Quantitative Easing

  • Le colpe delle banche centrali

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso si ‘ItaliaOggi’ il 21 giugno 2023

    È molto severo il giudizio di Jacques de Larosière sulla gestione della politica monetaria delle banche centrali. L’ex direttore del Fondo monetario internazionale, del Tesoro francese e della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo, ha plasticamente spiegato le loro errate decisioni ricordando «il racconto di Goethe dell’apprendista stregone il cui goffo uso dei poteri magici produce una scia incontrollabile di disastri». Niente di più vero.

    De Larosière non è stato un santo nella sua lunga carriera di alto dirigente delle politiche monetarie francesi e internazionali. I Paesi in via di sviluppo non hanno un buon ricordo dell’austerità e delle dure condizioni imposte dal Fmi. Fa, però, piacere, oggi che non è più costretto da responsabilità, sentirlo esprimere liberamente giudizi tranchant sulla politica monetaria dominante.

    In un suo recente scritto ha affermato: «Le banche centrali di tutto il mondo hanno acquistato enormi quantità di titoli di stato ad alto prezzo, il cui valore, come risultato delle loro azioni di inasprimento degli interessi, è successivamente crollato precipitosamente. Sfortunatamente, hanno incoraggiato le istituzioni finanziarie private a seguirne l’esempio, con conseguenze nefaste. Lungi dal promuovere la stabilità, le banche centrali hanno tenuto una lezione magistrale su come organizzare una crisi finanziaria».

    In questo modo esse hanno indebolito i propri bilanci e la propria reputazione. Com’è noto, con i quantitative easing i loro bilanci sono cresciuti a dismisura, pieni di asset backed security, titoli di dubbio valore, e di titoli pubblici acquistati dalle grande banche internazionali. Questi ultimi, ritenuti “sicuri” e “protetti” all’inizio, adesso, grazie all’aumento dei tassi d’interesse, sono in perdita.

    Le banche centrali, quindi, sono nei guai. In verità lo sono molto di più le banche commerciali private perché esse devono valutare le partecipazioni obbligazionarie in rapporto al loro valore di mercato, rendendole vulnerabili alla fuga dei depositanti. Le banche centrali non devono affrontare questo pericolo poiché le loro partecipazioni obbligazionarie non sono valutate in rapporto al mercato ma in base alla convenzione contabile secondo cui esse sono detenute al valore nominale fino alla loro scadenza.

    De Larosière aggiunge: «Riducendo i tassi di interesse quasi a zero e continuando il QE per un periodo irragionevolmente lungo, le banche centrali hanno aumentato il credito e la domanda nell’economia, il che probabilmente avrebbe portato sia all’inflazione sia agli investimenti speculativi, che alla fine sarebbero andati male quando i tassi di interesse sarebbero aumentati». Il risultato alla fine è stato il contagio tra le banche centrali e quelle commerciali, soprattutto se queste ultime operano in un ambiente mal regolamentato e se sono mal gestite.

    Negli Usa la Federal Deposit Insurance Corporation (Fdic), l’agenzia federale che garantisce i depositi fino a 250 mila dollari, già a marzo stimava che le banche americane erano sedute su perdite non riconosciute di circa 600 miliardi di dollari sui loro titoli in portafoglio – una cifra che saliva ben oltre mille miliardi se si includono le perdite sui prestiti a basso rendimento. Inoltre, molte di queste banche hanno anche livelli rilevanti di depositi non coperti dalla Fdic.

    In generale, le banche private, se non funzionano, sono a rischio di bancarotta, come abbiamo visto nelle settimane passate. Questo non vale per le banche centrali che in caso di bisogno potrebbero chiedere una ricapitalizzazione, anche se non facile e a condizioni pessime. È vero che le banche centrali sono indipendenti ma, di fatto, sono fortemente coinvolte in questioni fiscali e dipendenti dai mercati finanziari. De Larosière teme che il risultato più probabile possa essere la stagflazione, che produrrebbe una serie di tensioni politiche ed economiche. E aggiunge: «Con la loro gestione della politica monetaria, le banche centrali hanno contribuito all’inflazione e a indebolire il sistema finanziario». Sono conclusioni molto pesanti.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • Il combinato recessivo tra iperliquidità e tassazione dei contanti

    Già nel recente  passato erano stati considerati gli effetti di una politica monetaria espansiva, nello specifico il quantitative easing, soprattutto per il risparmio privato (https://www.ilpattosociale.it/2019/07/17/la-politica-monetaria-e-la-depatrimonializzazione-del-risparmio/).

    La scelta del presidente Mario Draghi di inaugurare un nuovo quantitative easing (senza per altro indicarne il limite temporale) rappresenta sicuramente una decisione strategicamente vincente. Questa,infatti, ottiene il doppio obiettivo di condizionare la presidente subentrante Christine Lagarde ed, al tempo stesso, fornire risorse finanziarie fresche finalizzate al sostegno di una nuova ripresa economica. Questa nuova stagione di iperliquidità, tuttavia, rappresenta un’opportunità non solo per le aziende, le quali riescono a finanziarsi paradossalmente ad un tasso negativo, ma purtroppo anche per gli Stati per i quali si apre la possibilità di finanziare il debito con costi di servizio al debito in forte contrazione.

    In tal senso si ricorda come in Europa, ormai, tutti i titoli del debito sovrano abbiano tassi negativi, ad esclusione dell’Inghilterra, a causa della Brexit, e dell’Italia, sempre per il debito e la spesa pubblica fuori controllo. In questo senso basti ricordare l’esperienza degli ultimi governi,in particolare Renzi e Gentiloni, che non hanno saputo valorizzare, attraverso una riduzione del debito, la diminuzione dei costi del debito, conseguenza del  quasi azzeramento dei tassi di interesse.

    In un periodo caratterizzato perciò da questa nuova iniezione di risorse finanziarie risulterebbe assolutamente opportuno inserire la Golden Rule (la quale obbliga i governi ad accedere a nuovo debito solo per finanziare produttivi ed infrastrutturali), e non come hanno sempre fatto negli ultimi anni al fine semplicemente di finanziare nuova  spesa corrente. Gli effetti collaterali di questa politica monetaria espansiva possono risultare molto simili a quelli di una stagione  economica caratterizzata da un alto tasso di inflazione senza averne tuttavia una decaduta del  valore nominale della moneta: come detto prima la depatrimonializzazione del risparmio ne rappresenta la conseguenza poco gradita ai risparmiatori.

    In questo contesto, quindi, risulta anacronistico, ma soprattutto economicamente controproducente, la proposta di tassare i contanti i quali già perdono valore a causa della politica monetaria espansiva. Tassarli ulteriormente, tuttavia, rappresenterebbe l’atto finale e conclusivo di una strategia finalizzata ad azzerare completamente i consumi già ora in flessione (nell’anno in corso oltre 1 miliardo). Il tutto in nome di una lotta all’evasione fiscale della quale ancora oggi non si comprendono i termini ed i volumi figuriamoci le cause.

    L’idea lanciata da Confindustria di  tassare del 2% i prelievi al bancomat oltre 1.500 euro per combattere l’evasione fiscale rappresenta perfettamente lo scollamento non solo della politica ma anche della cosiddetta classe dirigente dalla realtà economica ed il comune percorso verso un declino culturale di cui quello economico ne rappresenta un aspetto. In questo modo, infatti, verrebbero penalizzati tutti i cittadini onesti che vedono versato il proprio stipendio o pensione sul proprio conto corrente e che pagherebbero una sovrattassa di oltre 1.500 euro di prelievo mentre il nero (Confindustria lo ignora) che certamente  non viene versato sui conti correnti continuerebbe a girare regolarmente (https://www.ilpattosociale.it/2019/01/10/il-falso-alibi-dellevasione-fiscale/).

    In questo contesto storico, nel quale anche gli Istituti di credito presentano forti difficoltà nel reperire marginalità, possono risultare comprensibili, anche se sono intellettualmente disoneste le motivazioni che spingono Confindustria, assieme al mondo degli istituti di credito, nel  proporre la progressiva eliminazione del contante in quanto assieme alle compagnie telefoniche si assicurerebbero delle vere e proprie rendite di posizione .

    Le strategie economiche, tuttavia, dovrebbero dimostrare come obiettivo da conseguire non tanto quello di creare ulteriori vantaggi per uno specifico settore ma, viceversa, avere come traguardo  quello di creare nuovo reddito e PIL, quindi nuovo valore aggiunto. La combinazione, quindi, di una perdita del valore patrimoniali dei risparmi, e conseguentemente delle rendite, unita ad una tassazione dei contanti innescherebbe una spirale recessiva dalla quale sarebbe estremamente difficile uscirne.

    La terribile connessione tra quantitative easing ed una tassazione sul contante si manifesterebbe quindi non come la sommatoria di questi due fattori, il primo indiretto il secondo espressione di una volontà politica, ma fonte di effetti esponenziali in relazione al reddito disponibile e quindi alla capacità di spesa dei consumatori.

    La nostra economia rientrata dopo tre anni al punto di partenza avrebbe bisogno non solo una iniezione di liquidità destinata ad una sostanziale riduzione della pressione fiscale ed al finanziamento delle attività produttive ed infrastrutturali  ma anche di nuove professionalità svincolate da interessi di parte. Al tempo stesso anche di una sana iniezione di libertà che possa trovare la propria espressione attraverso competenze contemporanee.

  • L’inflazione desiderata

    L’annuncio del prossimo quantitative easing alla fine del proprio mandato rappresenta la migliore eredità del presidente della BCE Mario Draghi per legare e condizionare i primi mesi di attività del nuovo presidente Christine Lagarde. Sono invece piuttosto incerti gli obbiettivi e i possibili risultati  della seconda iniezione di liquidità voluta dalla BCE.

    Dal 2015 ad oggi il quantitative easing ha rappresentato sostanzialmente “una sospensione dalla realtà” nella valutazione della sostenibilità del rapporto debito pubblico PIL e la spesa pubblica (in continua progressione) della quale hanno beneficiato soprattutto i governi Renzi e Gentiloni. Questi, infatti, pur usufruendo di continue diminuzioni dello spread, con la conseguente riduzione dei tassi di interesse che hanno presentato una condizione unica dal dopoguerra ad oggi  per la riduzione del debito, hanno continuato, invece, ad aumentare la spesa pubblica in modo dissennato. Ne è prova il fatto che la  crescita del PIL dal 2015 al 2018 è sempre percentualmente inferiore alla crescita del debito e al tasso d’inflazione il cui  differenziale si è manifestato attraverso una riduzione del potere d’acquisto e, di  conseguenza, dei consumi.

    Tornando all’attualità del 2019 e al governo Conte, la Confesercenti ha rilevato come verranno meno  durante l’anno in corso oltre  un miliardo di consumi con una diminuzione del -0,4%, mantenendo quindi lo stato di deflazione. Questo secondo quantitative easing, tuttavia, si pone l’obiettivo di aumentare l’inflazione da sempre desiderato al  2% che rappresenta un livello auspicabile, ma solo e quando questa risulti essere espressione di un aumento della domanda.

    Nonostante ciò si ricerca ancora una volta questa inflazione da parte della BCE (il cui ruolo istituzionale sarebbe quello di combatterla) perché alleggerirebbe il rapporto debito/PIL nel breve periodo grazie ad una crescita nominale del PIL stesso. Una visione esclusivamente monetaristica e utilitaristica e di brevissimo respiro in quanto ad ogni rinegoziazione del debito l’inflazione verrebbe trasferita anche ai costi del servizio al debito stesso. In più questa tipologia di politica monetaria finalizzata all’aumento della semplice liquidità presenta una gravissima mancanza di valutazione relativa alla nuova strutturazione del mercato globale anche sotto il profilo finanziario. Nel mondo globale le politiche monetarie anche se continentali (BCE) sortiscono un brevissimo effetto e per altro molto limitato ma l’eccesso di liquidità porta una depatrimonializzazione degli stessi risparmi privati  (https://www.ilpattosociale.it/2019/07/17/la-politica-monetaria-e-la-depatrimonializzazione-del-risparmio/).

    A questo si aggiunga come lo stesso aumento dell’inflazione da troppi anni sia espressione in Italia del semplice aumento della pressione fiscale e delle accise (come non ricordare la favorevole posizione all’aumento  dell’IVA finalizzata alla crescita dell’inflazione della ex ministro Padoan). A questa infrazione interna legata alla pressione fiscale si aggiunga quella perversa d’importazione legata alle quotazioni delle materie prime, in particolare del petrolio e  suoi derivati. Nel 2013 ebbi l’ardire di scrivere come il mondo sarebbe cambiato quando gli Stati Uniti avrebbero raggiunto l’indipendenza energetica.

    Da allora ad oggi gli Stati Uniti sono passati da primo importatore di petrolio a rappresentare il primo produttore ed esportatore di petrolio grazie agli investimenti dello Shale oil e shale gas.

    L’alleanza stretta successivamente con l’Arabia Saudita (prima nazione per riserve petrolifere) e con la Russia ha posto le condizioni internazionali perché la quotazione del petrolio si mantenga tra i 60 e i 70 dollari. Una forchetta di quotazione che garantisca alle aziende estrattive statunitensi una buona redditività  e non risulti penalizzante per i consumatori e le imprese. In questo modo risulta neutralizzato il potere dell’Opec che con il  continuo aumento dei prezzi del petrolio per anni ha rappresentato il cappio al collo alle imprese italiane e dello sviluppo mondiale.

    All’interno di un mercato globale nel quale la concorrenza determina un forte livellamento sia del prezzo al consumo quanto dei margini aziendali la politica monetaria consentirebbe di raggiungere un aumento dell’inflazione e di un miglioramento del rapporto debito/Pil della durata massima di sei  mesi. In questo modo viene evitato il problema di affrontare i veri nodi della mancanza di una crescita e di conseguenza di un reale aumento dell’inflazione da domanda la quale può essere ottenuta attraverso una riconversione della spesa pubblica ed un progressivo abbassamento delle aliquote fiscali  e della loro progressività.

    In altre parole, l’ottima eredità lasciata dal presidente Mario Draghi attraverso l’annuncio del prossimo quantitative easing di cui beneficeranno i governi in carica lascerà invariata la dinamica dei problemi italiani che vengono determinati essenzialmente da due fattori responsabili della stagnazione italiana: la spesa pubblica, con la sua costante e progressiva crescita di quella improduttiva, e la gestione del credito, cioè il sistema bancario che da anni ha abbandonato la propria missione istituzionale.

    In un simile contesto la “sospensione dalla realtà” nella valutazione dei parametri fondamentali dell’economia italiana che il Q.E. ci regala per un altro periodo potrebbe dimostrarsi il colpo finale alla nostra credibilità.

  • Sei mesi al gennaio 2019

    Solo sei mesi, questi sono gli ultimi sei mesi del 2018 in cui l’Italia potrà giovarsi del Quantitative Easing che ci ha permesso di vivere in assoluta sospensione dalla valutazione dei nostri parametri economici e finanziari, quindi in sospensione dalla realtà. Una situazione assolutamente anomala, nata dalla crisi finanziaria del novembre 2011 e protrattasi fino a tutto il 2018 e  che ci ha permesso di creare 346 (!) miliardi di nuovo debito pubblico non per finanziare la ripresa o fattori competitivi ma semplicemente per sgravi fiscali lasciando completamente inalterata le dinamiche della pubblica amministrazione che rappresentano il vero problema della mancanza di crescita italiana. E qualcuno ha pure il coraggio di affermare che l’Italia viveva in un clima di austerità imposto dall’Europa quando gli ultimi sette anni dimostrano essenzialmente come siano le modalità della spesa e non la spesa in quanto tale ad essere il problema italiano.

    In altre parole, esattamente come quando la Banca d’Italia finanziava il debito pubblico per legge (una visione tanto cara i nuovi sovranisti del ritorno alla Lira), dal 2011 in poi la Bce ha acquistato  a scatola chiusa e senza batter ciglio il nostro debito pubblico ad interessi progressivamente inferiori grazie all’inondazione di  nuova liquidità sui mercati finanziari. Una condizione favorevole ed assolutamente nuova dal dopoguerra ad oggi per i vari governi in carica che avrebbe dovuto spingere i governi Letta, Renzi e Gentiloni, grazie ai risparmi sul costo al servizio del debito, ad utilizzare appunto tali risparmi per la riduzione debito stesso. Invece di ridurre il debito il governo Renzi è riuscito addirittura a raddoppiare la velocità di crescita del debito pubblico rispetto al governo precedente: da 2230 euro/secondo ai 4463, sempre al secondo.

    Ora da dicembre, o meglio da gennaio 2019, il presidente Mario Draghi ha confermato che sospenderà il Q.E., magari riducendolo gradualmente aggiungiamo noi. Allora l’Italia tornerà sulla terra e verrà di nuovo sottoposta all’analisi dei fondamentali economici in rapporto alla sostenibilità del debito. In questo ritrovato contesto di normalità risulterà interessante capire e vedere chi finanzierà il nostro debito pubblico e soprattutto quali saranno gli interessi che verranno richiesti agli operatori finanziari, anche in considerazione del fatto che dall’otto giugno 2018 i titoli del debito pubblico vengono considerati più a rischio di quelli della Grecia!

    Un fatto di una gravità epocale che non ha suscitato nessuna reazione del mondo politico, sia espressione della maggioranza che dell’opposizione. Ancora oggi si illude il Paese parlando di  riforme relative alla flat Tax, al ritorno alla Lira, alla riduzione delle accise e al mantenimento dell’Iva attuale quando il contesto macroeconomico relativo alla sostenibilità del debito pubblico italiano si sta deteriorando davanti ai nostri occhi. Basteranno sei mesi per comprendere quale sia la reale situazione economico-finanziaria del nostro Paese che già ora viene percepito come a rischio in quanto i tassi di interesse sul finanziamento al nostro debito continuano a crescere.

    Logica conseguenza di questa situazione che si aggraverà progressivamente e renderà necessaria sicuramente, se non alla fine di quest’anno ma nei primi tre mesi all’anno successivo, una ulteriore manovra correttiva che permetta di trovare la copertura finanziaria per sostenere l’aumento dei tassi di interesse sul debito.

    Sei mesi. Solo sei mesi per il ritorno alla realtà economica ordinaria. Sei mesi che seguono vent’anni di ordinaria follia.

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