Occupazione

  • C’è più lavoro che prima del Covid: in due anni un milione di posti

    Il lavoro cresce più del pre-Covid ed è stabile. La ripresa dell’occupazione, nonostante il rallentamento alla fine dell’anno scorso, riesce così a “riassorbire completamente” la caduta causata dalla pandemia: tanto che in due anni, tra il 2021 e il 2022, conta quasi un milione di nuovi posti. A certificare il bilancio positivo è il rapporto sul mercato del lavoro realizzato da ministero del Lavoro, Banca d’Italia e Anpal.

    I dati dicono che nel solo 2022 sono stati creati più di 380mila posti, un valore superiore a quello registrato nel 2019, prima dell’emergenza sanitaria, quando si erano toccati i 308mila. E questa crescita occupazionale è legata quasi esclusivamente alle assunzioni a tempo indeterminato: oltre 400mila i posti di lavoro stabili in più, a fronte di una sostanziale stazionarietà dei contratti a termine e di un calo di oltre 50mila dei contratti di apprendistato. Aggiungendo i risultati del 2021, con oltre 600mila posizioni lavorative in più, ecco che nell’ultimo biennio il settore privato ha creato quasi un milione di nuovi posti.

    Tuttavia si conferma il rallentamento del mercato del lavoro a fine dell’anno scorso. La domanda, sottolinea il rapporto, “è rimasta sostenuta fino all’inizio dell’estate, riportando l’occupazione sul sentiero di crescita pre-pandemico. Nei mesi successivi la dinamica è rimasta positiva ma si è indebolita”.

    E comunque non va allo stesso modo per tutti. Tra i settori, la ripresa occupazionale dell’ultimo biennio è stata infatti eterogenea. Il comparto del turismo, che maggiormente ha risentito della crisi sanitaria, malgrado il buon andamento della stagione estiva, rimane ancora sotto i livelli pre-Covid. Meglio, invece, per le costruzioni che, anche sulla spinta del Superbonus, hanno registrato tassi di crescita molto elevati a partire dall’estate del 2020; nonostante il più recente rallentamento, la domanda di lavoro in questo settore dovrebbe rimanere sostenuta, viene evidenziato, anche grazie ai piani di investimento previsti dal Pnrr. Un rallentamento che ha pesato nella seconda metà dell’anno scorso particolarmente sul Sud, dove di più il comparto edile aveva spinto l’occupazione. In generale comunque la crescita si è concentrata nel Centro Nord. A dicembre il numero dei contratti a termine ha ripreso a salire.

    A novembre, intanto, è risalito il fatturato dell’industria: dopo due mesi di flessioni, come indicato dall’Istat, è tornato a crescere su base mensile mettendo a segno un +0,9% con una dinamica positiva sul mercato interno (+0,6%) e su quello estero (+1,3%). Su base annua, la crescita è dell’11,5% (+10,1% sul mercato interno e +14,3% su quello estero). Tra i raggruppamenti principali di industrie, l’aumento tendenziale più alto si registra per l’energia (+19,5%) che, però, su base mensile scende dell’1,8%.

    Sul fronte delle imprese, restano in territorio positivo ma rallentano le nascite di nuove attività. Dopo il brusco stop del 2020 (quando il saldo si fermò a solo +19mila) e il rimbalzo del 2021 (+87mila), con il 2022 il bilancio tra aperture e chiusure si attesta a 48mila attività in più (+0,8%) rispetto all’anno precedente, come emerge dai dati Movimprese, elaborati da Unioncamere e InfoCamere sulla base del Registro delle imprese delle Camere di commercio. Anche in questo caso, il contributo più rilevante al risultato annuale arriva dal settore delle costruzioni (+21mila). Nel confronto con il 2021 si vede però che le nuove aperture diminuiscono del 6% e invece aumentano le chiusure (+7,5%): in valori assoluti sono rispettivamente 313mila e 265mila.

  • Il settore manifatturiero nella Ue migliora ma resta in contrazione

    Migliora il Pmi manifatturiero dell’eurozona, passando dai 47.1 punti della rilevazione di novembre ai 47,8 di dicembre, ma l’economia europea resta comunque in contrazione, con il dato che per il sesto mese consecutivo si mantiene ancora sotto la soglia dei 50 punti, che indica una fase di crescita.

    La rilevazione segna piuttosto una diminuzione dell’intensità della contrazione del settore manifatturiero, con l’attenuazione delle pressioni inflazionistiche e le condizioni più stabili della catena di fornitura che hanno dato tregua ai produttori di beni. Rimane però evidente la debolezza della domanda dei clienti sotto forma di calo di nuovi ordini ricevuti. Le aziende hanno trasferito la maggiore capacità produttiva nella riduzione del lavoro inevaso.

    A dicembre scorso, malgrado il crollo del volume dell’attività di acquisto e della produzione, sono stati registrati nuovi aumenti delle giacenze dei fattori produttivi e dei prodotti finiti. Continua, inoltre, la crescita occupazionale, con l’ottimismo in salita al livello massimo in sette mesi. Il dato a 47.8 punti rappresenta il valore massimo negli ultimi 3 mesi segnalando una più leggera contrazione. Gli indicatori settoriali hanno però mostrato un continuo peggioramento nei mercati dei beni di consumo. A dicembre la contrazione si è attenuata nella Ue, ad eccezione della Grecia, dove invece è stato osservato un maggiore declino e si materializza lo spettro di una possibile recessione. Le nuove vendite nella penisola ellenica sono fortemente diminuite, così come la domanda dei clienti stranieri, al contempo sono aumentati i costi per l’energia.

    In Italia l’indice Pmi segna 48,5 punti, in aumento di 0,1 sulla precedente rilevazione, ma prosegue la forte contrazione del volume degli ordini. Una nota positiva è il rafforzamento della fiducia delle imprese, che ha raggiunto il massimo in 7 mesi, con un ottimismo legato alle speranze di una ripresa della domanda e di nuovi investimenti.

    Anche in Francia si registra una lieve ripresa della fiducia delle imprese, ai massimi su 4 mesi. I livelli di occupazione nel settore manifatturiero francese sono diminuiti la prima volta da gennaio 2021, mentre l’inflazione dei prezzi alla produzione è leggermente accelerata. Mentre in Germania il miglioramento delle condizioni dell’offerta ha contribuito ad un marcato raffreddamento delle pressioni sui prezzi in tutta la produzione di merci settore. Nel frattempo le aspettative delle imprese sono migliorate.

  • Il vero parametro dimenticato: l’occupazione

    La ricorrenza di un anno dall’inizio della pandemia dimostra in modo inequivocabile come questo sia passato inutilmente essendo il nostro Paese ripiombato nelle medesime condizioni del 2020, segno indiscutibile del fallimento complessivo di una compagine governativa e dirigente nazionale.

    Anche la semplice opportunità di organizzare un piano vaccinale adeguato, da allestire ben prima della stessa disponibilità, è andata perduta in considerazione dei risultati ottenuti invece da Stati Uniti, Gran Bretagna e di Israele i quali, dimostrando un pragmatismo salvifico, hanno allestito per tempo le strutture idonee ad una vaccinazione collettiva 24 ore al giorno.

    In Italia si è dato grande risalto invece al contributo creativo di Boeri per la creazione della Primula la quale, assieme ai banchi a rotelle, rappresenta il simbolo di un fallimento culturale, manageriale e programmatico del governo uscente. Un fallimento talmente clamoroso da offrire la possibilità a Mattarella di un intervento ormai improrogabile.

    Con l’arrivo finalmente alla guida del nostro Paese di Mario Draghi si rimane sempre ed ancora in attesa di quel cambio di passo soprattutto come espressione di nuove professionalità le quali invece, attraverso le proprie esternazioni, purtroppo offrono l’impressione di essere state eccessivamente considerate. Non passa giorno, ma potremmo dire ora, in cui non si possa leggere un fiume di roboanti dichiarazioni relative alle opportunità che la disponibilità del risorse finanziarie del Recovey Fund offrirà all’annoso paese, tali da sembrare addirittura illimitate.

    Il responsabile della digitalizzazione, il ministro Colao, afferma come lo sviluppo digitale, che di per sé rappresenta un supporto all’ economia reale, non possa che avere come centralità i giovani i quali addirittura vengono indicati come i datori di lavoro del ministro stesso. Un’affermazione intrisa di una retorica imbarazzante e figlia di un atteggiamento snobistico insopportabile.

    La stessa generale indeterminatezza emerge per la transazione energetica i cui contenuti, ma soprattutto i semplici perimetri, non risultano chiari se non quelli di abbracciare un’ipotetica economia a zero emissioni. Dimenticando come le auto elettriche necessitino di materie prime che vengono estratte da bambini schiavi nel Congo ed attraverso trivellazioni che vanno anche 100 km sotto la crosta terrestre e quindi molto più invasive spesso della stessa estrazione del petrolio.

    Sembra incredibile come in tutte queste dichiarazioni siano omesse le caratteristiche dell’economia reale, della sua articolata espressione come l’individuazione di supporti necessari a sostenerla dopo un anno di apnea economica.

    In questo senso e tornando quindi alla realtà, un primo intervento reale e “privo di retorica” potrebbe essere definito quello di posticipare di 24 mesi i termini di inizio del rientro dei finanziamenti erogati grazie alle garanzie offerte da Cassa Depositi e Prestiti (CDP) anche in considerazione del prolungarsi della pandemia ben oltre le più pessimistiche previsioni. Questa sarebbe la prima opzione da rendere operativa per offrire alle PMI la possibilità di un futuro meno angosciante in rapporto alle scadenze finanziarie e ad un mercato che stenta a riprendersi.

    Emerge tuttavia tristemente chiara la mancanza di una visione economico strategica di sviluppo complessivo e quindi, In altri termini, soprattutto l’adozione di un modello economico di riferimento attraverso il quale si possa determinare la crescita culturale ed economica di un paese di qui ai prossimi 20 anni (18.05.2020 https://www.ilpattosociale.it/attualita/i-trend-di-crescita-del-pil-netto/).

    Da tutte le dichiarazioni, poi, dei ministri emerge evidente come venga omesso in modo incredibile l’effetto fondamentale di questa scelta di un modello economico e di una strategia di sviluppo: cioè la ricaduta occupazionale.

    Proprio in rapporto alla possibilità di ottenere dei finanziamenti europei sarebbe fondamentale indicare la scelta di un modello economico o quantomeno la transazione tra due e contemporaneamente indicare la ricaduta occupazionale in rapporto non solo alla crescita nominale del PIL ma soprattutto alla sua qualità. In questo senso giova ricordare, infatti, come la crescita del sistema industriale italiano rispetto a quello dei servizi e dello stesso turismo assicuri una ricaduta occupazionale sicuramente superiore e di conseguenza da privilegiare con supporti finanziari fiscali e normativi.

    L’evidente omissione degli effetti occupazionali nasce evidentemente anche dalla difficoltà nel quantificarli, di certo omettendolo si evita anche di dichiarare la scelta del modello economico da perseguire il quale evidentemente risulta ancora sconosciuto o incerto.  Le stesse dichiarazioni del ministro Brunetta assumono il valore di un semplice attestato di presenza in quanto si parla di nuovi concorsi digitali per ringiovanire la pubblica amministrazione. Quando dovrebbe, invece, porre fine allo sfruttamento della pubblica amministrazione nei confronti dei lavoratori precari a vita offrendo per chi ha rapporti di collaborazione da oltre 10 anni un contratto di durata pari agli anni di precariato all’interno dei quali successivamente svolgere tutti gli opportuni processi di aggiornamento ed integrazione necessari. La pubblica amministrazione non può rappresentare la prima fonte di precariato in Italia come invece risulta adesso.

    Un obiettivo che dovrebbe essere condiviso anche dalle imprese alle quali dovrebbe essere data la possibilità di trasformare tutti o quantomeno una parte di quei contratti stagionali o interinali non rinnovati durante la pandemia in contratti a tempo prima determinato e successivamente indeterminato.

    A differenza di quanto afferma Bonomi, presidente di Confindustria, che individua in modo abbastanza grossolano nella necessità di licenziare per poi assumere la via della nuova crescita economica. In questo contesto allora anche per le aziende industriali sarebbe opportuno rivedere il piano di rientro di quei finanziamenti garantiti da CDP posticipandolo di 24 mesi. In questo modo si potrebbe cominciare a stabilizzare attraverso questo supporto creditizio e magari fiscale i lavoratori stagionali all’interno di un’economia che sembra dare i primi sintomi di crescita e poi successivamente trasformarli a tempo indeterminato. Un’opportunità che deve partire dalla evidente necessità di ridurre la filiera produttiva e di offrire un supporto fiscale e normativo alla produzione italiana espressione del made in Italy (05.03.2020 https://www.ilpattosociale.it/attualita/made-in-italy-valore-economico-etico-e-politico/).

    Una strategia espressione di una ritrovata centralità dell’economia industriale ma che anche potrebbe essere l’emulazione della strategia statunitense del nuovo presidente Biden che tanto piace al mondo progressista.

    Quest’ultimo, infatti, riproponendo la tutela del made in Usa attraverso un protocollo più rigido unito all’invito per la pubblica amministrazione statunitense di utilizzare beni e servizi prodotti negli Stati Uniti dimostra la centralità nel pensiero della nuova amministrazione statunitense della produzione manifatturiera e nella creazione autoctona dei propri servizi.

    Sembra invece che l’alleanza tra una irresponsabile classe politica ed una classe dirigente sindacale ancora convinta di vivere negli anni 70, con il tacito consenso di Confindustria, espressione (molto più a livello di dirigenza che non di associati) di una visione sempre più speculativa che non di programmazione economica, stia portando il nostro Paese verso la perdita della più grandi opportunità per creare le condizioni di una crescita economica stabile la quale possa produrre delle ripercussioni occupazionali ed economiche, quindi inevitabilmente positive anche per i  consumi ed il turismo.

    Tutto quanto esca da questo perimetro delineato anche dall’amministrazione statunitense è espressione retorica di una banale classe politica supportata dalla illusione di risorse finanziarie europee inesauribili. Uno sviluppo economico privo di una contemporanea crescita occupazionale stabile assume le caratteristiche di una semplice crescita speculativa che trae la propria forza dalla compressione di diritti e retribuzioni.

  • Col Covid 1,7 milioni di assunzioni in meno tra aprile e giugno

    Dopo i dati Istat che segnalavano una perdita di 841.000 posti nel secondo trimestre 2020, l’Inps conferma il quadro preoccupante dello stato occupazionale dei salariati nel settore privato durante l’emergenza sanitaria. Le assunzioni – rileva l’osservatorio sul precariato dell’Inps – sono crollate dell’83% (il dato peggiore) ad aprile del 56% a maggio e del 40% a giugno per un crollo medio del 42% nel primo semestre del 2020. “Siamo sotto di circa 1,7 milioni di rapporti di lavoro attivati rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, con una caduta massiccia di nuove assunzioni e rinnovi di contratti a tempo determinato (circa 740 mila in meno) e assistiamo a un vero e proprio crollo dei contratti stagionali, a chiamata e in somministrazione” commenta la segretaria confederale della Uil Ivana Veronese.

    L’Osservatorio ‘Inps evidenzia a giugno un saldo negativo, fra contratti di lavoro cessati e nuove assunzioni, di 818.000 posti. A farne le spese sono le posizioni contrattuali più fragili. Anzitutto i contratti a termine, che a giugno perdono 582.000 unità. Schiacciati dal peso dell’emergenza Covid anche i lavoratori intermittenti (-103.000), i somministrati (-156.000) e gli stagionali (-232.000).

    Resta invece positivo, pur continuando a ridursi, il saldo cessazioni/assunzioni nei rapporti di lavoro a tempo indeterminato che a fine semestre è di +232.000 posizioni. Positivo anche l’apprendistato con un saldo di +23.000 unità. Sulla tenuta dei contratti a tempo indeterminato incide in maniera sostanziale l’effetto del divieto di licenziamento per ragioni economiche, divieto che è entrato in vigore a marzo con il decreto “Cura Italia” e poi riconfermato dal Dl “Rilancio”. Infatti, evidenzia l’Inps, “nel quadrimestre marzo-giugno” la diminuzione delle cessazioni dei rapporti di lavoro “è stata particolarmente accentuata” ovvero -44% e i licenziamenti per ragioni economiche sono diminuiti del 72%. Ma cosa accadrà quando verrà meno il blocco dei licenziamenti? Si chiedono i sindacati e non solo. “O il Paese sarà pronto per la ripresa oppure dovremo fare i conti con un problema sociale senza precedenti” dice Veronese.

    La crisi economica prima e l’emergenza sanitaria dopo hanno influito negativamente anche sulle trasformazioni dei contratti di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato, che nel periodo gennaio-giugno 2020 sono risultate in flessione rispetto al 2019 (-32%; -42% per il mese di giugno). L’impatto negativo è ridimensionato solo dal fatto che si arriva da un 2019, durante il quale il volume delle trasformazioni era eccezionalmente elevato anche per effetto delle norme del “Decreto dignità”.

  • L’indebita appropriazione

    Ad ogni pubblicazione dei dati economici relativi alla crescita economica o ad una eventuale stagnazione, o peggio recessione, come all’andamento dell’occupazione, si assiste da oltre vent’anni anni alla ricerca della subdola appropriazione ed interpretazione di questi dati per avvalorare le strategie economiche del governo in carica o dell’opposizione. Un’appropriazione decisamente indebita che risponde a logiche politiche più che all’interpretazione legittima della fotografia che tali dati dovrebbero indicare. In questo senso, infatti, questi comportamenti trovano una ulteriore conferma di fronte all’andamento dell’occupazione reso noto recentemente dall’Istat.

    Il governo in carica, ed i partiti che lo sostengono, afferma la validità delle scelte strategiche come il reddito cittadinanza e quota 100 indicando nell’aumento dell’occupazione confermati all’Istat la prova evidente. Viceversa l’opposizione ne contesta il valore reale in quanto considerati frutto di dinamiche economiche esterne alla politica del governo in carica.

    In questo senso può risultate utile ma soprattutto intellettualmente onesto effettuare un semplice confronto tra i dati odierni e quelli dell’anno precedente per il medesimo periodo. Nel 2019 l’Istat nel periodo marzo-maggio certifica la crescita degli occupati in 167.000 unità. Nel 2018 la crescita e l’occupazione risultarono del +0.5% con 114 000 nuovi occupati. Il tasso di occupazione rilevato dall’Istituto di statistica italiano per il 2019 è del 59.1% (+0,1%) a fronte di una crescita nel 2018 degli occupati al 58,8% (+0,9%).

    Sempre nel 2019 le persone in cerca di occupazione si sono ridotte di 51.000 unità (-1,9%) mentre nel medesimo periodo del 2018 le persone in cerca di occupazione erano in diminuzione del 2,9%. Nello scorso anno, quindi, con gli effetti della finanziaria approvata nel 2017 dal governo Gentiloni, vennero creati 70.000 posti di lavoro a tempo determinato e 62.000 a termine mentre nell’anno in corso risultano 96.000 i contratti a tempo indeterminato e passano a 27.000 i lavoratori indipendenti legati probabilmente alla nuova legislazione relativa alle partita IVA. Viceversa risulta stabile nel 2019 il numero degli inattivi che invece era in diminuzione  del -1,5 % per il  2018.

    Questa semplice analisi comparativa dimostra come non si registri un sostanziale scollamento nelle dinamiche occupazionali per il medesimo periodo dell’anno anche se con governi diversi e di orientamento politico opposto. Molto probabilmente, infatti, risulta più significativo il periodo di rilevazione in quanto fortemente legato ed influenzato dai contratti stagionali più di quanto possano risultare  le politiche economiche dei diversi governi. In altre parole, assistiamo ad una vera e propria appropriazione indebita, precedentemente da parte del governo Gentiloni successivamente da parte del governo in carica, dei trend occupazionali i cui quadri risultano invece sostanzialmente indipendenti (e per fortuna) dalle politiche dei governi stessi. Governi che, nel caso dell’ultimo in carica, dovrebbero preoccuparsi della riduzione della stima di crescita per il 2020 che passa dallo 0,6 % allo 0,3% (-50%!!!) a fronte di ridicole previsioni di un +3% prevista nell’ottobre 2018 da Savona (la cui competenza è stata premiata con la presidenza della Consob) collegate alle altrettanto fantasiose previsioni di una crescita per l’anno in corso del +1.4 %, ossia quattordici (14)  volte inferiore la rilevazione attuale (+0,1/0,0%).

    Ancora una volta si assiste a questa appropriazione indebita da parte dell’intera classe politica legata a una manifestazione di disonestà intellettuale nell’ambito economico che ha accomunato tutti i governi degli ultimi vent’anni. Con l’aggravante, attribuibile a quest’ultimo in carica, di negare persino l’evidenza dei trend economici decisamente preoccupanti probabilmente perché incapace di comprenderla.

  • Nuova occupazione, troppo entusiasmo

    I nuovi dati resi noti e relativi alla disoccupazione del mese di novembre dimostrano un trend crescente di nuovi occupati. Non esiste giornale che non metta in evidenza il successo del Jobs Act e di conseguenza della politica governativa. Al di là del fatto che buona parte di questi contratti risultano a tempo determinato (oltre il 90%), di medio e basso livello e con retribuzione ad esso adeguata una riflessione viene spontanea.

    Da gennaio 2018 scade infatti la decontribuzione per quanto riguarda i nuovi contratti di lavoro sostenuti attraverso la fiscalizazzione degli oneri contributivi del Jobs Act (e quindi a carico dell’intera collettività) ma non della FcA per esempio, che non partecipa alla creazione del patrimonio fiscale in quanto ha delocalizzato la propria sede fiscale a Londra. Le aspettative parlano di un rinnovo di questa decontribuzione per il governo a venire a sostegno dei contratti già in essere. Risulta interessante comunque il trend di crescita che presenta connotati simili a quello del primo anno della entrata in vigore della riforma (2015) in cui il Jobs Act manifestò la propria e massima potenzialità di decontribuzione. Un entusiasmo causato e ingannato da numeri legati molto semplicemente alla conversione di contratti in essere in nuovi contratti sfruttando la decontribuzione massima nel loro primo anno di entrata in vigore della riforma. In questo senso va ricordato infatti come durante il 2015, al netto delle riconversioni contrattuali, i nuovi posti di lavoro creati furono inferiori rispetto a quelli del 2014. Risulta quindi molto probabile che nei mesi di novembre ed ancor più di dicembre assisteremo ad un’esplosione di contratti in vista della fine della contribuzione relativamente ai nuovi contratti del 2018. Prima di esprimere giudizi di merito bisognerebbe attendere i dati definitivi. E’quindi abbastanza azzardato, se non privo di fondamento, associare questo aumento occupazionale ad una manifestazione di ipotetica ripresa economica e di stabilizzazione.

  • La rivoluzione tecnologica e l’impatto sull’occupazione

    Il Consiglio francese d’orientamento per l’impiego è un organismo permanente di dibattito tra i principali attori del mercato del lavoro. La sua funzione è quella di stabilire delle analisi diagnostiche condivise e di formulare delle proposte di riforma. Recentemente ha adottato il terzo rapporto sulle conseguenze dell’automazione e della digitalizzazione sull’impiego e sul loro impatto sul lavoro. In un primo rapporto adottato nel gennaio dello scorso anno, il Consiglio ha dimostrato che circa la metà degli impieghi attuali in Francia conosce già e conoscerà una trasformazione significativa del loro contenuto. In un secondo rapporto approvato in settembre, il Consiglio ha identificato le competenze che saranno più mobilitate in un’economia digitalizzata e ha sottolineato lo scarto importante tra questi nuovi bisogni in competenze e quelle attualmente controllate. Lo sforzo da compiere – secondo il rapporto – è massiccio e urgente.

    Con il terzo rapporto ora approvato il Consiglio analizza l’impatto del progresso tecnologico sui modi d’organizzazione del lavoro e sulle situazioni delle persone che lavorano. Il rapporto mostra che la rivoluzione tecnologica attuale  permette e induce evoluzioni molto contrastate delle forme d’organizzazione del lavoro, sia che si tratti di forme molto flessibili, che di pratiche tayloriane spinte più avanti grazie alle tecnologie. Non c’è dunque un determinismo tecnologico. Lo studio quantitativo realizzato dal Consiglio sottolinea tuttavia che, per la maggioranza delle imprese, l’utilizzo delle tecnologie va nettamente di pari passo con delle organizzazioni del lavoro più flessibili. Il rapporto mostra anche che, al di là della diversità delle situazioni di lavoro, le tecnologie trasformano il lavoro. Lo studio quantitativo realizzato dal Consiglio dimostra che, più i salariati francesi lavorano in universi digitalizzati, più il loro lavoro diventa mediamente interessante, complesso e intenso. Tuttavia, quando il digitale è utilizzato quasi a tempo pieno, questa progressione si interrompe, cioè si inverte. Ma il lavoro resta nondimeno più interessante di quando non è digitalizzato.

    In conclusione, i progressi tecnologici modificano la distribuzione del lavoro nelle imprese, ma non sono associati più a un modello tipo d’organizzazione che a una evoluzione uniforme delle situazioni di lavoro. I progressi comportano delle opportunità, ma anche dei rischi, tanto per le imprese, che per i lavoratori. Sulla base di questa diagnosi, il Consiglio considera che il dialogo sociale costituisce la leva essenziale per accompagnare la mutazione digitale nelle imprese con tutte le sue conseguenze in termini d’evoluzione dei mestieri, d’organizzazione del lavoro, di contenuto e di situazioni del lavoro

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