Referendum

  • La Corte suprema gela la Scozia: stop al referendum bis

    Un brusco stop alle ambizioni di rivincita referendaria portate avanti dalla leader indipendentista scozzese Nicola Sturgeon è arrivato dalla Corte suprema del Regno Unito. Il verdetto pronunciato a Londra nega infatti senza mezzi termini alla Scozia di poter convocare una nuova consultazione popolare (dopo quella del 2014 vinta dalla campagna pro unione) sulla secessione dalla Gran Bretagna senza il placet del Parlamento di Westminster. Sfuma quindi l’obiettivo indicato dalla First Minister nei mesi scorsi di andare alle urne già il 19 ottobre dell’anno prossimo, data del tutto simbolica proposta dall’indipendentista Snp con poche possibilità di diventare realtà vista l’opposizione del governo centrale. Nella lettura del verdetto il presidente della Corte, lord Robert Reed, ha rigettato su tutta la linea le argomentazioni giuridiche dei legali scozzesi: in modo unanime

    si afferma che la convocazione di un referendum sulla secessione, destinato ad avere effetti sul Regno Unito, non può passare attraverso la sola approvazione di una legge da parte dell’assemblea parlamentare di Edimburgo ma spetta al potere centrale di Londra. E’ stato anche respinto il richiamo al diritto all’autodeterminazione, inclusi i paragoni fra la Scozia e altre realtà come Quebec e Kosovo.

    Sturgeon si è detta “delusa” ma al contempo rispetta il responso dei giudici, i quali “non fanno le leggi” e si sono limitati ad “interpretare” quella esistente (lo Scotland Act). Alla sua prima dichiarazione è seguito poi il tentativo di rilanciare il programma indipendentista, con un piano b che resta comunque rigidamente nei confini legali ed istituzionali, evitando forzature come avvenuto in Spagna fra la Catalogna e Madrid. La First Minister punta tutto sulle prossime elezioni politiche del Regno, previste a fine 2024: quelle, a suo avviso, saranno un “referendum de facto” grazie a una grande vittoria del suo Snp. Quel voto è per lei il solo “mezzo democratico, legale e costituzionale con cui il popolo scozzese può esprimere la propria volontà”.

    Poco dopo l’intervento di Sturgeon a Edimburgo iniziava il confronto a Londra, col primo ministro britannico Rishi Sunak impegnato nel Question Time alla Camera dei Comuni. Dopo aver affermato che il giudizio di oggi è “chiaro e definitivo” – soprattutto se si considera che entrambe le parti s’erano impegnate nel 2014 ad accettare il risultato di quel referendum come responso valido per “una generazione” – il premier conservatore ha aperto a una più stretta collaborazione con l’esecutivo locale scozzese su una serie di questioni dall’economia alla guerra in Ucraina. Rassicurazioni che sono state respinte da Ian Blackford, capogruppo dell’Snp, secondo cui “la democrazia non sarà negata” nonostante la sentenza dei giudici. L’esponente indipendentista ai Comuni ha poi usato parole ancora più dure: “L’idea stessa che il Regno Unito sia un’unione volontaria di nazioni è morta e sepolta”. Blackford si è poi confrontato nella stessa seduta in un botta e risposta col ministro per la Scozia del governo Tory, Alister Jack. Ha insistito sulla tesi secondo cui il diritto a riaprire la questione sull’indipendenza deriverebbe dalla Brexit: approvata dopo il referendum scozzese del 2014 con il voto favorevole della maggioranza dei britannici, ma solo di una minoranza di elettori scozzesi. Mentre ha rivendicato al suo partito di avere “il mandato” democratico per continuare a chiedere un referendum bis sulla base dei propri consensi elettorali. Tesi, quest’ultima, bollata come “ingannevole” dal ministro Jack, secondo cui i risultati alle urne non rispecchiano necessariamente quelli referendari.

    Stando invece ai recenti sondaggi in merito alla secessione dal Regno gli scozzesi risultano spaccati quasi a metà, contro il risultato del 2014 in cui i no prevalsero sui sì con il 55,3% rispetto al 44,7%.

  • In attesa di Giustizia: referendum, che mistero

    Ci siamo: in contemporanea con un limitato election day si voteranno i referendum sulla giustizia.

    Sottoscritti da un elevato numero di cittadini, i quesiti ora sottoposti agli italiani sono poco conosciuti e, come da deprecabile tradizione, poco comprensibili ed il fronte del NO li bombarda neanche fossero le case di Mariupol: invece di provare a spiegarli si criticano perché troppo tecnici, lontani dalla gente, incomprensibili.

    Fatto chiaro che il sottoscritto non solo andrà a fare il suo dovere alle urne ma che voterà convintamente sì a tutti, non è questa la sede per dare indicazioni di voto: piuttosto di provare a  spiegare, per chi non ne avesse ancora contezza (il cosiddetto servizio pubblico, non ha sin qui dedicato molto spazio all’argomento) di cosa si tratti. Poi, ognuno sceglierà: purchè la scelta non sia quella di andare al mare anche considerando che il week end appena trascorso dovrebbe aver saziato la sete di acqua salata.

    Facciamo buon governo della sintesi procedendo per quesiti:

    1 – Abolizione della “Legge Severino”

    La norma prevede meccanismi automatici di incandidabilità, ineleggibilità o decadenza automatica per parlamentari, ministri, consiglieri regionali, sindaci ed amministratori locali; in taluni casi è possibile la sospensione dalla carica elettiva fino a diciotto mesi anche in assenza di una sentenza definitiva di condanna.  Deve precisarsi che l’interdizione dai pubblici uffici è già prevista dal codice penale come pena accessoria conseguente alla condanna per numerosi reati e la sua applicazione è demandata direttamente al giudicante.

    2- Limitazione della carcerazione preventiva

    La norma sottoposta a scrutinio è quella che prevede la possibilità di incarcerare anche per reati di minore gravità un indagato in attesa di giudizio ricorrendo alla formula generica che prevede il rischio di commissione di altri crimini anche in casi in cui il soggetto risulti oggettivamente non pericoloso.

    3 – Separazione delle funzioni dei magistrati

    Fatta la premessa che la distinzione dei magistrati per funzioni (giudicante o inquirente, Giudici e P.M., per intenderci meglio) è già prevista dalla Costituzione, la norma che si chiede di abolire è quella che prevede la possibilità di passare da un ruolo all’altro anche più volte senza significativi sbarramenti il che può costituire un limite per la effettiva terzietà del giudicante, a sua volta voluta dall’art. 111 della Costituzione

    4 – Equa valutazione dei magistrati

    La disciplina che si intende abrogare è quella che prevede l’esclusione di avvocati e docenti universitari facenti parte dei Consigli Giudiziari  – che sono definibili come dei C.S.M. “territoriali” – dalla possibilità di valutare l’operato dei magistrati del Distretto di Corte di Appello di appartenenza. Valutazione che, in seguito, verrà trasmessa al C.S.M. al fine di procedere a promozioni, attribuzione di funzioni e dirigenza di uffici. Si badi bene che del C.S.M. fanno parte anche membri “laici”, cioè avvocati e docenti di materie giuridiche che, in quella sede, hanno diritto di voto.

    5 – Riforma del C.S.M.

    Il referendum si propone di abolire la norma per la quale un magistrato che intenda candidarsi al Consiglio Superiore debba raccogliere almeno venticinque firme di colleghi che ne sostengano la candidatura: nei fatti, deve avere pertanto il sostegno di una delle “correnti” criticate per la tendenza a decidere questioni organizzative secondo logiche spartitorie. In sostanza si vorrebbe rendere libera la candidatura di chiunque a prescindere dall’appoggio di chicchessia: colleghi o correnti.

    La speranza è quella di avere coniugato nel meno imperfetto dei modi sintesi e chiarezza: certamente, se qualcuno dei lettori necessitasse di un po’ di disinformazione c’è sempre la possibilità di passare dall’edicola e comperare il Fatto Quotidiano.

    Sarà così possibile assistere ad un assedio ai referendum assimilabile a quello delle acciaierie di Azovstal. Si disegnano scenari apocalittici, soprattutto con riguardo al quesito sulla limitazione della carcerazione preventiva che – laddove vincente – farà liberamente scorrazzare bande di delinquenti e predatori.

    Per carità cristiana evitiamo ai lettori i passaggi più pregnanti del ragionamento giacobino: basti dire che, secondo l’house horgan dei manettari le detenzioni ingiuste sono in percentuale da prefisso telefonico.

    Tuttavia, tirando le somme sui dati proposti che sono relativi all’anno 2021 come qualcuno ha fatto, si ricava l’evidenza che su 1000 misure cautelari, ossia su 1000 casi di anticipazione della pena:

    – 240 non sono giustificate, perché finite in assoluzione o pena da non scontare (la misura cautelare, infatti, presuppone una prognosi di condanna da scontare).

    – 582 ancora non si sa se risulteranno giustificate (non essendo definitive);

    – 178 erano le sole misure giustificate.

    Stando a quanto scrive il Fatto, possiamo dire che le misure cautelari del 2021 saranno giustificate all’esito dei processi in una forbice compresa tra il 17,8% e il 76%.

    Cioè, se tutto ve bene, un quarto di arresti ingiusti. Se va male, anche malcontati, quattro quinti.

    Se lo ritenete, recuperate il numero del 4 giugno del Fatto Quotidiano e rivedete i calcoli: sicuramente, il 12 non andate al mare ma a votare: comunque sia il referendum dovrà esprimere il  sentiment del Paese Reale.

  • In attesa di Giustizia: l’ometto furioso

    Riforma a firma Cartabia, referendum sulla Giustizia in arrivo (bene o male che andranno, la rapida e vincente raccolta di firme ha già espresso il sentiment di una larga fetta della popolazione), Davigo alla sbarra a Brescia: sono molte le ragioni di sofferenza per Marco Travaglio. E appena può si sfoga, soprattutto contro il nemico di sempre: quelle Camere Penali che avevano – invece – dalla loro parte Marco Pannella.

    Pensando di essere un arguto spiritosone usa chiamarle “penose”; motivo cioè di sofferenza, di pena, di cruccio, per forza: provano sempre a togliergli i giocattoli dalle mani, perciò strepita, frigna e pesta i piedi.

    L’ometto (ominicchio, se non peggio, lo definirebbe Leonardo Sciascia) dirige un quotidiano ormai per pochi intimi segnati da ossessione paranoide per manette, arresti, verbali di Polizia Giudiziaria, veline dei Servizi, il cui nome suona, se confrontato alla sua persona, come un ossimoro.

    Il nostro, invero, con i fatti ha un rapporto idiosincratico: per lui sono un optional, ma in genere è meglio prescinderne.

    Si è sgolato per anni nel dire che la prescrizione (suo chiodo fisso) è il privilegio di pochi potenti che se la procurano strapagando avvocati callidi e vagamente disonesti.

    Non gli importa che le prescrizioni riguardino 120mila processi l’anno, di cui 80mila senza che si sia arrivati neppure alla sentenza di primo grado, quando gli avvocati non toccano nemmeno palla.

    Lui deve dirlo a prescindere, tenere comizi in ospitali talk show senza – possibilmente – nessun contraddittore e gonfiandosi come un pavone: dei fatti, chissenefrega.

    Può darsi, e bisogna comprenderlo, che abbia avuto problemi irrisolti nell’età evolutiva, periodo delicatissimo: forse, da bambino era l’unico ad avere in camera il poster del Commissario Basettoni e  schiumava rabbia apprendendo ogni settimana, in edicola, che la Banda Bassotti era ritornata a piede libero.

    Se mai avrà letto “I Miserabili”, il suo cuore avrà palpitato per l’implacabile Ispettore Javert, giustamente a caccia di Jean Valejan, ladro recidivo specifico infraquinquennale, plurievaso, per di più liberato da un’amnistia: insomma un insopportabile pendaglio da forca beneficiato dal più peloso garantismo.

    Al cinema, guardando “Fuga da Alcatraz”, narrano che sia uscito dalla sala ed abbia telefonato ai Carabinieri.

    Senonché accade che non più solo gli “avvocatoni”, ma Procuratori Generali e Presidenti di Corte di Appello, da tutta Italia, abbiano bocciato la riforma  a lui più cara a firma Bonafede (tanto nomine nullum paret osseqium): quella sulla prescrizione. “Irrazionale, illogica, incostituzionale” sono state le definizioni più correnti.

    Nel Paese che è riuscito a mandare al governo terrapiattisti e manettari guidati da un comico in disarmo, l’ometto è diventato il leader indiscusso del giustizialismo italiano.

    Scrive di diritto pur ignorandone le fondamenta, assolve i buoni e condanna i cattivi, spiega ed interpreta sentenze, norme, disegni di legge e nei processi che lo vedono imputato per diffamazione si fa assistere da avvocati che ne chiedono il proscioglimento per prescrizione, rigorosamente a sua insaputa.

    Sono momenti difficili, bisogna comprenderne la sofferenza: le elezioni si avvicinano e i terrapiattisti vanno dissolvendosi come neve al sole ancor prima di quanto si potesse ragionevolmente immaginare ed ora c’è pure il rischio referendum oltre ai vari tentativi per silurare la riforma della prescrizione, a tacere di quella brutta persona di Amara che ha fatto finire sotto processo mezza Procura di Milano e del duo Sallusti-Palamara con i loro inutili racconti di qualche innocua marachella per garantire che i processi, soprattutto quelli contro Berlusconi e Salvini, finissero secondo la sua personale visione della giustizia.

    Uno così, se gli togli i giocattoli, non sai più come tenerlo.

    Non andate al mare, il 12 giugno.

  • In attesa di Giustizia: a che punto è la notte

    La Corte Costituzionale si è pronunciata sulla ammissibilità dei referendum di iniziativa popolare: degli otto quesiti, tutti in materia di giustizia,  cinque sono stati ammessi e i tre che non hanno superato il vaglio sono relativi alla responsabilità civile dei magistrati, la liberalizzazione dell’uso delle droghe leggere e l’eutanasia.

    Al deposito delle motivazioni il ragionamento seguito sarà chiaro e, ovviamente, in linea con la struttura della nostra Costituzione che guida le decisioni della Corte…magari con un aiutino in termini di  interpretazione in determinati casi. E valga il vero: in un Paese con radicata tradizione cattolica le problematiche di fine vita sono ancora un tabù non meno che l’uso di cannabis e marijuana anche se sono in vendita, blandamente regolamentata, intrugli alcoolici di cui viene fatto largo uso e che per la salute sono altrettanto – se non ancora più – dannosi. Per non parlare della responsabilità dei magistrati.

    Se pure si terranno – in alternativa vi è un intervento legislativo-correttivo del Parlamento sulle materie oggetto di  referendum – le consultazioni popolari residue non sembra, tuttavia, che avranno la capacità di immutare significativamente il quadro anche perché, a seguire, sarà data nuovamente la parola alle Camere per gli “aggiustamenti” del caso: e qui, con un legislatore che definire sciatto ed approssimativo è ancora eufemistico, non c’è molto da sperare.

    Un segnale, tuttavia, c’è stato e non è da sottovalutare e riguarda – almeno apparentemente – il superamento da una parte dei cittadini di quella populistica affezione ai giudici vendicatori.

    Proprio nei giorni del trentennale di “Mani Pulite”, la coincidenza appare sintomatica.

    In effetti, grandi celebrazioni per questa ricorrenza non ve ne sono state: tra i protagonisti superstiti, in larga misura silenti o silenziati, ha fatto notizia Piercamillo Davigo perché è stato rinviato a giudizio per la vicenda legata alla propalazione di verbali secretati della Procura di Milano ricevuti con modalità opache dal P.M. Storari il quale, nel medesimo processo, ha chiesto di essere giudicato con rito abbreviato e per il quale è già stata chiesta la condanna.

    Il popolo italiano questa volta non è sceso in strada a commemorare l’evento con deliranti striscioni (all’epoca, in più in voga, recavano scritto: “Di Pietro, Davigo, Borrelli, fateci sognare”): troppo in basso è precipitata la credibilità di quella magistratura che ha dato l’avvio alla notte della Repubblica; con micidiale tempismo – cui non sono estranee ragioni di marketing editoriale – sono usciti in sequenza il secondo libro a firma Sallusti/Palamara e “Giustizia ultimo atto: da Tangentopoli al crollo della magistratura” di Carlo Nordio.

    Qualcuno, poi, di tanto in tanto torna ad auspicare, come vera ed incidente riforma della Giustizia, il diritto dei cittadini stessi di giudicare il proprio concittadino dotandosi di giurie popolari di stampo anglosassone che – a loro volta – affondano le radici in quelle previste dal diritto romano e  che potevano decidere, ad esempio, sulle accuse di malversazioni dei governatori provinciali, entro il Comitium, con dei  processi comiziali; ma, Il trial by jury  (perdonate: il latino, purtroppo, sta diventando desueto) può essere davvero il  rimedio alla tirannide dei Giudici di professione?

    Francamente vi è da dubitarne: se qualche segnale di ripresa della coscienza civile si annota, troppo diffuso è ancora il populismo giustizialista anche in settori culturalmente evoluti della società. Provate a immaginare l’equilibrio una giuria popolare in cui, facilmente, confluirebbero abbonati de Il Fatto Quotidiano, elettori dell’indimenticato Fofò Bonafede Ministro senza portafoglio della ilarità fuor di luogo, adoratori del pensiero unico “alla Gratteri”. Tanto per citarne alcuni.

    Qualcosa, forse, si muove per le riforme ma bisognerà misurarne la qualità: per ora ci si può solo domandare a che punto è la notte.

  • Sconfitte, vittorie e sconfitte travestite da vittorie

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo dell’On.Michele Rallo

    Vengo meno alle mie consolidate abitudini e, questa settimana, scrivo il pezzo per “Social” il lunedí, dopo i primi dati del referendum e delle regionali.

    È troppo presto per una analisi compiuta dei risultati, ma alcune considerazioni possono comunque farsi. In ordine sparso – naturalmente – e chiedo scusa ai lettori per il carattere disordinato delle righe che seguono.

    Referendum. Gli ultimi dati parlano di una vittoria dei SI di 70 a 30, o giú di lí. Di Maio canta vittoria con toni addirittura epici. Da un certo punto di vista ha ragione: la maggioranza degli italiani ha dato credito alla narrazione dell’antipolitica grillina. Troppo poco, peró, per cantare vittoria: i risultati delle regionali puniscono severamente i Cinque Stelle, ridimensionandoli ulteriormente e impietosamente. I grillini sono ormai incamminati stabilmente sul viale del tramonto, un viale in discesa ripida, ripidissima, con traguardo finale il precipizio.

    Decisione sbagliata. Per fare un dispetto (o per credere di farlo) al “palazzo”, gli italiani hanno votato contro i loro stessi interessi. Se ne accorgeranno presto, quando vedranno che intere province saranno rimaste senza una propria rappresentanza parlamentare, alla mercé del tornaconto delle vicine metropoli.

    Regionali: tre a tre, e palla al centro. Apparentemente, il risultato finale è di parità: tre a tre. Ma il pareggio è solo apparente, perché il Centro-destra sale e il Centro-sinistra scende. Vediamo il dettaglio.

    Il Centro-destra a quota 15 (su 20). Il Centro-destra si è rafforzato notevolmente nelle due regioni che giá controllava (Veneto e Liguria) e ne ha conquistato agevolmente una terza (le Marche). Amministra ormai 15 regioni su 20, con ció confermando di essere una solida maggioranza nel paese. Chissá se in Alto Loco se ne sono accorti.

    Il Centro-sinistra a quota 5 (su 20). Il Centro-sinistra si è rafforzato solamente nella Campania dello “sceriffo” De Luca, ha mantenuto le posizioni in Puglia con Emiliano, ha limitato i danni nella rossa Toscana (conservando la presidenza ma con uno scarto dimezzato rispetto a quello del 2015), ed è infine franato rovinosamente nelle Marche (altra regione rossa passata al Centro-destra, come l’Umbria qualche mese fa). Oltre alle 3 conservate oggi, il Centro-sinistra ne mantiene ancora 2: l’Emilia-Romagna e il Lazio. Quest’ultima regione è stata conquistata da Zingaretti nel lontano (politicamente) 2018. Il fratello di Montalbano se la tiene stretta – la regione – rinunciando anche a fare il Ministro, pur di non dimettersi da governatore e andare incontro ad elezioni anticipate (e a sicura sconfitta). Ma qualcosa in regione comincia a scricchiolare.

    Il Centro-destra non è riuscito a politicizzare il voto. Il Centro-destra ha vinto, ma non è riuscito a stravincere. Ció ha consentito al Centro-sinistra di gabellare la sconfitta per una mezza vittoria. Merito principalmente di due bravi amministratori – De Luca ed Emiliano – che sono riusciti a depoliticizzare il voto, evitando che la gente votasse contro l’incapacitá del governo nazionale a gestire la crisi economica e occupazionale, o contro la politica suicida dei porti aperti all’invasione migratoria.

    L’elettorato premia i buoni amministratori. Questo è un altro fattore che non andrebbe dimenticato: in tutte le elezioni di carattere amministrativo (regionali comprese) la gente tende a votare per chi ha dimostrato di sapere amministrare bene, mettendo in secondo piano le ragioni di schieramento politico. In Campania e in Puglia, De Luca ed Emiliano sono stati rieletti anche con l’appoggio – alla luce del sole – di ampie fasce di elettorato di destra.

    Conte salvo e Zingaretti se la cava. Il risultato politico complessivo, comunque, è sconfortante, almeno dal mio punto di vista. Il governo Conte, infatti, potrebbe sopravvivere. Se cadrá, cadrá per altre ragioni; non per il “quadro politico”, che traballa ma regge. E Zingaretti rimane alla segreteria del PD, salvato da due governatori che non lo amano affatto (e che lui non ama).

    I grillini in rotta. Se la cava anche Di Maio, almeno fino a quando riuscirá a nascondere dietro il risultato referendario lo squagliamento dei voti grillini. I Cinque Stelle hanno perso anche il terzo posto nella classifica fra i partiti – ormai stabilmente tenuto da Fratelli d’Italia – e sono adesso una forza politica a tutti gli effetti “minore”, marginale, il cui unico obiettivo è quello di restare sopra la soglia di sbarramento del 5% per evitare di scomparire del tutto. Il colpo di grazia potrebbe arrivare da un momento all’altro, per un qualche incidente di percorso; ma, se non dovesse arrivare prima, giungerá comunque con le elezioni amministrative di Roma, fissate per la primavera prossima.

    Che farà Conte? Giuseppi – ci scommetto – rinuncerá definitivamente alla possibilitá di conquistare la leadership dello sconquassato movimento grillino, e si butterá sull’altro progetto: quello di un partito tutto suo (e di Casalino). Finora è stato bravo a navigare a vista, disinnescando i molti ordigni sulla sua strada. Ha esteso a tutto il 2020 il blocco dei licenziamenti, manovrando con la cassa integrazione. Ha evitato, cosí, la paventata grande crisi sociale di autunno. E speriamo che alla grande crisi non si arrivi neanche nel gennaio del 2021.

    Corso di sopravvivenza. Il governo di Giuseppi II non ha un’anima. Si rege solo su un matrimonio di convenienza fra PD e grillini, entrambi interessati a una cosa soltanto: scongiurare le elezioni anticipate. Per evitare questo “pericolo”, tutto fa brodo. Anche una sconfitta travestita da mezza vittoria. Ma fino a quando sará possibile continuare con i giochi di prestigio?

  • Downsizing del Parlamento: le cifre

    E’ la quarta volta dal 2001 che gli elettori sono chiamati a votare il referendum confermativo (senza quorum) su una riforma costituzionale. Allora si trattò delle modifiche al Titolo V, e a prevalere fu il “si'”. Le due successive consultazioni, invece, quelle del 2006 e del 2016 che includevano anche la riduzione del numero dei parlamentari, bocciarono le riforme istituzionali dei governi Berlusconi e Renzi.

    Il 20 e 21 settembre prossimi i cittadini si pronunceranno solo sul taglio degli eletti (da 945 a 600 tra deputati e senatori) che, secondo i fautori della riforma, avvicinerebbe l’Italia alla media degli altri Paesi europei. Vale quindi la pena dare un’occhiata oltre i confini nazionali, tenendo conto che una comparazione è possibile solo rispetto alle “camere basse” (la nostra Camera dei deputati) che hanno funzioni analoghe e sono elette direttamente dai cittadini, mentre le “camere alte” (il nostro Senato della Repubblica) o non esistono o hanno funzioni ed elettività diverse.

    Un dossier messo a punto nel 2019 dal Servizio studi di Camera e Senato ha raccolto i dati più significativi per fare un confronto compiuto in termini di rappresentanza democratica: non solo, quindi, in base al numero assoluto di eletti, ma anche in relazione al rapporto numerico tra seggi e cittadini. Per quanto riguarda il totale dei parlamentari delle due camere, attualmente in cima alla classifica troviamo il Regno Unito (1.426), seguito da Italia (945), Francia (925), Germania (778) e Spagna (616). Con il taglio proposto dal referendum, l’Italia scenderebbe al quinto posto, seguita dalla Polonia (516). Una discesa che sarebbe confermata anche in relazione al rapporto tra eletti e cittadini.

    Attualmente, infatti, Regno Unito e Italia hanno un deputato ogni 100 mila abitanti, Olanda, Germania e Francia 0,9, la Spagna 0,8. Altri Paesi come Malta, Lussemburgo, Cipro, Lettonia, Estonia e Lituania hanno invece da 14 a 5 deputati ogni 100mila abitanti. Con la riduzione a 400 deputati, quindi, l’Italia finirebbe all’ultimo posto in Europa nel rapporto di rappresentanza: 0,7 deputati ogni 100mila abitanti, ovvero uno ogni 151.210.

  • Le isole Shetland vogliono separarsi dalla Scozia

    Chi di secessionismo ferisce, di secessionismo rischia di perire. E’ il caso della Scozia, dove il governo locale guidato dagli indipendentisti dell’Snp di Nicola Sturgeon non cessa di sventolare la bandiera di un preteso referendum bis sul distacco dalla Gran Bretagna, dopo quello perduto nel 2014, a causa della propria opposizione alla Brexit cavalcata a Londra da Boris Johnson; ma viene minacciato di essere ora ripagato con la medesima moneta dalle remote Isole Shetland – terre su cui 27.000 anime convivono con 80.000 pecore dalla celebre lana – che di restare amministrativamente legate alla nazione scozzese non sembrano avere più alcuna voglia.

    L’ultimo segnale è arrivato dal Consiglio amministrativo locale, il quale il 10 settembre ha approvato con 18 sì e solo 2 no una mozione “esplorativa” che raccomanda di verificare “l’opzione” di chiedere lo sganciamento da Edimburgo. L’idea è quella d’invocare l’autodeterminazione – che nel caso andrebbe sancita comunque da “un referendum”, secondo il presidente della piccola assemblea, Steven Coutts – per trasformarsi in un’entità separata: associata al Regno Unito, dal quale al contrario degli indipendentisti scozzesi gli isolani non appaiono affatto interessati a divorziare, visto il loro mercato di riferimento; ma da cui sperano di ottenere un’autonomia (anche fiscale) pari a realtà come Jersey o l’Isola di Man.

    Si tratta di valutare la possibilità di ritagliarsi una vera “autodeterminazione fiscale e politica”, ha ventilato Coutts, contestando all’esecutivo locale scozzese di aver abbandonato l’arcipelago. Edimburgo ha replicato ricordando i 15 milioni di sterline stanziati dal proprio budget negli ultimi tre anni per finanziare il vitale servizio di traghetti verso le Shetland. Ma i ribelli lamentano carenze nelle forniture di generi essenziali come i combustibili e accusano la Sturgeon di aver dimenticato “le promesse” del suo predecessore Alex Salmond sui piani di un maggiore decentramento amministrativo per le stesse Shettland, le Isole Orcadi o le Isole Occidentali di Scozia. Rinfacciandole di non aver condiviso in alcun modo i benefici della devolution strappati a Londra con questi territori marini; e di non promettere nulla di buono per loro, laddove mai la Scozia dovesse diventare davvero un giorno Stato sovrano.

  • Il mistero di alcuni Sì

    Molte sono state le dichiarazioni e le spiegazioni per il Sì e per il No al Referendum, quello che resta, apparentemente, un mistero è come leader di partiti, quali Fratelli d’Italia e Lega oltre al Pd, nonostante il parere contrario di molti loro simpatizzanti, elettori ed anche dirigenti, si ostinino a fare propaganda per il Sì. La vittoria del Sì imporrà il cambio della Costituzione che, in un paese democratico, dovrebbe essere fatta o da una costituente ad hoc o da un parlamento appena eletto con un governo guidato da un Presidente del Consiglio votato dai cittadini. La Costituzione rappresenta il presente ed il futuro di tutti noi e non può essere modificata per piccoli o grandi interessi di parte perché la democrazia è un bene comune che va difeso oggi più che mai.

    La vittoria del Sì comporta la perdita, per molti territori, dei propri rappresentanti e perciò sarà particolarmente complesso varare quella nuova legge elettorale che deve garantire a tutti una adeguata rappresentanza e sarà difficile trovare un accordo tra partiti così divisi sul sistema di voto e tutti convinti a non voler ridare ai cittadini il diritto di scegliersi il proprio rappresentante. Se infatti la preferenza richiede regole certe e particolari attenzioni, per evitare che alcuni acquisiscano in modo scorretto i voti, è altrettanto vero che la nomina dei parlamentari, che di fatto avviene da anni da parte dei capi partito, ha ridotto il Parlamento ad un organismo non più in grado di svolgere la sua funzione legislativa, come dimostra il silenzio di questa legislatura.

    Anche Cottarelli ha convintamente ricordato che la vittoria del Sì non darà nessun risparmio economico, ci sarà invece la perdita secca di un altro po’ di libertà mentre a passi rapidi si va verso un’oligarchia che non rappresenta certo l’élite culturale, morale e politica dell’Italia. Siamo in un momento, non breve, di particolare difficoltà per la salute e per l’economia e andrà ripensata la nostra società nel suo complesso ma una cosa è certa la democrazia, la vita di una nazione, nel contesto europeo ed internazionale, non si difende con populismi di varia natura, come troppi stanno facendo.

    Votare No al Referendum è l’inizio di un nuovo cammino che potranno intraprendere insieme tutti coloro che, venendo anche da esperienze culturali e politiche diverse, credono che l’Italia debba essere una repubblica democratica, parlamentare, basata su un sistema economico che sappia coniugare la libertà d’impresa con le necessarie riforme sociali che ancora mancano.

  • Le ragioni del No

    Per garantire che la modifica della Costituzione, necessaria immediatamente se dovesse passare il Sì al Referendum, corrisponda alle reali esigenze dell’Italia e non di singole forze politiche o gruppi di interesse, questa dovrebbe avvenire tramite i lavori di un’assemblea costituente. L’indizione di una costituente, in grado di ammodernare la Costituzione nata nel 1948 e che ha reso possibile la vita democratica in questi anni, richiede un accordo tra forze politiche che ad oggi dimostrano, nei fatti, di non avere la stessa visione di repubblica democratica, lo stesso rispetto per la funzione legislativa ed il ruolo del parlamento, la stessa considerazione per il diritto di scelta che dovrebbe spettare ai cittadini.

    Da lungo tempo il parlamento è esautorato dalle sue prerogative costituzionali e inesorabilmente siamo approdati ad una sistema oligarchico, per altro privo di quelle menti illuminate e colte che potrebbero, eventualmente, per un periodo breve di emergenza, giustificare che a pochi, anche non eletti dal popolo, sia consentito decidere in autonomia e scavalcando, di fatto, l’ordinamento costituzionale.

    Il problema non è diminuire il numero degli eletti ma impedire che i capi partito continuino a nominare i deputati impedendo, con le sciagurate leggi elettorali che abbiamo da troppo tempo, che i cittadini possano scegliere chi dovrà rappresentarli. Il problema è l’impreparazione, il pressapochismo, l’ignoranza di troppi parlamentari e la mancanza di norme che consentano la punizione esemplare e senza indugi di chi sbaglia e usa il suo mandato per affari illeciti.

    Votare No al Referendum è l’unico modo per riportare al tavolo della discussione il futuro della nostra democrazia, per stanare chi vuole, nascondendo i veri obiettivi dietro una falsa possibilità di risparmio, rendere sempre più ristretta e incontrollata la compagine di potere. Dire No al Referendum significa tentare di dare finalmente vita ad una stagione non solo di riforme ma anche di trasparenza, quella trasparenza che i 5 Stelle avevano tanto sbandierato e che si è tramutata nella pagina opaca del nostro presente.

    Un No convinto per difendere la Repubblica.

  • Mentre nella democratica svizzera…

    Nel nostro povero Paese, portato allo stremo da una classe dirigente indegna e con l’attuale al governo assolutamente disastrosa, si discute di un ridicolo referendum per il taglio dei parlamentari. Una riduzione che accrescerà il potere degli eletti, ridurrà la rappresentanza democratica e soprattutto permetterà a 100 senatori di modificare la Costituzione a proprio piacimento. Questo è il risultato di un declino culturale il quale, con gli ultimi due governi Conte 1 e Conte 2, si è trasformata in una vera e propria metastasi culturale.

    Mai il livello espresso da un governo aveva raggiunto dei livelli così infimi come quello degli ultimi due anni rappresentati dai Cinque Stelle, prima con la Lega e ora col PD. Il nostro Paese, se questo referendum dovesse dare esito positivo, si avvicinerebbe ad una repubblica sudamericana come Venezuela o Argentina.

    A soli 40 minuti da Milano, invece, nella confederazione elvetica, i cittadini svizzeri saranno chiamati ad esprimere il proprio parere relativo al mantenimento o meno della libera circolazione dei cittadini europei all’interno dei propri confini (https://www.swissinfo.ch/ita/economia/votazioni-del-27-settembre-2020_-gli-europei-che-sono-gi%C3%A0-in-svizzera-non-hanno-nulla-da-temere–/46010378). Mentre in Italia gli stessi sostenitori del Sì al referendum si fanno promotori di una nuova legge proporzionale, che sarebbe il disastro assoluto della nostra democrazia, nella democratica Svizzera, unico esempio di democrazia diretta, gli elettori svizzeri, attraverso il voto, esprimeranno la propria opinione assolutamente vincolante in merito ad una questione problematica.

    Se noi decliniamo verso un simil-peronismo 4.0, la vicina Svizzera ci insegna cosa sia la democrazia.

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