “il comportamento occidentale è molto deludente” – e in particolare a Parigi e Berlino, controparti negoziali del formato Normandia, di inculcare “un po’ di buon senso” nella leadership ucraina.

    Ma Zelensky ha a che fare con un vistoso calo nei consensi e punta all’asse con Washington per recuperare il gradimento, specie nel campo nazionalista.

    Zelensky ha incassato “l’incondizionato” sostegno di Joe Biden nella prima telefonata bilaterale tra i 2 leader e oggi, a colloquio con Stoltenberg, ha calcato la mano sul “continuo accumulo di truppe russe vicino ai confini dell’Ucraina e sulla loro maggiore disponibilità ad azioni offensive”. Due militari ucraini sono morti nel Donbass nelle ultime 24 ore in seguito a bombardamenti dei separatisti lungo la linea del fronte; purtroppo poi si sono riaffacciate le vittime civili e a tenere banco è il caso di un bambino di cinque anni rimasto ucciso (pare) nel corso di una rappresaglia di Kiev lo scorso 2 aprile, tanto che il Comitato Investigativo russo ha aperto un procedimento penale sull’accaduto. A complicare maledettamente le cose, infatti, c’è la politica adottata da Mosca di rilasciare passaporti russi, per “ragioni umanitarie”, ai residenti nel Donbass che ne fanno richiesta. Una scelta che Kiev ha più volte condannato come “insopportabile intromissione” nei suoi “affari interni”.

    Al di là delle dichiarazioni, altisonanti ma pur sempre parole, restano però i fatti. Sui social rimbalzano video, d’incerta attribuzione, che mostrano lunghe colonne di mezzi militari russi in viaggio verso le regioni (russe) limitrofe all’Ucraina. Mosca accusa Kiev di fare altrettanto. E mette in guardia Ue e Usa, veri “sponsor” dell’Ucraina, dal non cadere vittima delle sue provocazioni. “Non vediamo alcuna intenzione da parte dell’Ucraina di calmarsi e cessare la sua agenda belligerante”, ha ammonito il Cremlino. Dunque la tensione sale.

  • NATO voices concerns over Russian military presence in MENA region

    Russia’s increasing military presence in the Middle East and North Africa (MENA) region is a matter of “great concern” for NATO, its Secretary-General Jens Stoltenberg said on Thursday, stressing that the alliance is “monitoring closely” Moscow’s actions.

    “We have seen the presence of fighter jets and mercenaries financed by Russia and all the Russian military capabilities,” Stoltenberg said in response to a question about Russia’s military build-up in the region.

    He added that Russia’s efforts to boost its military presence extend beyond the MENA, as they also reach the Baltic region and the Black Sea as well as to the High North. He stressed that Moscow’s moves is the reason behind NATO’s increased readiness of its forces and behind its advanced investments in new capabilities.

    “This is also the reason why … we are adapting NATO in response also to a more assertive Russia, which is investing heavy in new military equipment and also increasing its military presence along our borders, including in North Africa and in Libya,” Stoltenberg said.

    When it comes to Libya in particular, the NATO chief reiterated the alliance’s support to the efforts led by the United Nations, for a political, negotiated solution to the crisis in the country, whilst welcoming the announcement for a ceasefire.

    “We stand ready to provide support when the conditions on the ground, permit. Because we strongly believe that what we need is a political solution, and support the UN recognized Government,” of Fayez al-Sarraj, the leader of the international recognised Government of National Accord (GNA).

    Stoltenberg’s comments followed a meeting with President of Mauritania Mohamed Ould Cheikh El Ghazouani at the organisation’s headquarters in Brussels on Thursday.

  • Un buffone non può diventare re

    Chi si aspetta che nel mondo i diavoli vadano in giro con le corna e
    i buffoni coi sonagli, sarà sempre loro preda e il loro zimbello.

    Arthur Schopenhauer

    Il 6 luglio 2018 a Londra, durante la riunione del consiglio dei ministri, la premier britannica Theresa May ha presentato il suo programma della “Linea morbida sulla Brexit”. Programma che era stato pubblicato un giorno prima come “Libro Bianco” (White Paper). Un programma che non poteva essere condiviso e approvato da alcuni importanti membri del suo governo, ben noti come euroscettici.

    Il 9 luglio scorso le agenzie britanniche dell’informazione, e poi tutte le altre, diffondevano due notizie importanti. Di mattina presto veniva pubblicamente confermato che il ministro per la Brexit David Davis aveva rassegnato le sue dimissioni. Nel primo pomeriggio è arrivata l’altra notizia importante, quella delle dimissioni del ministro degli Esteri Boris Johnson. Tutti e due, da tempo, non condividevano il modo con il quale la premier Theresa May voleva trattare i futuri rapporti tra la Gran Bretagna e l’Unione europea.

    Un giorno dopo, e cioè il 10 luglio e sempre a Londra, in una simile scombussolata situazione politica britannica, si è svolto il vertice, ad alto livello, dei rappresentanti delle istituzioni dell’Unione europea e di alcuni Stati dell’Unione, con i rappresentanti dei sei paesi dei Balcani occidentali. Un vertice, nell’ambito di quello che ormai è ufficialmente noto come il Processo di Berlino, per l’allargamento dell’Unione europea con i paesi balcanici. Il momento però, non è stato per niente appropriato. Anche per il semplice fatto che colui il quale doveva dare formalmente il benvenuto agli ospiti, cioè il ministro Johnson, un giorno prima aveva rassegnato le dimissioni. Un fatto, di per se, molto significativo. Sembrava quasi surreale e grottesco parlare di allargamento a Londra. Proprio lì, dove un giorno prima due importanti ministri avevano rassegnato le loro dimissioni perché non credevano più nella bontà dell’Unione europea, nonché nelle sue istituzioni e politiche. Mettendo così in primo piano l’eurosetticismo e offuscando il vero obiettivo del vertice. Il caso ha voluto che si doveva parlare d’allargamento, nell’ambito del Processo di Berlino, proprio nella capitale di uno Stato il quale, a fine marzo 2019, non farà più parte dell’Unione europea, in seguito al referendum del 23 giugno 2016 sulla Brexit. Perché, comunque sia, non si può non pensare ormai che la Gran Bretagna rappresenti più un paese che possa credibilmente sostenere la causa dei Padri Fondatori dell’Unione europea. Sono stati questi significanti simbolismi, che non potevano ispirare per niente ottimismo. Ragion per cui non dovrebbe essere stata sentita bene neanche la premier May, durante il sopracitato vertice, quando dichiarava che “La Gran Bretagna si sta allontanando dall’Unione europea” ma che comunque rispetterà “le responsabilità che ha per i paesi balcanici”.

    Il 13 luglio scorso a Londra è arrivato il presidente statunitense Donald Trump, una visita che non è stata per niente facile e, men che meno, amichevole. Visita durante la quale non sono mancati gli incontri imbarazzanti e le dichiarazioni provocatorie. In un’intervista rilasciata al noto quotidiano britannico “The Sun”, il presidente Trump apprezzava il dimissionario ministro degli Esteri Boris Johnson, convinto che lui “sarebbe un ottimo primo ministro”. Una sfida aperta alla premier May, con la quale si è incontrato in seguito. Ma anche la May non è rimasta a bocca chiusa. Dopo l’incontro con il presidente statunitense, lei, “maliziosamente”, ha rivelato alla BBC: “Mi ha detto che dovrei citare in giudizio l’Unione europea, non negoziare con loro, [ma] denunciarli”.

    Il presidente Trump era arrivato a Londra da Bruxelles, dopo il vertice NATO (11 – 12 luglio). Anche in quel vertice non sono mancate le minacce, le provocazioni e le dichiarazioni “forti”. Alcune delle quali “aggiustate” e “convenzionalmente ammorbidite” in seguito. Come quella del presidente Trump “di uscire dalla NATO” se gli alleati non dovessero rispettare le spese militari richieste dagli Stati Uniti. Secondo l’agenzia Associated Press, Trump avrebbe detto però, in un altro momento, che “gli Alleati della NATO abbiano deciso di aumentare le spese per la difesa oltre i precedenti obiettivi”. Affermazione contraddetta subito dal presidente francese Macron, secondo il quale non c’è stato “nessun accordo sull’aumento delle spese militari”. Per poi arrivare alle posizioni finali degli alleati. Queste sono state soltanto alcune discrepanze e contrarietà verificate e rese pubbliche mentre si svolgeva il vertice NATO a Bruxelles.

    Nello stesso periodo anche il primo ministro albanese, nelle sue vesti istituzionali, era presente in due dei sopracitati vertici. Era presente al vertice di Londra, nell’ambito del Processo di Berlino per l’allargamento dell’Unione europea con i paesi balcanici. Era presente anche al vertice NATO a Bruxelles. Considerando sia il clima in cui sono stati svolti questi vertici, che l’importanza e l’impatto reale sui futuri sviluppi politici e geopolitici nei singoli paesi e a livello internazionale, allora si potrebbe facilmente immaginare la posizione ed il “ruolo” del primo ministro albanese in simili avvenimenti. Sia per il peso dell’Albania nella movimentata schacchiera internazionale, sia per altri, ormai pubblicamente noti motivi, anche a livello internazionale e per niente positivi. Per queste ovvie e comprensibili ragioni il primo ministro albanese si è trovato completamente trascurato da tutti, sia a Londra, che a Bruxelles. Il che per lui rappresenta un’enorme sofferenza. Perché, discreditato ormai in patria, cerca disperatamente “sostegni” internazionali. Non importa come e a quale prezzo. Anche perché le scelte si riducono sempre di più. Mentre la realtà politica e sociale albanese si aggrava ogni giorno che passa, riconoscendo in lui il principale responsabile, con tutte le probabili conseguenze.

    A fatti compiuti, risulterebbe, con ogni probabilità, che l’unico obiettivo della presenza del primo ministro albanese, sia a Londra che a Bruxelles, è stato quello di “strappare” almeno un sorriso e/o, magari, una stretta di mano di quelche “pezzo grosso” internazionale e fissare tutto in qualche fotografia. Poco importava se, così facendo, poteva diventare lo zimbello di tutti. Non a caso, commentando la fotografia ufficiale del sopracitato vertice di Londra, la BBC, con la solita ironia britannica, annotava che “qualcuno aveva dimenticato le scarpe”. Si riferiva alle scarpe da tennis bianche che portava il primo ministro albanese. Poco importava per lui, se per realizzare il suo unico obiettivo, poteva sembrare un mendicante che elemosinava un sorriso, una stretta di mano di passaggio, da immortalare subito in una fotografia. Buffonate del genere si fanno soltanto quando uno si trova in serie difficoltà di sopravvivenza.

    Chi scrive queste righe è convinto che il primo ministro albanese, dopo aver causato tanto male in patria, sta cercando disperatamente di fare il buffone all’estero, per ottenere qualsiasi supporto propagandistico. Egli, condividendo la saggezza popolare, secondo la quale un asino resta sempre un asino anche se lo ricopri d’oro, rimane altresì convinto che un buffone non può diventare re.

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