Processi

  • In attesa di Giustizia: il marchese di Popogna ed altre storie

    “Se per qualsiasi infermità giudicata permanente o per sopravvenuta inettitudine un magistrato non può adempiere convenientemente ed efficacemente ai doveri del proprio ufficio, è dispensato dal servizio previo parere conforme del Consiglio Superiore della Magistratura”.

    Fascisti, carogne, tornate nelle fogne! Sembra già di sentir tuonare la Giunta dell’ANM ma…ma questo non è il testo del tanto avversato disegno di legge che mira ad introdurre i test psico attitudinali, bensì il primo comma dell’articolo 3 del decreto legislativo n. 511/1946 che declina le Guarentigie della Magistratura, approvato su proposta e firmato dal Guardasigilli dell’epoca, Palmiro Togliatti. Ed è tutt’ora vigente.

    Le leggi ci sono e basta applicarle. Le Guarentigie non ne parlano ma i test psicoattitudinali appaiono indispensabili per darvi attuazione: con cadenza periodica oppure secondo le necessità nel corso della carriera; il testo licenziato dal Consiglio dei Ministri è sicuramente migliorabile e dovrebbe essere proprio l’ANM ad offrire utili contributi prendendo le mosse proprio dalle Guarentigie senza fingere di ignorarne le disposizioni più scomode; quanto alla opposizione, è il momento di ispirarsi, in generale,  al pensiero di grandi statisti del passato piuttosto che a quello di nuovi campioni della sinistra come Fedez e Sumahoro.

    Ed il Marchese di Popogna cosa c’entra in tutto questo? Sembra il titolo di un film di Alberto Sordi ma è il titolo nobiliare, per l’esattezza “Marchese di Popogna e dello Andirivieni” di un magistrato autoproclamatosi tale, che pretendeva di farsi chiamare “Marchese” dagli avvocati e si era fatto stampare biglietti da visita con tanto di corona a dodici perle, uno che fece proposta di nozze ad una giovane insegnante con il garbato approccio: “Signorina, siete bona e mi avete fatto eccitare”: fu sospeso dopo una visita medica disposta dal Capo del suo Ufficio ma solo per un anno…infine, dopo altri tre anni, si dimise ma solo a condizione (esaudita) di essere insignito del titolo di Commendatore della Repubblica al Merito.

    Vi sono molti altri esempi di appartenenti all’Ordine Giudiziario che, in virtù della garantita inamovibilità e della mancanza di test, prima di essere dispensati dal servizio hanno dispensato giustizia a modo loro per anni: ce ne sono voluti dieci al CSM per decidere il caso di uno che aveva accumulato un arretrato di quasi novecento fascicoli, mai esaminati, e che al concorso per la Polizia di Stato era stato scartato proprio perché, sottoposto ai test (in quel caso previsti) aveva evidenziato “fragilità emotiva”.

    Un altro ancora, ufficialmente dichiarato infermo di mente nel corso di un giudizio, prima che si concludesse l’iter per la destituzione, collezionando con il passar del tempo una promozione dopo l’altra, è andato a riposo per raggiunti limiti di età con il titolo onorifico di Primo Presidente aggiunto della Corte di Cassazione.

    C’è stato anche chi si era convinto che nel ristorante in cui si recava abitualmente gli mettessero i chiodi nella minestra e aveva denunciato il titolare. E che dire di quello che si aggirava per il suo tribunale gridando “A noi le belle femmine, schiaffoni per tutti” ed in udienza annunciava che “il santo ha detto che oggi sono schiaffoni per tutti”?

    Finiamola qui, sono solo alcuni dei molti esempi. Purtroppo l’infermità non può consistere (almeno per il C.S.M.) in semplici estri o bizzarrie ma deve essere conclamata come un irreversibile disturbo della personalità: senza i test ciò è di fatto impossibile perché nessuno psicoterapeuta si presterebbe a formulare una simile diagnosi in assenza di un quadro normativo che regoli la materia e con il rischio – in caso di errore – di essere chiamato a rispondere delle conseguenze.

    A gennaio si è concluso il reclutamento del Comando Subacqueo degli Incursori della Marina e su oltre 1.300 candidati meno dell’1% ha ottenuto il brevetto e la consegna del prestigioso basco verde dei COMSUBIN: tutti sono stati sottoposti a severi test tra cui quelli psicoattitudinali e nessuno – nemmeno tra le centinaia ritenuti non idonei – si è lamentato. Ma questa è un’altra storia.

  • In attesa di Giustizia: bene ma non benissimo

    Carlo Nordio ha preannunciato che questa settimana porterà in Consiglio dei Ministri la bozza di disegno di legge che prevede la somministrazione di test psico attitudinali per i magistrati che dovrebbero consistere sostanzialmente in una terza prova da sostenere dopo avere superato quelle scritte e l’orale del concorso.

    L’ Associazione Nazionale Magistrati, non c’è bisogno nemmeno di dirlo, strepita sostenendo che si tratti di una prova irragionevole e – forse – non ha tutti i torti seppure per ragioni diverse da una trasparente tutela della casta.

    In effetti – se quello nei termini riassunti sarà il criterio – la modalità è poco convincente: innanzitutto, se proprio si deve, sembrerebbe meglio che i test vengano somministrati prima di partecipare al concorso e non dopo per così evidenti ragioni che non vale neppure la pena di enumerarle: se, poi, il neo magistrato dovesse mostrare segni di un sopravvenuta inidoneità o squilibrio tutto ciò potrà ben essere rilevato durante il periodo di tirocinio da coloro a cui è affidato con le necessarie conseguenze.

    In secondo luogo, non è da escludere che una deriva psico fisica si possa verificare più avanti nel corso della carriera ed, allora, una soluzione maggiormente sensibile all’esigenza di garantire che il destino giudiziario dei cittadini sia affidato a magistrati compos sui può essere quella ipotizzata già molti lustri addietro da un avvocato piacentino, Carlo Tassi, e proposta senza fortuna nella sua veste di deputato del Movimento Sociale.

    Per quello che, con una certa frequenza, si annota in questa rubrica casi meritevoli di un check up non mancano e, del resto, è nella natura delle cose che un uomo possa subire un decadimento mentale o fisico che lo renda inabile a determinate mansioni: non c’è nulla di cui sgomentarsi, test analoghi sono previsti in altri Paesi come la Francia e la Germania, nel nostro li fanno i militari, gli appartenenti alle forze dell’ordine e nessuno si indigna se viene richiesto di rinnovare periodicamente la patente di guida o il porto d’armi: si tratta solo di prendere le misure necessarie a bilanciare il principio di inamovibilità dei funzionari pubblici prendendo le dovute distanze dal pur brillante pensiero espresso da Erasmo da Rotterdam nel suo “Elogio della follia”.

    Nel frattempo prende quota l’indagine della Procura di Perugia sugli accessi abusivi alle banche dati e il possibile “dossieraggio” ad opera di un militare della Guardia di Finanza distaccato alla Direzione Nazionale Antimafia e dal suo superiore, il P.M. Antonio Laudati: tra sussurri e grida, più che altro uno scaricabarile tra i personaggi coinvolti, spicca la scelta di quest’ultimo di avvalersi della facoltà di non rispondere all’interrogatorio  opportunamente disposto dal Procuratore Capo umbro, Raffaele Cantone.

    Lo abbiamo chiarito più volte: il diritto al silenzio per l’accusato è un canone costituzionale implicito nel secondo comma dell’articolo 27 ed espressamente previsto dal codice; essendo l’interrogatorio un atto di natura essenzialmente difensiva, ognuno ha diritto di difendersi come ritiene più opportuno, anche tacendo.

    L’esercizio di questo diritto spetta, ovviamente, anche a Laudati ma non è trascurabile il dettaglio che al silenzio di fronte a Cantone abbia fatto seguire la distribuzione, tramite il suo avvocato, di una nota scritta in cui, viceversa, risponde dettagliatamente alle contestazioni che erano state formulate nell’invito a comparire in Procura e che avrebbero costituito il fil rouge dell’interrogatorio senza trascurare qualche bordata all’indirizzo dell’allora Procuratore Nazionale…ed il trasferimento di una delicata fase investigativa, che dovrebbe essere scongiurato, dalle aule di tribunale alla stampa a “redazioni unificate” è servito.

    Bene ma non benissimo, anche questa settimana ed in attesa di giustizia le ombre sono più delle luci: non c’era da aspettarsi nulla di buono, particolarmente in periodo di Passione quando si celebra il ricordo del più clamoroso errore giudiziario della storia.

    Buona Pasqua a tutti.

  • In attesa di Giustizia: lo show dei record

    Ci sono primati da Guinness di cui si farebbe volentieri a meno ma tant’è, se non proprio celebrati, devono almeno essere documentati.

    Il merito, si fa per dire, questa volta va ascritto al P.M. anglo-partenopeo Henry John Woodcock, già campione europeo di competenza creativa ai tempi in cui era in servizio a Potenza quando, saccheggiando le riviste di gossip piuttosto che informative (peraltro inesistenti) della Polizia Giudiziaria diede vita alla celeberrima indagine nota come “Vallettopoli”: un feuilleton in salsa Dagospia, frantumatosi in rivoli investigativi distribuiti a manciate in diverse Procure della Repubblica che, dopo aver sbirciato dal buco della serratura delle discoteche alla moda cosa facevano nel tempo libero veline, calciatori, nani e ballerine, ha esitato qualche modesta condanna per piccole cessioni di cocaina ad uso “socializzante” ed, in compenso, uno sputtanamento ad alzo zero per fatti  totalmente privi di rilevanza penale.

    Ma è con l’indagine “CONSIP” che sono stati raggiunti risultati da pessima gestione investigativa posti su vertici che mai nessuno aveva mai osato scalare: tutti assolti gli imputati e condannati solo i responsabili delle indagini…game, set, match! Nemmeno quelle Procure che nascondono i testi a discarico, almeno per ora, erano riuscite a tanto.

    Qualche esempio può illustrare plasticamente la manettara approssimazione con cui è stato utilizzato il materiale raccolto, tra l’altro, invadendo l’esistenza dei cittadini con migliaia di costose quanto inutili intercettazioni: secondo Johnny Woodcock in una di queste – sfruttata come caposaldo dell’accusa – sarebbe risultato che in un’azienda fosse stato addirittura istituito il ruolo di “responsabile del crimine”, dunque un’impresa  a matrice esclusivamente delinquenziale.

    Da un magistrato bilingue ci si sarebbe aspettato di meglio: un riascolto dell’intercettazione ha chiarito senza lasciare spazio a dubbi che la funzione cui si alludeva era quella di “responsabile cleaning”, cioè a dire l’addetto alle pulizie. Ci sarebbe da ridere, tutti tranne Woodcock che all’evidenza, ha una conoscenza spannometrica anche dell’inglese, se non fosse che c’è chi sulla base di accertamenti tanto grossolani ha subito mesi di carcerazione come l’imprenditore Romeo: sei in galera ed altrettanti agli arresti domiciliari. Complimenti vivissimi anche al GIP che ha accolto le domande di arresto, per non parlare di quello che ha disposto rinvii a giudizio fondati su di un vuoto torricelliano…

    L’evanescenza dell’impianto probatorio, forse, era palese anche agli inquirenti e sin da subito tanto è vero che sono stati chiamati in soccorso i più fidati lacchè della carta stampata, con fuga pilotata di notizie che avrebbero dovuto restare riservate (inutile fare nomi delle redazioni destinatarie: possono facilmente immaginarsi e, comunque, risultano dalla sentenza): ecco, allora, i titoli cubitali e gli articoli copia e incolla di una informativa degli uomini di Woodcock contenente grossolane falsità.

    Su questa melma sono state scritte paginate di disinformazione e persino un libro; è uno Show dei record che fa inorridire ma non è finita: conclusa questa prima tranche  del processo a Roma, una seconda è ancora in corso a Napoli con immutati protagonisti ed interpreti e può immaginarsi con quale credibilità agli occhi del Tribunale, a tacere del fatto che il P.M. – sempre Enrico l’Inglesino – non ha più l’interesse a stabilire la verità ma quello di ottenere condanne per provare a salvare se stesso.

    E il C.S.M.? Tutto tace, mentre i cittadini si pongono delle domande: che garanzie si potranno mai avere se si dovesse diventare bersaglio in una delle sbilenche inchieste di un magistrato incorso in incidenti di percorso così gravi e senza precedenti nel mondo Occidentale? Se Roma piange, Sparta non ride ma questa è una piccola consolazione solo per la devastata Repubblica della Procura di Milano.

  • In attesa di Giustizia: il carcere è anche questo

    Con queste parole, la voce incrinata, il Direttore di San Vittore, meritatamente insignito dell’Ambrogino d’oro, ha congedato il pubblico esterno e i detenuti presenti per la tradizionale proiezione della Prima della Scala nella Rotonda dell’istituto penitenziario interrotta durante il secondo atto: un’impiccagione nel quinto reparto e chi conosce un po’ i movimenti del carcere aveva già capito l’allarme, le corse, l’agitazione.

    Un ennesimo suicidio che come ognuno ha ragioni proprie e va rispettato in quanto dramma unico e l’aggettivo “ennesimo” vale solo a sottolineare uno sgomentevole dato quantitativo: sessantasei da inizio anno, ma che contribuisce a farci sentire tutto il peso della attuale situazione delle carceri. Lo aveva detto proprio il Direttore parlando di una situazione drammatica con oltre mille detenuti che non rallentano l’impegno per andare avanti, continuando a credere in un lavoro di grande sacrificio e, ovviamente, nella necessità di portare dentro al carcere la società per momenti di riflessione. Un contributo in tal senso lo diede prima della pandemia proprio il Gruppo Toghe & Teglie, che cura in queste pagine la rubrica di cucina, con due cene aperte ad un pubblico esterno, nel giardino della sezione femminile, eventi dal titolo simbolico “A Tavola con la Speranza”.

    La contraddizione è esplosa in occasione di una ricorrenza in cui va tutto bene, o si finge che così sia, pur consapevoli – e soprattutto noi avvocati lo siamo – che dietro alle cancellate dei reparti ci sono  disperazione,  sovraffollamento,  materassi per dormire per terra, i blindi chiusi, la carenza di igiene, una vita invivibile che aggiungono pene a quella della privazione della libertà andando in senso opposto al progetto di rieducazione dei condannati che dovrebbe essere coltivato nell’interesse comune, nell’ottica di un recupero non solo di esseri umani ma di quella sicurezza che – a parole – sembra stare a cuore a tutti.

    Sessantasei vite umane, un atroce conteggio che non può essere liquidato come un arido bilancio consuntivo di fine anno quando è in conto l’esistenza di persone affidate alla cura di uno Stato che dovrebbe restituirle migliori alla collettività: un elenco che si allunga inesorabilmente, nell’indifferenza di governi che guardano al pianeta carcere con cinica indifferenza, spesso utilizzandolo come emblema di una recuperata incolumità dei cittadini nella salvifica funzione di discarica sociale meramente afflittiva.

    Ora vi è solo da augurarsi che questo evento drammatico, verificatosi in un momento particolare, sia in grado di scuotere le coscienze di chi continua a credere che le carceri possano essere stipate all’inverosimile, e non solo nell’interesse della popolazione detenuta in senso stretto.

    Infatti, oltre ai carcerati non si deve dimenticare tutto il personale, civile ed in divisa, tutti quelli che entrano in carcere anche solo per dare una mano, e che fanno sì che San Vittore – e come San Vittore tutti gli altri Istituti non uno escluso – ogni giorno stia in piedi, nonostante un destino avverso. La cosiddetta società civile dovrebbe mobilitarsi ed esserci, fare proposte in ogni occasione in cui si parli dei progetti positivi che in carcere malgrado tutto esistono, evitando che i penitenziari restino invisibili ai più: strutture lontane dagli occhi e dal pensiero di chi non se ne vuole occupare.

    Ed è a costoro che si deve ricordare che una detenzione dignitosa è un diritto e che devono essere attivati gli strumenti affinché condizioni disumane cessino e prima ancora che sia definitivamente abbandonata la visione carcerocentrica di una giustizia penale che guarda poco o nulla alla effettiva dissuasione e meno ancora al fattore rieducativo della pena proseguendo nello sterile percorso di affrontare ogni emergenza con l’introduzione di nuovi reati o inasprendo le pene per quelli già previsti mentre non si può continuare a fare finta di niente, non più.

  • In attesa di Giustizia: Abracadabra

    Abhadda kedhabrha in aramaico vuol dire “sparisci come questa parola” e, probabilmente, il vocabolo “abracadabra”, in uso nella magia mistica e come noi lo conosciamo, deriva proprio dalla versione nella antica lingua semitica.

    Oggi è usato universalmente e senza altre traduzioni come formula magica: magia bianca o magia nera? Nel dubbio, pensando al significato originario, se qualcuno la pronuncia in vostra presenza – peggio che mai se indirizzata proprio a voi – prestate la massima attenzione perché, forse, sta tentando di uccidervi…

    Con la magia nera non si scherza, è l’insegnamento che tramite questa rubrica perviene dalla Autorità Giudiziaria di Genova nell’ambito di una vicenda cui si era già alluso con sintesi in un numero precedente. Ora ci sono degli sviluppi e per questo seguito non possono prendersi in considerazione altre reali possibilità che, per equivoco, un Pubblico Ministero di Genova invece che le sue compresse per la pressione o la prostata, abbia assunto peyote o LSD proveniente dall’Ufficio Corpi di Reato.

    Comunque sia, anche questa settimana si registrano iniziative (e decisioni) assunte con sprezzo del ridicolo; ricapitoliamo: un’avvocata genovese viene imputata per avere sottratto un milioncino abbondante di euro ad un’anziana signora per la quale svolgeva la funzione di amministratrice di sostegno. E fin qui tutto normale, anzi, per quanto appreso sembra che le prove a carico della professionista siano piuttosto solide ma nel corso delle indagini è emerso anche un fatto piuttosto singolare e cioè che l’imputata, il cui telefono era intercettato, intentò l’omicidio della sua assistita dando mandato…a un sicario di professione, qualcuno reclutato nel dark web? Nossignori, complice dell’avvocata, che contribuisce acquistando delle candele rituali nere, diventa una fattucchiera esperta in voodoo.

    Spille, spillette e spillettoni ma, fortunatamente e come prevedibile, la vittima predestinata sopravvive alle punzecchiature di bamboline e feticci: sarà che a Genova non ci sono le esperte di Port au Prince ma il Pubblico Ministero (sempre immaginandolo sotto l’effetto non voluto di sostanze stupefacenti) chiede il rinvio a giudizio accusando di tentato omicidio l’avvocata, mentre la maga la fa franca per ragioni – a questo punto – ancor meno comprensibili.

    Il processo si è tenuto nei giorni scorsi, sebbene una data in prossimità di Halloween sarebbe risultata più consona ai fatti, e il Giudice ha pronunciato una sentenza di condanna non solo per la malversazione dei denari ma anche per il tentato omicidio pur ritenendo che il reato fosse da considerare impossibile (bontà sua, la magia nera non è stata considerata un mezzo idoneo) ma che il comportamento dell’accusata sia espressivo di pericolosità sociale giustificando un anno e mezzo di libertà vigilata, probabilmente con il divieto di frequentare medium, negromanti ed indovini.

    Insomma, un omicidio impossibile perché tentato con mezzi che non consentono di ritenere neppure l’esistenza di un “quasi reato” e, francamente, vi è da dubitare anche di una effettiva, maggiore, pericolosità sociale di colei che – tutt’al più – deve considerarsi una disonesta amministratrice: vi è, in sostanza, da dubitare altresì che vi fossero i presupposti anche per la libertà vigilata.

    Però, non si sa mai e lo ha detto la Procura di Genova: se vi capitasse di essere bersagliati da qualche preoccupante “abracadabra”, sappiate di essere nelle condizioni per reagire in stato di legittima difesa.  Però non sparate perché con le streghe l’unico metodo efficace ma piuttosto complicato è il rogo: meglio, allora pronunciare un più efficace scongiuro “aglio e fravaglia, fattura ca nun quaglia, corna e bicorna” e, senza restare in attesa,  farvi Giustizia da soli.

  • In attesa di Giustizia: contrappasso

    C’è qualcosa di allegorico, cabalistico, nella parabola professionale e di vita di Piercamillo Davigo che da magistrato del Pubblico Ministero aveva promesso di “rivoltare l’Italia come un calzino” magnificando lo standing dei suoi colleghi di funzione: “i magistrati sono il meglio della società civile ed i pubblici ministeri sono il meglio del meglio del meglio”, poi da giudicante aveva presieduto i Collegi di Corte d’Appello e di Cassazione  trasformandoli in altrettanti Comitati di Salute Pubblica; del resto, ipse dixit, non ci sono innocenti ma solo colpevoli che non sono ancora stati scoperti. Anche lui, viene ora da chiedersi?

    L’inesorabile trascorrere degli anni gli ha fatto terminare anzitempo la consiliatura al C.S.M. e da pensionato ha intrapreso quella di editorialista per un quotidiano giacobino che, nella versione cartacea, può essere destinato solo agli scopi meno nobili. Ma la parabola non si era ancora conclusa: l’ultima delle esperienze nel mondo della giustizia l’ha fatta in un ruolo che mai avrebbe immaginato, a stretto contatto – orrore! – con un avvocato cui ha affidato il compito di difenderlo smentendo se stesso a proposito del giudizio di appello, ritenuto superfluo e causa di malfunzione del sistema, ma che ha già preannunziato dopo la sua condanna.

    Quest’ultimo segmento di vita è stato scandito anche da correlazioni enigmaticamente realizzatesi: Davigo è stato rinviato a giudizio proprio nel giorno in cui ricorreva il trentennale dell’arresto di Mario Chiesa che diede inizio alla macelleria giudiziaria di “Mani Pulite” di cui è stato indiscusso protagonista e la sua sentenza di condanna è stata pronunciata mentre si celebrava la memoria di Silvio Berlusconi che, praticamente da solo, ha dato per decenni motivo di esistere alla Procura di Milano ed alla “casella delle lettere” messa a disposizione dal Corsera: se si vuole sapere il perché e gli si vuole dare credito, basta leggere il primo libro intervista di Luca Palamara con Sallusti.

    Torniamo a Brescia: il momento della lettura di una sentenza è un passaggio di grande solennità che si ascolta in piedi e le prime parole sono sempre “In nome del Popolo Italiano…” dando corpo al canone 101 della Costituzione; in nome di quel Popolo, a rappresentarlo durante la pronuncia di condanna, vi era anche Francesco Prete, che è il Procuratore Capo di Brescia, a fianco dei suoi sostituti che avevano condotto le indagini ed il dibattimento: un gesto volto a dimostrare che in quell’Ufficio ci si era mossi con iniziative condivise e probabilmente anche sofferte perché rivolte nei confronti di un ex collega.

    Francesco Prete, ai tempi di Mani Pulite, era un giovane P.M. in forza proprio a Milano e la sua stanza era vicina a quella di Davigo ma non ha mai fatto parte del famoso (o famigerato) pool: lavoratore, equilibrato, studioso, il suo tragitto professionale lo ha portato a dirigere tre Procure (Vasto, Velletri ed infine Brescia) senza mai cercare il “colpo di teatro”, l’inchiesta sensazionalistica che aiuta la carriera o – comunque – offre notorietà e non l’ha perseguita nemmeno ora che le regole di competenza per i processi ai magistrati assegnano a Brescia i procedimenti a carico di quelli milanesi e proprio la sua Procura di un tempo rivela l’esistenza di un verminaio di prassi opache, per usare un termine garbato, di cui si è sempre avuto il sospetto: Francesco Prete ha mantenuto un basso profilo con interviste ridotte al minimo, riserbo e parole misurate che dovrebbero essere patrimonio di chi svolge ruoli sensibili come il suo.

    Contrappasso anche in quest’ultima immagine che raffigura due uomini divenuti inaspettatamente avversari e due modi diversi di interpretare la funzione giurisdizionale mentre un comunicato della Giunta dell’Unione Camere Penali, senza (troppo) sarcasmo, auspica che nel futuro di Davigo, ora che ha scoperto il diritto all’appello, vi siano Giudici con una concezione delle impugnazioni diversa dalla sua.

    Ci mancava la solidarietà, obiettivamente un po’ di maniera, del nemico di sempre per trasformare in fiele il contenuto del calice già amarissimo toccato in sorte all’ultimo (speriamo) dei grandi inquisitori.

    Un augurio di buona sorte, nel rispetto della presunzione di innocenza non si nega a nessuno e lo formuliamo anche noi ma quello in cui è inscritta la parabola discendente di Piercamillo Davigo è come un arazzo che, attraverso ironie e contrappassi, sembra intessuto di una Giustizia quasi poetica.

  • In attesa di Giustizia: giustizia vista mare

    Trani è una città meravigliosa, affacciata su un mare cristallino, ricca di storia, di cultura, di bellezze architettoniche: tra queste vi è Palazzo Torres, edificio del XVI secolo, dirimpettaio della Cattedrale romanica, adibito agli Uffici Giudiziari ed ospita una delle Procure più fantasiose della Repubblica specializzata in quella giustizia creativa di cui questa rubrica si è interessata alcune settimane fa. Creativa non meno che birichina, per usare un garbato eufemismo.

    Chi scrive ha sperimentato quasi tutte queste caratteristiche nel corso di oltre un lustro destinato prima alle indagini e poi alla celebrazione di un processo la cui impalcatura accusatoria era altrettanto eufemistico definire strampalata: proveniva conforto dalla vista dell’Adriatico dai finestroni dell’Aula dove si celebrano i processi penali e da un collegio difensivo di grande competenza e simpatia.

    Tra noi difensori diventati grandi amici, al piacere di condividere quella trasferta si aggiungeva però la preoccupazione per il destino del giudizio ma non tanto perché si dubitasse dell’esito favorevole quanto per le voci che si rincorrevano sistematicamente circa l’imminente arresto di alcuni magistrati locali e quello che ne sarebbe potuto derivare. Alla fine furono in tre: due P.M. ed il loro Capo, nel frattempo transitato a dirigere la Procura di Taranto (dove, pure, sembra abbia fatto danni) ma il nostro processo, sia pure tra molte difficoltà, era nel frattempo approdato alla scontata assoluzione di tutti gli imputati.

    Come si è anticipato, la fantasia non era mancata nemmeno nel formulare quelle imputazioni, nel solco di una tradizione dei Procuratori tranesi che sembra  privilegiare  l’estro del momento più che un coscienzioso studio del codice penale: dall’indagine sulle agenzie di rating, a quella nei confronti di Deutsche Bank per la vendita di titoli di Stato italiani, per proseguire con l’inchiesta sulle presunte pressioni di Silvio Berlusconi per la chiusura della trasmissione Annozero, passando per le investigazioni a carico di dirigenti dell’American Express per truffa e usura; ciliegina finale sulla torta, un’ultima sul legame tra vaccino e autismo. Cosa c’entrasse Trani in tutto questo non è neppure ben chiaro.

    Procedimenti, uno per l’altro, terminati con un nulla di fatto e tutti a firma del medesimo magistrato: uno score da fare impallidire persino Gigino De Magistris, meglio noto, ai tempi della sua esperienza catanzarese da P.M., come “Gigi Flop” o anche il Pubblico Mistero (senza la n!) in ragione della miserevole sorte delle sue elefantiache indagini.

    A Trani, però, come si è già annotato, sono anche birichini e altri due P.M. (uno è proprio l’eccentrico inquirente le cui gesta sono state poco sopra celebrate) sono stati recentemente condannati in via definitiva a severissime pene – quattro mesi uno e sei mesi l’altro – per avere interrogato alcuni testimoni cercando di ottenere la confessione di avere pagato delle tangenti con la moral suasion all’altezza di una caserma della gendarmeria di Ouagadougu e sollecitazioni a liberarsi la coscienza con frasi del tipo: “dal carcere c’è una visuale sul mare stupenda e, secondo me, col problema che ha le farebbe pure bene…”. A Trani sono vista mare anche le patrie galere.

    Delicatissimo, come direbbe Christian De Sica, se non altro in confronto ai metodi inquisitori dei domenicani.

    I lettori vorranno, a questo punto, sapere che destino attenda ora questi due: in galera non andranno perché la pena è con la condizionale e nel frattempo sono rimasti a svolgere le loro funzioni. D’altronde, c’è scritto in tutti i Tribunali che “La legge è uguale per tutti” …perché avrebbero dovuto essere discriminati rispetto ai colleghi di Milano che, peraltro, sembra si siano in tempi recenti “limitati” a nascondere le prove a discarico degli imputati e non ad estorcere confessioni? E sono rimati al loro posto.

    Riflettendo su usi e costumi “milanesi”, anche all’epoca di Mani Pulite si usavano metodi intransigenti per ottenere confessioni ma, se non altro, erano un po’ meno grossier.

    Ebbene, l’autorevole e rigoroso Organo di autogoverno della magistratura si è pronunciato da qualche giorno ed i due P.M. di Trani sono stati sospesi per un po’ a riflettere sulle loro birichinate e poi, via! A Torino a fare i Giudici Civili, quasi evocando con la nuova funzione una virtù dimenticata e da coltivare: la civiltà. Questa volta, tuttavia, non nella veste di parte processuale che può solo avanzare richieste ma di decisori delle cause loro assegnate in un settore del diritto che non hanno mai praticato e per il quale si può solo sperare che abbiano attitudini migliori sconfessando l’antico adagio: studia, studia, altrimenti finirai a fare il pubblico ministero.

  • In attesa di Giustizia: elegant dinners

    La culla del diritto (che sarebbe, poi, l’Italia: si può dire perché il 1°aprile è trascorso da poco) ha esportato oltreoceano uno dei suoi più recenti – rispetto ad immarcescibili istituti del diritto romano, come l’usucapione – prodotti giuridici: la giustizia di scopo ovvero ad orologeria.

    Ecco, ci mancava questo in un Paese che ritiene conseguito un traguardo di civiltà perché ai condannati a morte, invece che friggerli sulla sedia elettrica, viene iniettato un farmaco miscelato con dei sedativi (quando ci sono e quando se ne ricordano) che arresta il cuore mentre si apre il sipario davanti al boia ed un selezionato pubblico di invitati può assistere al supplizio come se fossero al Telegatto.

    Il riferimento è, chiaramente, al processone a carico di Donald Trump, rispetto al quale si è detto molto e molto confusamente, lasciando intendere che riguardi torbide storie di corruzione ma, in realtà non è così.

    Pagare una porno star (o, forse, due) per tacere a proposito di una trascorsa intimità, foss’anche prezzolata, non è un reato, soprattutto se il silenzio non è stato opposto in veste di testimone ad un’Autorità ma rispetto ai tabloid.

    Si dirà che, se di cotanta infedeltà coniugale si fosse subito saputo, la corsa per la Presidenza degli Stati Uniti poteva andare diversamente ed a favore di Hilary Clinton (una, tra l’altro, che ha esperienza in materia): ma se questo è il punto critico, il vero problema è che la prova di un ipotetico e bizzarro crimine di turbativa elettorale, conseguenza di inconfessati peccati contra sextum, risulta diabolica.

    Il tutto a tacer del fatto che non risulta che prima di allora “The Donald” sia stato un esempio di virtù maritali e non solo quelle: siamo, allora, al cospetto di un eccesso di puritanesimo tipico di una cultura rigorosamente calvinista, peraltro non nuovo su quelle sponde dell’Atlantico, verosimilmente valso a “colorire” un po’ l’iniziativa della Procura.

    Infatti neppure l’adulterio, probabilmente, è da considerarsi illecito penale ma non siamo così esperti nel diritto nordamericano (diverso per ogni Stato, più una normativa Federale) per escluderlo completamente se si tiene conto che, solo dopo la sentenza della Corte Suprema Lawrence vs. Texas del 2003 sono stati decriminalizzati una serie di atti sessuali (i lettori comprenderanno il riserbo nel declinarne dettagliatamente le caratteristiche in questa pagina) che ancora costituivano reato in ben quattordici Stati dell’Unione, eredità di norme coloniali britanniche con radici nella religione cristiana più risalente nel tempo.

    Insomma, a guardare bene tra i capi d’imputazione, si scopre che il problema non sono cene eleganti ed, ancor più, dopocena brillanti bensì il fatto di aver registrato come spese legali una trentina di fatture ad un legale per sistemare le Olgettine di laggiù e piuttosto che la mercede corrisposta alle signorine per i loro servigi ed il riserbo mantenuto in proposito.

    E qui ci sarebbe da discutere se una minuziosa fatturazione per prestazioni effettivamente svolte da un consulente, pur atipico, e pagate con soldi propri sia un reato tributario: ma si sa, a quelle latitudini con il fisco non si scherza e la storia di Al Capone lo insegna.

    Da qui a dire che elevare una montagna di incriminazioni per le quali l’accusato rischia – come pare – oltre un secolo e mezzo di carcere appare, sotto qualsiasi profilo, francamente eccessivo.

    Il vero problema che il caso Trump pone è, però, un altro: se sia solida una democrazia che per difendere se stessa dalla minaccia di un candidato ritenuto indegno e pericoloso debba ricorrere alla “giustizia di scopo”.

    Qui ne sappiamo qualcosa e l’esempio non sembra il migliore da seguire…saranno effetti della globalizzazione. Se qualcuno fosse punto da vaghezza di conoscere nel dettaglio l’indictement, il New York Times lo ha pubblicato per intero, battendo sul tempo Chi l’ha visto, Report e Quarto Grado:  basta collegarsi al sito per scaricarlo.

    Tra le imputazioni c’è anche la conspiracy che corrisponde più o meno alla nostra associazione a delinquere e sarebbe interessante capire perché nessuno degli altri presunti cospiratori sia stato chiamato alla sbarra – magari trascinato in catene come Amatore Sciesa – insieme all’ex Presidente cui, invece, è stato evitato l’oltraggio delle manette sebbene formalmente in arresto per una manciata di minuti.

    In conclusione, all’ombra dell’Empire State Building con perfetto tempismo rispetto alla imminente campagna elettorale, non si sono fatti mancare nulla o quasi di una coreografia che dai tempi di Mani Pulite ci è ben nota e di quello che non pare essere un modello di Giustizia da emulare.

  • La Commissione propone norme sul trasferimento dei procedimenti penali tra Stati membri

    La Commissione europea ha adottato una proposta di regolamento sul trasferimento dei procedimenti penali tra Stati membri. L’aumento della criminalità transfrontaliera ha portato a un aumento dei casi in cui diversi Stati membri sono competenti a perseguire lo stesso reato. Azioni penali parallele o multiple possono non solo essere inefficienti e inefficaci, ma anche ledere i diritti delle persone interessate in quanto una persona non può essere perseguita o punita due volte per lo stesso reato.

    La proposta contribuirà pertanto a prevenire la duplicazione dei procedimenti e a evitare casi di impunità quando è rifiutata la consegna nel quadro del mandato d’arresto europeo. Contribuirà inoltre a garantire che il procedimento penale si svolga nello Stato membro più adatto, ad esempio quello in cui si è verificato prevalentemente il reato. Le norme comuni comprenderanno: un elenco di criteri comuni per il trasferimento di un procedimento, nonché i motivi per rifiutare il trasferimento; un termine per la decisione sul trasferimento di un procedimento; norme sulle spese di traduzione e sugli effetti del trasferimento di un procedimento; obblighi relativi ai diritti degli indagati e imputati e delle vittime; norme sull’uso del canale digitale transfrontaliero per la comunicazione tra autorità competenti.

    Al fine di migliorare l’efficienza della procedura di trasferimento, il regolamento proposto introduce una competenza giurisdizionale in casi specifici. Si prevede che esso ridurrà il livello di frammentazione, garantirà una maggiore certezza del diritto e, in ultima analisi, aumenterà il numero di procedimenti penali trasferiti con successo.

    Il regolamento proposto dovrà ora essere discusso e approvato dal Parlamento europeo e dal Consiglio prima di entrare in vigore.

    Poiché la proposta riguarda procedure transfrontaliere, per le quali sono necessarie norme uniformi, la Commissione presenta una proposta di regolamento, strumento direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri e obbligatorio in tutti i suoi elementi. Un regolamento assicura pertanto un’applicazione comune delle norme in tutta l’UE e la loro entrata in vigore contemporaneamente.

  • In attesa di Giustizia: si fa presto a gridare all’ingiustizia

    In un Paese in cui il giustizialismo è alimentato da ininterrotte lezioni di pseudo diritto impartite in perfetta malafede da stampa votata alla disinformazione e talk shows che sembrano non avere scelta differente dall’invitare il pensionato Davigo a sproloquiare di inesistenza di innocenti ed infallibilità delle Procure, ogni assoluzione suona come un’ingiustizia. Ed alcune paiono più inaccettabili di altre.

    In questa rubrica è stato già trattato l’esito del processo per il crollo della struttura alberghiera a Rigopiano e solo dopo pochi giorni è intervenuto un altro proscioglimento ritenuto scandaloso: quello per la “Torre dei piloti” del porto di Genova, si ricorderà, l’urto di una nave contro la torre di controllo portuale.

    In appello, a dieci anni di distanza dall’evento – questi sono i nostri tempi – si è avuta una riforma sostanziale della sentenza di condanna di primo grado per omicidio colposo plurimo, attentato alla sicurezza dei trasporti ed altri gravi reati: tutti assolti gli iniziali imputati, con indignazione altisonante e diffusa tra i famigliari delle vittime che alimenta diffuso malumore nei confronti dei giudicanti.

    Sarebbe sempre buona cosa conoscere gli atti – il che non è – ma qualche considerazione può essere fatta provando a spiegare in parole semplici quale possa essere la complessità di accertamento delle responsabilità per reati come questi: colposi, cioè a dire commessi non per volontà di commetterli ma per una forma di negligenza o imprudenza.

    Uccidere il coniuge non amato per ereditare, per esempio, significa commettere un reato doloso programmando ed organizzando la morte per interesse. Facile: omicidio volontario.

    Viceversa, investire un pedone nel procedere ad alta velocità e non riuscendo a frenare per tempo, uccidendolo, esclude che vi fosse la volontà di togliere la vita a quella persona, pur essendone responsabile della morte. Omicidio colposo.

    In questo esempio la colpa risiede in un comportamento di guida rischioso violando le regole del codice della strada. Comportamenti illeciti così diversi avranno, però, causato lo stesso dolore nei familiari delle vittime: anzi maggiore nel reato colposo, perchè l’omicidio è senza movente, e come si suole dire, “non si può farsene una ragione”. Ed è difficile far accettare ai parenti di quelle vittime che la pena per il reato colposo sarà di entità minore a quella per l’omicidio volontario e di grado inverso al loro dolore.

    A prescindere dall’esemplificazione volutamente essenziale, l’accertamento dei reati colposi può essere molto complicata soprattutto per quella particolare categoria di reati colposi, che più di ogni altra assurge ai palcoscenici mediatici: si chiamano “reati omissivi impropri” nei quali la condotta colposa non consiste in una semplice imprudenza ma nell’aver omesso un comportamento che, secondo l’accusa, avevi il dovere di compiere. Qui il copione si complica, altro che la banale storia di un pazzo che entra in un supermercato con il mitra e stermina venti persone: se il medico avesse fatto per tempo una tac, mio figlio, forse, si sarebbe salvato; se i pubblici amministratori avessero avvertito del pericolo dopo quel primo sciame sismico, le vittime del terremoto, forse, si sarebbero salvate; se i tecnici della manutenzione avessero fatto in modo più completo i controlli dovuti, l’aereo, forse, non sarebbe precipitato…. Il giudice, in questi processi deve condannare o assolvere stabilendo per prima cosa quali fossero i doveri dell’imputato, che egli avrebbe omesso di adempiere; poi, deve mentalmente ricostruire cosa sarebbe invece accaduto se l’imputato avesse adempiuto al proprio compito. Laddove da questo esercizio logico, che già in partenza è privo di riscontri fattualmente certi, derivi il risultato che le vittime si sarebbero salvate, l’imputato verrà condannato; altrimenti, anche solo in presenza di un dubbio sulla ricostruzione logica della catena causale, sarà assolto.

    Quindi, nemmeno basta provare che l’imputato non fece il proprio dovere: per condannarlo occorre provare che se invece l’avesse fatto, le vittime si sarebbero certamente salvate.

    Sono questi i processi difficili, come quello della Torre dei Piloti, in cui sono indispensabili la conoscenza accurata dei fatti e di problematiche tecniche ed il lavoro, l’autonomia, l’indipendenza anche emotiva del giudice meritano sempre il massimo rispetto. Processi nei quali il senso di responsabilità dei mezzi di informazione dovrebbe esprimersi nelle forme più intransigenti. E sono invece proprio questi i processi che i media celebrano come la cronaca di una drammatica partita nella quale il dolore delle vittime – sacrosanto ed inestinguibile – viene cinicamente agitato come bandiere nelle curve di uno stadio soprattutto se alto può levarsi il grido “Ingiustizia!”. Pur senza aver letto una riga del fascicolo, prima ancora che sia motivata la sentenza e, meno che mai, avere capito cosa c’è scritto.

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