Ricordo

  • La memoria? Presente…

    La memoria non è un dono, va coltivata, il nostro passato deve essere conosciuto  per rimanere monito nel presente, le parole del Presidente della Repubblica sono state chiare ed inequivocabili.

    Ora, dopo le celebrazioni, sacrosante, e le inqualificabili contestazioni, cerchiamo di coltivare la memoria perché l’orrore delle foibe, il dolore dei morti e dei vivi siano presenti nella nostra memoria e nel nostro agire per impedire che, ora  e nel futuro, altri  scempi  siano commessi e i delitti e le stragi dimenticati.

  • In ricordo di Carlo Borsani

    Milano, 4 febbraio 2024

    Cara Benedetta,

    domani è un giorno molto triste, il primo anniversario della scomparsa terrena di tuo papà Carlo Borsani.

    Molto triste prima di tutto per voi figli, anche voi di sofferenze ne avete avute in questi anni, e poi per gli amici, per coloro che  volevano bene a Carlo e capivano i sacrifici che aveva fatto, non solo in politica, non volendo avere niente a che fare con “certe situazioni”.

    Credo che qualche nostalgia la proveranno anche alcuni dei suoi avversari interni, certamente molti avversari esterni gli hanno dato maggiore riconoscimento ed apprezzamento.

    Essere capiti non è semplice né scontato, c’è troppo spesso un retro pensiero ed è molto triste che un po’ tutto il mondo stia peggiorando, rimane il vecchio monito latino, comunque vada, ”non prevalebunt”.

    Nel solco dell’esempio di Carlo Borsani, padre, uomo, politico, amico, coloro che l’hanno conosciuto ed apprezzato hanno il compito di continuare a vivere nella società avendo in mente quella stessa dirittura morale e semplicità nell’agire.

    Con la promessa di organizzare un suo ricordo, aperto a coloro che non dimenticano e sentono Carlo presente, a te e ai tuoi fratelli il nostro affettuoso abbraccio,

    Cristiana, Anastasia con la redazione de Il Patto Sociale

  • La storia, la memoria per affrontare il presente

    La memoria della nostra storia dovrebbe aiutarci, non soltanto sul piano culturale, ad affrontare meglio il nostro presente ma, purtroppo, la storia si studia sempre meno, non sempre ci è presentata in modo imparziale e la memoria diventa sempre più debole.

    Per tenere viva la nostra storia e la nostra memoria ho pensato di ricordare Marzabotto, un comune dell’Appennino emiliano che rappresenta la nostra storia recente ed antica, così antica da essere parte delle nostre stesse origini.

    La Storia recente ci porta alla Seconda Guerra mondiale: tra il 29 settembre e il 5 ottobre del 1944 Marzabotto, ed i comuni di Monzuno e Grizzana Morandi, hanno vissuto una delle più tragiche pagine dell’ultima guerra: stragi ed eccidi compiuti da truppe tedesche, specie delle SS, centinaia e centinaia di civili, non solo partigiani, trucidati oltre ad altre centinaia di persone morte per cause di guerra.

    Il feldmaresciallo Kesselring fece sterminare indiscriminatamente la popolazione radendo al suolo paesi e cascine, capo dell’operazione era stato nominato il maggiore Reder.

    Nella frazione di Casaglia di Monte Sole la popolazione disperata si rifugiò nella chiesa di Santa Maria Assunta dove i tedeschi irruppero uccidendo a mitragliate il sacerdote ed alcuni anziani. Le altre persone furono fatte uscire dalla chiesa, radunate nel cimitero e a loro volta uccise a colpi di mitragliatrice: 197 furono le vittime delle quali 52 bambini. Le stragi continuarono in altri paesi e frazioni, non furono risparmiati né bambini né suore o sacerdoti.

    Tragedie come queste non possono essere dimenticate perché solo la memoria di tanto orrore può aiutarci a vivere impedendo che odio, violenza efferata, ideologie sbagliate possano portarci ad altri orrori.

    Il piccolo paese di Marzabotto ci parla anche di una storia molto antica: proprio nella sua grande parte più pianeggiante, che si affaccia sul fiume Reno, sorgeva un’antica città etrusca, Kainua, fondata nel V secolo a.C. sui resti di un precedente abitato.

    Il fiume Reno, via commerciale tra la Pianura Padana e la Toscana settentrionale, contribuì alla prosperità della città della quale possiamo ancora vedere i resti che si estendono per circa 20 ettari.

    Visitando il museo adiacente, ricco di reperti e molto ben organizzato, si ha la possibilità di avvicinarci alla misteriosa civiltà etrusca che anche per gli antichi romani era fonte di cultura e di particolare interesse per la fama dei suoi importanti aruspici. Nessun comandante romano avrebbe mai intrapreso una battaglia, o preso un’importante decisione, senza aver prima consultato il volere degli dei.

    Verso il terzo secolo a.C. l’arrivo dei celti in Italia porto la città al decadimento.

    Soltanto alla fine del 1800 il conte Pompeo Aria, proprietario dell’area, promosse lo studio e la classificazione dei reperti che aveva individuato grazie agli scavi di esperti archeologi da lui chiamati.

    Nel 1933 l’importante collezione privata fu donata, con tutta l’area, allo Stato italiano, purtroppo durante la guerra, per un bombardamento, una parte dei reperti andò distrutta ma, con perizia e pazienza, il museo è stato ricostruito e rimane una importante fonte per conoscere gli etruschi e la nostra storia.

    La vita e la morte, la disperazione e la speranza si intrecciano nella storia e la meravigliosa piana, dove sorgeva la città etrusca, o il monumento in ricordo delle stragi sono luoghi di riflessione e aiutano non solo a conoscere il passato ma anche noi stessi.

    Nel bene e nel male, in modi solo apparentemente diversi, la storia si ripete, Vico lo ricorda con i corsi e ricorsi storici, sta a noi tentare di impedire che il male, sotto qualunque forma, si ripresenti, sta a noi difendere cultura e identità nel rispetto degli altri.

    Buona Pasqua

  • Il dolore e l’attesa del ritorno nelle testimonianze delle donne degli Internati Militari Italiani

    “Per Teresa e Angiolina. Alle donne. Ai pianti e alle sofferenze. All’attesa e al coraggio”. Inizia con una dedica il libro Gli Internati Militari Italiani. Testimonianze di donne, (Ciesse Edizioni) scritto dalla docente e storica Silvia Pascale e Orlando Materassi, presidente nazionale Anei, Associazione Nazionale ex Internati, coordinatore del Comitato Tecnico-Scientifico del progetto “Gli Internati Militari Italiani”.

    In perenne attesa, tra lacrime e paura, speranza e lotta, protagoniste silenziose e dimenticate dalla Storia: sono le donne, mogli, madri, promesse spose, sole e sotto le bombe, senza i loro uomini lontani per la guerra sulle quali, per la prima volta, sono puntati i riflettori.

    Il nastro si riavvolge e ci riporta a ottant’anni fa, in quei venti mesi che cambiarono la Storia e le storie di molti e in tante combatterono una guerra in silenzio, dietro le quinte, ma non per questo meno dolorosa. Attraverso i diari, le lettere, il vissuto delle donne degli internati i due autori non solo rendono omaggio e giustizia alle loro vicende, passate in secondo piano – se non dimenticate -, ma ci restituiscono la trama di un racconto intimo che ha pari dignità e sofferenza di quello vissuto da chi sul campo la guerra l’ha combattuta con le armi e con il sacrificio della propria vita.

    All’indomani del conflitto nessuno o quasi si è chiesto qual è stato il ruolo di queste donne, qual è stato il significato della loro attesa, se la loro silenziosa presenza avesse o meno forma di Resistenza. Nelle nostre famiglie dopo la guerra, non si parlava quasi mai di quel periodo, a tavola (il momento in cui la famiglia si riuniva) non era un argomento di conversazione. I civili pagarono un tributo altissimo alla guerra, le donne in particolare”. E’ un estratto del libro dal quale traspare tutto il pudore che ruotava attorno a quelle storie di donne, un pudore che sappiamo comune a tanti che per anni decisero di tenere nascosti i ‘ricordi’ di guerra. “Dopo l’8 Settembre 1943, non solo mamma Teresa e la promessa sposa di Elio Materassi, Angiolina, ma anche nonna Concetta da San Severo (Foggia), che pianse fino all’ultimo suo giorno di vita quel figlio, Vincenzo Villani, matricola 117853 dello Stalag VII A, mai tornato tra i 650mila Imi e diventato Milite Ignoto. E poi Gigliola, Mariuccia, Gemma, gli Angeli di Pescantina, Olga…”. Storie simili tra di loro eppure uniche, perché unico è il dolore che ciascuno riesce a provare davanti alla perdita e all’idea del non ritorno.

    Ciascuna cercava di avere notizie come poteva, la guerra, i bombardamenti, la fame, il dolore, la carenza di comunicazioni rendevano il loro vivere duro ma non per questo si abbatterono. Donne di altri tempi, si direbbe oggi, con la forza e la tempra che solo le difficoltà riescono a plasmare, capaci di aspettare,amare e trasmettere a figlie e nipoti l’eredità di una battaglia silenziosa e appassionata affinché quella storia non andasse perduta. Un filo rosso tra Internati Militari Italiani e figli o nipoti che è stato rappresentato dalle donne della famiglia in maniera estremamente silenziosa, un passaggio di testimone, in parte implicito in parte esplicito, delle sofferenze e dei ricordi degli uomini internati.

  • 1945 – 2020: le Foibe, settantacinque anni di inutile storia

    Settantacinque sono gli anni passati dalla fine della guerra fino ai tempi odierni. Anni che hanno permesso al nostro Paese di crescere come democrazia e rientrare nel novero delle società evolute e secolarizzate occidentali. In questo contesto evolutivo, tuttavia, la cultura massimalista comunista rimane semplicemente ed assolutamente fedele a se stessa anche se vestita di un falso progressismo targato Pd. Una dottrina politica che trova nella censura l’espressione di una presunta superiorità ideologica.

    In settantacinque anni di storia democratica del nostro Paese ancora oggi non si intendono comprendere e tanto meno assimilare i valori della Libertà e della tolleranza, soprattutto quando questi risultino espressione di posizioni politiche ed ideologiche contrarie e magari opposte alla propria. Ulteriore dimostrazione di come questa “latitudine” politica non meriti la libertà che il sistema occidentale le ha prima regalato e successivamente permesso di mantenere.

    Ancora oggi nostalgici di una superiorità della ragione statale rispetto alle single opinioni dei cittadini non sono riusciti a raggiungere quel grado di consapevolezza che permetta di apprezzare il piacere di vivere in una società occidentale della quale ogni espressione di pensiero risulti libera quanto tutelata. Quindi, come tale, anche la satira è una libera espressione, alle volte anche estrema e detestabile, della medesima libertà di pensiero.

    Viceversa nulla è cambiato nell’impianto ideologico che include l’utilizzo di una censura la quale invece non potrà mai trovare giustificazione in nome di una qualche ideologia o superiorità delle prerogative statali. La regressione che queste ideologie massimaliste impongono non permettono neppure di comprendere come il ricordo delle Foibe non vada a togliere ma a creare ulteriore spazio alla storia della Seconda Guerra Mondiale e conseguentemente offre il giusto valore ad un dramma per decenni negato. Riconoscimento di un giusto ricordo di un dramma che permetta di completare una visione dei disastri, come dei drammi umani, che la Seconda Guerra Mondiale ha provocato lasciando in eredità un dolore che ancora oggi con difficoltà viene riconosciuto.

    Nonostante qualche timido tentativo di porre rimedio al negazionismo ideologico che ha contraddistinto tutta la sinistra nel suo complesso fino a qualche anno addietro, ancora oggi la censura viene finalizzata ed utilizzata come uno strumento politico. In questo con l’appoggio vergognoso di quei ‘miserabili’ dell’Anpi che finanziano i negazionisti delle Foibe.

    Tutto questo dimostra ancora una volta quanto sia manifesto ma soprattutto presente un massimalismo ideologico negazionista relativamente ai drammi legati alle Foibe. Una  regressione culturale ed ideologica di cui la censura odierna ne rappresenta uno strumento e dimostra come questi ultimi settantacinque anni siano passati inutilmente.

    Francesco Pontelli

    Orgoglioso figlio di Antonio Pontelli, un altrettanto orgoglioso esule Zaratino

     

  • “Il Giorno del Ricordo”, in memoria delle vittime delle foibe

    Il 10 febbraio è il giorno dedicato al ricordo, in memoria delle vittime delle foibe e dell’esodo forzato giuliano dalmata. Anziché con un nostro articolo di redazione, vogliamo commemorare questo giorno con la pubblicazione delle testimonianza pronunciata dalla giornalista Lucia Bellaspiga, inviata del quotidiano Avvenire, il 10 febbraio 2017 a Montecitorio, alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, dal presidente del Senato, Pietro Grasso e dalla presidente della Camera, Laura Boldrini. Il suo testo esprime le dolorose condizioni dell’esodo da Pola patite dalla sua famiglia ed è emblematico di una situazione storica, taciuta per settant’anni, che ha rappresentato una pulizia etnica e politica praticata con violenza estrema dal comunismo titino. E’ una storia che ancora oggi mostra ferite non sanate e delitti rimasti impuniti. Che il giorno del ricordo contribuisca a sanare quelle ferite e a difendere una verità ancora oggi non del tutto condivisa.

    La mia prima volta a Pola, da bambina, è il ricordo di mia madre che piange aggrappata a un cancello. Un’immagine traumatica, che allora non sapevo spiegarmi. Eravamo là in vacanza, il mare era il più bello che avessi mai visto, le pinete profumate: perché quel pianto? Al di là di quel cancello una grande casa che doveva essere stata molto bella, ma che il tempo aveva diroccato. Alle finestre i vetri blu, “erano quelli dell’oscuramento” mi disse mia madre, eppure la seconda guerra mondiale era finita da trent’anni. Tutto era rimasto come allora. La finestra si aprì e una donna gentile, con accento straniero, capì immediatamente: “Vuole entrare?”, chiese a mia madre. Solo adesso comprendo la tempesta di sentimenti che doveva agitare il suo cuore mentre varcava quella soglia e rivedeva la sua casa, la cucina dove era risuonata la voce di mia nonna, le camere in cui aveva giocato con i fratelli. Sono passati molti anni prima che io capissi davvero: la scuola certo non ci aiutava, censurando completamente la tragedia collettiva occorsa nelle terre d’Istria, Fiume e Dalmazia, e d’altra parte molti dei testimoni diretti, gli esuli fuggiti in massa dalla dittatura del maresciallo Tito e dal genocidio delle foibe, rinunciavano a raccontare, rassegnati a non essere creduti. Ciò che durante e dopo la II guerra mondiale era accaduto in decine di migliaia di nostre famiglie restava un incubo privato da tenere solo per noi perché al resto degli italiani non interessava. Eppure era storia: storia nazionale… Anche i miei cari sparsi per l’Australia mi sembravano quasi irreali, figure fantastiche che immaginavo mentre, imbarcati sulla nave “Toscana”, lasciavano Pola per sempre, via verso l’ignoto. Ogni ritorno porta con sé un dolore, così per molti anni a Pola non tornammo più. Ma dentro di me intanto lavorava il richiamo delle origini, cresceva il desiderio che ogni donna, ogni uomo ha di sapere da dove è venuto, così, come tanti miei coetanei, ho iniziato a ripercorrere l’esodo dei nostri padri in senso inverso. Intanto il Novecento è diventato Duemila, l’Europa una casa comune sotto il cui tetto abitano popoli un tempo nemici, e i giovani oggi, da una parte e dall’altra, sognano un mondo nuovo, segnato dalla pace e dal progresso condiviso. E noi? I figli e nipoti dell’esodo, noi nati “al di qua”, che ruolo abbiamo in questo mondo che cambia ma che non deve dimenticare? Tocca a noi, dopo il secolo della barbarie, tenere alta la memoria non per recriminazioni o vendette, ma perché ciò che è stato non avvenga mai più. Se il perdono, infatti, è sempre un auspicio, la memoria è un dovere, è la via imprescindibile per la riconciliazione: non è vero che rimuovere aiuti a superare, anzi, la storia dimostra che il passato si supera solo facendo i conti con esso e da esso imparando. Sono trascorsi settant’anni da quando 350mila giuliano-dalmati sopravvissuti agli eccidi comunisti abbandonarono con ogni mezzo la loro amata terra, sperimentando la tragedia dello sradicamento totale e collettivo. La maggior parte di loro è morta senza avere non dico giustizia, ma almeno il sacrosanto diritto di veder riconosciuto il proprio immane sacrificio. Chiedo in prestito le parole al presidente emerito Giorgio Napolitano: “La tragedia di migliaia di italiani imprigionati, uccisi, gettati nelle foibe assunse i sinistri contorni di una pulizia etnica”, ha detto nel 2007, rompendo dopo 60 anni la cortina del silenzio. “Il moto di odio e di furia sanguinaria” aveva come obiettivo lo “sradicamento della presenza italiana da quella che era, e cessò di essere, la Venezia Giulia”. Ma soprattutto gli siamo grati per il mea culpa pronunciato a nome dell’Italia: “Dobbiamo assumerci la responsabilità dell’aver negato la verità per pregiudizi ideologici”. Un altro grande passo sulla via della verità è stato compiuto proprio qui alla Camera il 13 giugno scorso, quando per la prima volta dopo 68 anni si è commemorata (e riconosciuta) la strage di Vergarolla, 28 ordigni fatti esplodere sulla spiaggia di Pola, oltre cento vittime tra adulti e bambini. Era l’agosto del 1946, già in tempo di pace, si tratta quindi della prima strage della nostra Repubblica, più sanguinosa di piazza Fontana, più della stazione di Bologna, eppure da sempre nascosta. Con Vergarolla fu chiaro che la sola salvezza era l’esilio. L’esilio… Proviamo a immaginare il momento del distacco definitivo: uscire dalla casa dove sei sempre stato e non per tornarci la sera, no: mai più. Tiri la porta e delle chiavi non sai che fare: chiudere? A che serve? Domani stesso nelle tue stanze entrerà gente nuova, che non sa nulla della vita vissuta là dentro. Ti porti dietro quello che puoi, poche cose, ma ciò che non potrai portare con te, che mai più riavrai, è la scuola che frequentavi, le voci degli amici, un amore che magari sbocciava, il negozio all’angolo, l’orto di casa, i volti noti, il tuo mare, il campanile… persino i tuoi morti al cimitero. Addio Pola, addio Fiume, addio Zara. I racconti sono spesso uguali: in una gelida giornata di bora, in un silenzio irreale rotto solo dai singhiozzi, la nave si staccava dalla riva che era sempre più lontana. Da laggiù la tua casa, la tua stessa finestra diventavano già quel dolore-del-ritorno che mai sarebbe guarito. Da che cosa si scappava? Dai rastrellamenti notturni, dalle foibe, dai processi sommari. Dai massacri perpetrati in quelle regioni d’Italia dai partigiani jugoslavi nell’autunno del 1943 e di nuovo dal maggio del 1945, cioè quando il mondo già festeggiava la pace. Se nel resto d’Italia il 25 aprile a portare la Liberazione erano gli angloamericani, nelle terre adriatiche facevano irruzione ben altri “liberatori”. E iniziava il terrore. Da Gorizia e Trieste fino giù a Zara dei colpi alla porta con il calcio del fucile preannunciavano l’ingresso dei titini e il rapimento dei capifamiglia, centinaia ogni notte. Poi sparirono anche le donne, persino i ragazzini: “Condannato”, si legge sulle carte dei processi farsa, in realtà fucilati a due passi da casa o gettati vivi nelle foibe, tanti nel mare con una pietra al collo. Da questo si fuggiva. Ma dove? In un’Italia povera e da ricostruire, anche solo un parente in una città lontana era l’ancora di salvezza, a Milano, La Spezia, Ancona, Venezia, Roma, Taranto… Sorsero villaggi giuliano-dalmati, quartieri di esuli, ma anche campi profughi, più di 100 in tutta Italia, ex manicomi, ex carceri, caserme dismesse, dove le famiglie si trovarono scaraventate in un nuovo incubo. Pensate, pensiamo cosa significhi: comunità spezzate, tessuti sociali frantumati, improvvisamente non più i colori della propria terra ma miseri accampamenti dove restarono per anni, le coperte appese a fare da parete tra una famiglia e l’altra. Qualcuno impazzì, qualcuno, svuotato della propria identità, si tolse la vita, molti morirono di crepacuore (così morì mia nonna). Al loro arrivo, presero loro le impronte digitali, come fossero delinquenti. Fascisti! Così erano chiamati, solo poiché fuggivano da un regime comunista, e il grave equivoco resta ancora oggi incancrenito in residue forme di ignoranza, che il Giorno del Ricordo vuole dissipare: gli italiani della Venezia Giulia uscivano da un’Italia che era stata fascista, esattamente come gli italiani di Roma, Trento, Napoli… I nostri nonni e genitori erano stati antifascisti o fascisti esattamente come tutti gli altri italiani. Si usciva tutti, indistintamente, dalla stessa guerra persa. Nelle foibe furono gettati maestri di scuola, impiegati, carabinieri, medici, artigiani, operai, imprenditori… tutti, purché italiani o avversi alla nuova dittatura. E quanti tra questi erano stati antifascisti! Ma c’è poi un secondo enorme equivoco in cui ancora oggi incorre chi non conosce la storia: “Di che vi lamentate? – dicono – L’Italia ha perso la guerra, era giusto che pagasse”. Vero, ma tutta l’Italia era stata sconfitta, eppure per saldare i 125 milioni di dollari, debito di guerra dell’intera nazione, il governo utilizzò le case, i negozi, i risparmi di una vita, soltanto dei giuliano-dalmati. Promettendo indennizzi poi mai erogati. Se dunque noi oggi qui abbiamo le nostre case, se Milano, Palermo, Torino, Bari sono ancora Italia, è perché i giuliano-dalmati hanno pagato per tutti. Le loro vite hanno riscattato le nostre. Vogliamo almeno dire grazie? Vogliamo che almeno si sappia e che si studi a scuola? E intanto che cosa succedeva al di là dell’Adriatico, dove poche migliaia di italiani erano rimasti per vari motivi, per non lasciare la propria casa, per non separarsi dai loro vecchi, perché fiduciosi nel nuovo regime comunista, o invece perché dallo stesso regime non ottenevano il permesso di partire? Accusati dagli esuli di essere comunisti e dagli jugoslavi di essere italiani quindi fascisti, a loro volta patirono una sorta di esilio in casa loro. E con questo torno alla domanda iniziale: che ruolo abbiamo oggi tutti noi, i nati dopo l’esodo sulle due sponde dell’Adriatico? Due ruoli principalmente. Il primo: difendere una verità ancora non del tutto condivisa. Ma in questa opera di civiltà riusciremo solo con il sostegno forte e incondizionato delle Istituzioni. Se infatti l’essere qui, oggi, alla presenza delle massime cariche dello Stato legittima senza se e senza ma la nostra Storia, atti di vandalismo morale contro la nostra memoria sono sempre in agguato (basti accennare all’amministratore locale che pochi mesi fa, proprio in un anniversario storico per gli esuli e per l’Italia intera, ha ufficialmente esaltato Tito come liberatore delle nostre genti). Secondo nostro ruolo è vegliare perché il Giorno del Ricordo non diventi col tempo un retorico appuntamento celebrato per dovere o una sorta di lamentoso amarcord, ma sia testimonianza sempre vivaCito al riguardo due storie esemplari, tra le tante che ho incontrato nel mio lavoro di giornalista. Giorgia Rossaro Luzzatto, goriziana, nella cui famiglia si intrecciano i drammi del Novecento: il padre ucciso dai partigiani di Tito, la nonna deportata ad Auschwitz dai tedeschi, uno zio assassinato alle Fosse di Katyn, due cugini morti nei gulag sovietici. A 92 anni va per le scuole, voce irrinunciabile, perché i ragazzi sappiano. E Sergio Uljanic, che ha vissuto tutta l’infanzia, sette anni, nei campi profughi di Gorizia, Bari, Bagnoli e Torino. Nato il 16 settembre del 1947, è l’ultimo esule di Pola: il giorno prima gli inglesi avevano consegnato le chiavi della città agli jugoslavi. A Trieste nel Magazzino 18 restano le masserizie degli esuli. Ma nelle case di ognuno di noi c’è un Magazzino 18 personale, e anche io ho il mio. È un grande specchio dalla casa di Pola, partito anche lui con l’esodo, e mi piace pensare che su quella superficie si riflettevano i volti dei miei nonni, di mia madre bambina, delle persone di cui mi parla sempre. In un certo senso nessuno li potrà cancellare, sono rimasti là dentro, invisibili, ma come dice Saint-Exupéry nel Piccolo Principe “l’essenziale è invisibile agli occhi”. Loro sono il nostro essenziale, non dimentichiamo di onorarli.

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