Russia

  • Non c’è tempo da perdere e parole da sprecare in annunci roboanti

    “La vera pace ci sarà, si potrà raggiungere, quando l’Ucraina prevarrà”, ha detto il Segretario generale delle Nazioni Unite evidenziando comunque che prima o poi un accordo si dovrà trovare.

    Quello che però continua a rimanere il problema è che i russi avanzano con un costante aumento di mezzi ed uomini mentre l’Ucraina è sempre più in difficoltà perché non arrivano le armi promesse dall’Occidente, Stati Uniti in testa.

    L’Ucraina baluardo a difesa della sicurezza dell’Europa, l’Ucraina esempio di come i popoli debbano difendere il suolo nazionale ed i governi le leggi internazionali mentre vanno sconfitti coloro che queste leggi violino e non rispettano i diritti umani e la libertà. Questo è tanto altro si è detto in questi anni di guerra.

    Tutto bello, anche romantico, ma intanto gli ucraini muoiono davvero e gli edifici civili, le case della gente, le infrastrutture che danno luce ed acqua, sono rasi al suolo in una guerra d’aggressione che Putin conduce, dall’inizio, ignorando ogni regola mentre, nel frattempo, gli aiuti promessi sono molti, molti di più di quelli che invece sono effettivamente arrivati e spesso anche in ritardo.

    Non c’è tempo da perdere e parole da sprecare in annunci roboanti ai quali non seguono fatti concreti, le armi servono ora altrimenti gli ucraini non potranno più difendersi ed i russi vinceranno anche su di noi.

  • I gulag ufficialmente non ci sono più. Ma anche Navalny non c’è più

    Gulag è l’acronimo di Direzione principale dei campi di lavoro correttivi, in russo Glavnoe upravilenie ispravitel no.rudovych legerej. Il termine è diventato popolare in occidente, come descrizione del sistema dei lager sovietici, grazie al racconto di Aleksandr Solzenicyn (uscito in Occidente nel 1973 e in Urss solo nel 1989), ma i gulag risalgono già all’epoca degli zar. Già nel XVIII secolo, infatti, gli oppositori politici venivano spediti in Siberia, a svolgere lavori forzati nei giacimenti presenti in quella regione.

    Dopo la rivoluzione russa e la deposizione dello zar, la prassi di spedire gli oppositori in quelle terre non viene però abolita, anzi. Lenin nel 1918 teorizzò la necessità di «proteggere la repubblica sovietica dai nemici di classe, isolandoli in campi di concentramento, fucilare seduta stante qualsiasi individuo implicato nei complotti, nelle insurrezioni e negli scontri». La Ceka, il servizio segreto antesignano del Kgb e dell’attuale Fsb, provvide a tramutare le parole in fatti: il 3 aprile 1919, il suo capo e fondatore, Feliks Dzerzhinskij, creò la Direzione generale dei campi di lavoro forzato e dei luoghi di detenzione, Gulag appunto. Il primo gulag sovietico, per quanti erano condannati in base all’articolo 58 del codice penale, venne subito aperto presso il monastero delle isole Solovetskije, sul Mar Bianco (è quello al centro del racconto di Solzhenitsyn), ma già nel 1921 i gulag erano diventati 107, più della metà dei quali in Siberia. Tra il 1930 e il 1960, con l’avvio delle purghe staliniane e fin poco oltre la morte dello stesso Stalin, si calcola che siano stati avviati nei gulag oltre 18 milioni di persone: non è dato sapere quante vi siano decedute ma il numero minimo si aggira intorno ai 2 milioni, vale a dire un detenuto ogni 9. A Kolyma, dove si raggiungono temperature di 60 gradi sotto zero, il tasso di mortalità era del 30%. Ancora oggi in alcune zone dove un tempo sorgevano strutture detentive (molte di epoca staliniana furono smantellate dopo la morte dello stesso Stalin) capita che spuntino teschi e ossa umana dalla terra.

    Ufficialmente, la Direzione dei campi è stata cancellata da Michail Gorbaciov nel 1987, ma strutture detentive in Siberia sono tuttora operanti, come testimoniano la detenzione ed il decesso di Aleksej Navlany e la reclusione di Vladimir Kara-Murza. Nell’epoca di Vladimir Putin, secondo le denunce degli oppositori, i processi agli oppositori hanno superato per quantità quelli dell’epoca di Leonid Breznev.

  • Chi trarrà vantaggio dall’attentato a Mosca?

    Putin, costretto dalle prove ad ammettere che il tragico attentato di Mosca è stato compiuto da terroristi islamici, insiste nel cercare responsabilità di Kiev e dei paesi occidentali, additandoli come i mandanti e gli addestratori, per giustificare il fallimento dei suoi servizi di sicurezza e crearsi un ‘alibi’ per intensificare i barbari attacchi contro i civili ucraini.

    Lo zar sostiene, e sarebbe ridicolo se invece non fosse tragico, che l’Ucraina avrebbe un beneficio dalla strage di Mosca! Quale sarebbe questo beneficio? Non è stato un attacco contro una struttura militare, contro lo stesso Cremlino, contro chi tiene detenuti i dissidenti ma un eccidio di civili che porterà nuove repressioni in Russia e ancora maggiore violenza militare, bombe, morti e feriti in Ucraina.

    Il cui prodest vede solo due ipotesi, quella ovvia e ufficializzata di una nuova azione dell’Isis K, che ha già ripetutamente preso di mira la Russia e che vuole, come ogni organizzazione terrorista, colpire nel mucchio e diramare il terrore, o quella di un attentato cresciuto all’interno dell’apparato per giustificare le prossime nefandezze e crudeltà di Putin.

    In effetti l’unico che trarrà vero beneficio dalle morti e dai feriti è lo stesso presidente che, come in altre occasioni simili, chiamerà tutti ad una maggiore coesione per difendere la madre Russia, spazzerà via quei dissidenti che hanno avuto il coraggio di opporsi il giorno delle elezioni, additerà l’Occidente come il nemico numero uno e chiederà di seguirlo senza protestare nella distruzione dell’Ucraina.

    Ormai sappiamo bene che ogni dichiarazione di Putin è una falsità, che mente sapendo di mentire e che dalle sue menzogne costruisce le sue verità, conosciamo da tempo i sistemi di controinformazione e manipolazione dell’apparato del Cremlino e sappiamo altrettanto bene che la sete di sangue e di potere del nuovo zar è immensa, perciò prepariamoci.

  • Chi vota ha sempre ragione se il suo voto è libero

    Chi vota ha sempre ragione se vota in un Paese democratico nel quale la libertà è un diritto fondamentale ed inalienabile.

    Se vive in un Paese dove la minoranza è rispettata ed ha il suo spazio, un Paese con regole certe ed un’informazione libera a tutto campo, un Paese, uno Stato, una Nazione il cui governo non imprigiona gli avversari e li suicida o uccide, una nazione che rispetta il diritto internazionale e la vita dei suoi cittadini.
    Se le elezioni si svolgono in un paese libero e democratico ognuno ha il diritto di esprimere la sua scelta ed il risultato elettorale va rispettato, in caso contrario si tratta di elezioni farsa, guidate dalla forza di chi detiene in modo assoluto il potere e nessun risultato può essere riconosciuto come attendibile.
    Lo diciamo con calma a Salvini e ai tanti o pochi amici di Putin che vivono in Italia ricordando che se hanno tanta ammirazione per il nuovo zar niente vieta a loro di andare a vivere in Russia, quello che certamente non consentiremo a nessuno è di tentare di portare in Italia, in Europa, l’autocrazia e qualunque altro regime che privi i cittadini della libertà e dei diritti fondamentali che regolano le democrazie.

  • Bandiera bianca e la forza della diplomazia

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo del Prof. Francesco Pontelli

    Come ha specificato Matteo Bruni, direttore della sala stampa del Vaticano, “Il Papa usa il termine bandiera bianca, riprendendo l’immagine proposta dall’intervistatore, per indicare la cessazione delle ostilità, la tregua raggiunta con il coraggio del negoziato”.

    In altre parole il Papa, a differenza delle interpretazioni ideologiche dei media, i quali arrivano ad accusare il Papa di esprimere una posizione filorussa, non ha interpretato la figura retorica della “bandiera banca” come una resa, ma semplicemente deve venire intesa come l’inizio di una presa di coscienza della impossibilità di un esito positivo della guerra (un esito per entrambi i belligeranti, sia chiaro) e da questa consapevolezza andrebbe considerata una inevitabile e immediata apertura di un tavolo di negoziazione.

    In questo contesto, in una sola battuta, vengono azzerate tutte le strategie dell’Unione Europea e del leader ucraino, i quali invece chiedevano e pretendono tuttora maggiori investimenti in armamenti ed equiparano la crisi russo-ucraina a quella del 1939 che diede inizio alla Seconda guerra mondiale, paragonando Putin ad Hitler. Quasi che il quadro politico-istituzionale ed internazionale prebellico della Seconda guerra mondiale potesse essere anche solo paragonato a quello attuale, una visione che definisce l’approccio puramente ideologico nella azzardata similitudine tra i due momenti storici.

    Esattamente come dovrà avvenire a Gaza, così nello scenario russo-ucraino la soluzione finale non può venire individuata in una semplice vittoria di uno dei due contendenti all’interno di una progressiva escalation bellica ed anche di spese pubbliche finalizzate alla acquisizione di maggiori armamenti.

    Viceversa, a questa strategia va affiancata un’altra che valuti da subito l’istituzione di un tavolo negoziale al quale dovranno sedersi i due nemici e i diversi negoziatori. In questo contesto si manifesta evidente la perdita di un’occasione unica per l’Europa in chiave diplomatica, avendo appoggiato sic et nunc la sola difesa dell’Ucraina, eletta a simbolo della democrazia, senza aprire un tavolo negoziale con Putin, di fatto adottando la strategia della NATO come la propria politica estera.

    Il fallimento di questa strategia è evidente in quanto la sottovalutazione della capacità di resistenza della Russia emerge chiara poiché l’economia russa crescerà nel 2024 ben quattro volte quella europea, quando dal 2022 tutti i vertici dell’Unione Europea parlavano di un prossimo default dello Stato russo.

    Queste medesime competenze europee ora spingono a favore della creazione di un esercito europeo e magari di un arsenale nucleare, del cui effetto deterrente, anche in considerazione dell’esito ottenuto con le strategie europee dal 2022 ad oggi, è legittimo dubitare.

    All’interno, quindi, di una rinnovata attenzione alla realpolitick, poco importa che sia stato Putin, come tutti sappiamo, ad iniziare il conflitto. E ricordando l’importanza, come fattore di pressione, della politica espansiva della NATO che ha accentuato questa tensione regionale, quello che risulta fondamentale adesso è individuare come si possa ottenere una pace senza arrivare ad uno scontro bellico ancora più generale.

    Se veramente si credesse che la vita rappresenti il bene supremo da tutelare, di conseguenza chiunque si adopererebbe con l’obiettivo di trovare un accordo, se non altro per interrompere la carneficina di civili.

    Tutto il resto è delirio ideologico, politico e purtroppo militare.

  • Russia e Cina consolidano la loro presenza in Libia

    Russia e Cina rafforzano la loro presenza in Libia con l’apertura dell’ambasciata russa a Tripoli, al capitale sotto il controllo del Governo di unità nazionale (Gun), e le crescenti attività di un misterioso consorzio di Pechino in Cirenaica, la regione orientale dominata dall’Esercito nazional libico (Lna) del generale Khalifa Haftar.

    Il 22 febbraio, Mosca ha compiuto un passo significativo nel consolidamento delle sue relazioni con la Libia riaprendo la sua ambasciata nella capitale, sette mesi dopo la presentazione delle lettere credenziali dell’ambasciatore russo, Haider Aghanin, al Consiglio presidenziale libico, organo tripartito che svolge le funzioni di capo di Stato. Mosca aveva da tempo avviato le procedure per il pieno ripristino della sua missione diplomatica a Tripoli, chiusa nel 2014, e rafforzato le relazioni con il Gun, l’organo esecutivo libico riconosciuto dalle Nazioni Unite. L’apertura della sede diplomatica concretizza ora questo avvicinamento tra Mosca e l’amministrazione della Libia occidentale. Non solo. Mosca ha fissato l’apertura entro l’anno in corso di un consolato generale a Bengasi, il capoluogo della Libia orientale dove la Russia mantiene una presenza militare nella Libia tramite i combattenti dell’ex gruppo Wagner, oggi contrattualizzati con il ministero della Difesa russo.

    La cerimonia di apertura dell’ambasciata russa ha visto la partecipazione del ministro del Petrolio e del gas del Governo di unità nazionale, Mohamed Aoun, e del ministro della Cultura e dello sviluppo della conoscenza, Mabrouka Toghi. Citato dal quotidiano libico “Al Wasat”, Aoun ha sottolineato che la riapertura dell’ambasciata russa a Tripoli rappresenta un “passo importante” che rafforzerà le relazioni bilaterali e promuoverà la cooperazione tra i 2 Paesi, inviando alla comunità internazionale il “messaggio forte” che la Libia sta consolidando la sua stabilità e sicurezza. Il ministro ha evidenziato inoltre l’importanza della collaborazione nel settore energetico, sottolineando che la cooperazione nel campo dell’energia, del petrolio e del gas rappresenta uno degli aspetti più vitali delle relazioni tra Russia e Libia. Durante un discorso tenuto in arabo, l’ambasciatore russo Haider Aghanin ha annunciato anche l’imminente apertura del consolato generale a Bengasi, confermando l’impegno verso una presenza più attiva e una cooperazione duratura nella regione. Il diplomatico russo ha detto che le relazioni tra la Federazione Russa e la Libia stanno entrando in una “nuova era di cooperazione e comprensione reciproca”. L’ambasciatore ha inoltre annunciato che l’ambasciata russa celebrerà il 70esimo anniversario delle relazioni bilaterali il prossimo 25 settembre 2025, evidenziando il significato profondo di questo impegno.

    Nella stessa giornata del 22 febbraio, il presidente della Camera dei rappresentanti della Libia, Aguila Saleh, ha ricevuto il responsabile del consorzio cinese Bfi, Saleh Attia, alleanza tra imprese guidata dalla China Railways International Group Company, e il ministro dell’Economia del cosiddetto Governo di stabilità nazionale (Gsn) non riconosciuto dall’Onu con sede nell’est del Paese, Ali al Saidi. Al centro dei colloqui, riferisce l’ufficio stampa del Parlamento libico con sede nell’est, gli ultimi sviluppi relativi ai progetti nel campo delle fonti rinnovabili di energia, come la costruzione di centrali di energia solare a Kufra, Al Makhlili e Tamanhint, ma anche delle infrastrutture, come il progetto ferroviario per collegare il capoluogo cirenaico Bengasi alla città mediterranea di Marsa Matrouh, in Egitto, passando per la municipalità di Musaed al confine tra libico-egiziano. Un memorandum d’intesa su questo progetto è stato firmato il 9 febbraio. Vale la pena ricordare che 2 mesi fa circa, alcune aziende cinesi avevano stretto un accordo con il capo del cosiddetto Fondo per la ricostruzione della Libia, Belkacem Haftar, figlio del comandante dell’autoproclamato Esercito nazionale libico (Enl), Khalifa Haftar, per la ricostruzione della città di Derna e delle zone colpite dalle devastanti inondazioni che hanno colpito la regione orientale della Libia lo scorso mese di settembre. A fine ottobre, il ministro “orientale” Al Sidi aveva dichiarato a “Radio France International” che “la Cina è oggi la potenza effettiva che potrebbe costruire ponti, infrastrutture e strade in brevissimo tempo”. Secondo il ministro, la Cina starebbe finanziando in Libia un progetto da 30 miliardi di dollari (28 miliardi di euro) per costruire metropolitane proprio attraverso il consorzio Bfi. “In realtà si tratta di informazioni esclusive che nessuno conosce tranne il mio ministero e le parti coinvolte nell’accordo”, aveva aggiunto Al Sidi.

    Fonti libiche di “Agenzia Nova” a Tripoli hanno riferito che allo stato attuale non risultano avviati investimenti cinesi nel comparto delle infrastrutture nordafricane. Però, sarebbe sbagliato sottovalutare il ruolo che la Cina ha giocato e sta ancora giocando in Libia. Prima della guerra civile del 2011, la cinese China National Petroleum Corp disponeva di una forza lavoro in Libia di ben 30 mila operai e tecnici cinesi, riuscendo ad incanalare oltre il 10 per cento delle esportazioni di greggio “dolce” libico. Ma è soprattutto nel settore delle infrastrutture, marchio di fabbrica dei progetti di Pechino “chiavi in mano”, che la Cina ha puntellato la sua presenza in Libia. Ai tempi dell’ex Jamahiriya del colonello Muammar Gheddafi, China Railway aveva avviato in Libia 3 importanti progetti del valore totale di 4,24 miliardi di dollari. Il caos della guerra civile ha bloccato tutto, ma una possibile stabilizzazione (o partizione) del Paese potrebbe far ripartire i progetti.

  • Muscardini: “Senza l’integrità territoriale dell’Ucraina non vi può essere pace giusta e sicurezza per la democrazia anche nella stessa Europa”

    Nonostante il tempo, tornato freddo e qualche scroscio di pioggia, la manifestazione a sostegno dell’Ucraina, organizzata dall’Associazione NADIYA, a Piacenza sabato 24 febbraio a due anni dall’invasione russa, ha avuto una folta partecipazione non solo di ucraini ma anche di molti cittadini italiani.

    L’inno ucraino e poi l’inno italiano, cantati dal vivo da una cantante lirica ucraina, la preghiera e le strofe cantate dai bambini e indirizzate ai soldati al fronte sono stati momenti commuoventi tra lo sventolio di bandiere e le foto di soldati caduti e di città distrutte dalla furia di Putin.

    Dopo gli interventi della presidente dell’Associazione, di un consigliere della giunta piacentina e di una esponente di Fratelli d’Italia, l’On. Cristiana Muscardini ha sottolineato come il mondo si divida tra male e bene e che il male si manifesta con le azioni di uomini: “Il male è la negazione della pietà e del rispetto dei diritti umani, la voglia di sopraffazione, di annientare quanto non si riesce a possedere, di distruggere ogni oppositore, di calpestare le leggi internazionali, di uccidere gli ucraini e di condannare a morte i propri cittadini in una guerra  sanguinosa, il male è Putin“.

    Cristiana Muscardini ha invitato i presenti a raccontare ovunque quello che sta accadendo in Ucraina per sconfiggere l’indifferenza di troppi o l’acquiescenza o la connivenza di alcuni: “Nella bandiera ucraina ci sono i colori della bandiera europea, il blu del drappo ed il giallo delle nostre stelle, vogliamo che al più presto l’Ucraina faccia parte dell’Europa, chiediamo ai prossimi deputati europei di farsi carico della difesa della libertà e della giustizia, dell’integrità territoriale dell’Ucraina senza la quale non vi può essere pace giusta e sicurezza per la democrazia anche nella stessa Europa”.

  • In piazza a Piacenza per l’Ucraina

    Sabato 24 febbraio, a due anni dall’invasione dell’Ucraina e della guerra scatenata dalla crudeltà dello zar russo, in Piazza Duomo a Piacenza, alle ore 15,30, si svolgerà la manifestazione per la libertà e la pace indetta dall’organizzazione ucraina di volontariato NADIYA, per essere vicini alla valorosa resistenza del popolo.

    Per Il Patto Sociale, da sempre solidale con l’Ucraina, sarà presente Cristiana Muscardini.

  • Non è più il momento di un silenzio complice

    Il ministro Salvini risponde agli avversari, che lo accusano di non aver rilasciato una dichiarazione dopo la morte di Navalny, affermando di essere troppo impegnato a costruire ponti, strade e ferrovie per avere tempo di rispondere ai suoi avversari.

    Tralasciando il fatto che tutti questi cantieri, in giro per l’Italia, non li abbiamo visti mentre la principale preoccupazione del ministro sembra  rimanere il Ponte sullo Stretto, non la mancanza di strade e ferrovie in Sicilia ed in Calabria,non si può dimenticare che  la dichiarazione del vice di Salvini, sulla morte di Navalny, è stata a dir poco preoccupante mentre il ministro, e vicepremier, noto, nel passato, per le sue simpatie putiniane, è rimasto silenzioso!

    Diamo atto, ancora una volta, alla determinazione e chiarezza con la quale il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella si è espresso e ci uniamo alle tante voci che hanno denunciato, anche per questa nuova morte “misteriosa”, Putin e  il sistema russo.

    Siamo  tra i molti che ritengono il presidente russo comunque colpevole, sia che abbia ordinato la soppressione di Navalny, sia che Navalny sia stato  ucciso da un solerte sostenitore dello zar, sia che sia morto per cosiddette cause naturali dopo essere stato avvelenato, detenuto in carcere, processato con fantomatiche accuse e poi recluso nel più duro carcere dell’Antartico dove sopravvivere diventa quasi impossibile.

    Putin si comporta come ai tempi di Stalin e dell’Unione Sovietica quando i dissidenti, e cioè quelli che chiedevano libertà e diritti civili, erano reclusi, e spesso soppressi, in Siberia o avvelenati o “suicidati”. Non dimentichiamo le molte morti “misteriose” anche in questi anni di guerra contro l’Ucraina.

    La dura repressione contro coloro che hanno avuto il coraggio di protestare, portando un fiore sotto il monumento delle vittime dei gulag per ricordare Navalny, e gli arresti violenti, quattro, cinque poliziotti contro una sola persona, testimoniano come, in vista delle elezioni e con una guerra che non sta vincendo e per la quale ha fatto morire centinaia di migliaia  russi, l’arroganza, la crudeltà ed il cinismo del nuovo zar non abbiano limiti.

    Quegli occidentali che ancora, in modo palese, o più o meno occulto, simpatizzano con Putin o trescano con lui esportando ed importando merci, direttamente o con il sistema della triangolazione, prendano atto che per il mondo civile, per la gente per bene qualsiasi tipo di silenzio sulle mala gestione di Putin, sui suoi delitti sarà considerato non solo acquiescenza ma connivenza.

    Non è più il momento di un silenzio pauroso o complice.

  • Le forze russe ‘costruiscono’ una barriera di 30 km nel Donetsk e gli hacker filorussi attaccano i siti italiani

    L’Istituto per lo studio della guerra (Isw) ha affermato, citando immagini satellitari e canali Telegram ucraini, che le forze russe stanno assemblando una barriera di vagoni ferroviari che si estende per 30 chilometri nell’oblast di Donetsk. La barriera, soprannominata il «treno dello zar» e costruita con oltre 2.100 vagoni merci, servirebbe come linea difensiva contro futuri assalti ucraini. Dalle immagini satellitari la linea di vagoni ferroviari si estende da Olenivka, a sud della città di Donetsk, a Volnovakha, a nord di Mariupol.

    La barriera che, secondo una fonte ucraina – come riporta l’Isw -, sarebbe stata assemblata a partire da luglio 2023, sembrerebbe essere una nuova linea difensiva russa, ma per l’Istituto le forze di occupazione potrebbero avere in mente «altri scopi».

    La mire russe non si fermano però solo al territorio ucraino.  E’ di questi giorni la notizia di cyberattacchi da parte del gruppo filorusso Noname contro siti italiani “in supporto agli agricoltori che stanno protestando”.

    Ad aiutare i Noname altre tre gruppi: Folk’s CyberArmy, 22C e CyberDragon. Si tratta di attacchi di tipo Ddos (Distributed denial of service) che consistono nell’inviare un’enorme quantità di richieste al sito web obiettivo che, non potendo gestirle, non è in grado di funzionare correttamente. L’Agenzia per la cybersicurezza nazionale sta monitorando la situazione che al momento sembrerebbe gestibile. Sul canale Telegram di Noname si legge: “Gli agricoltori sono stanchi delle politiche sbagliate delle autorità italiane, che sponsorizzano con tutte le loro forze il regime criminale di Zelenskyj e non cercano nemmeno di risolvere i problemi interni del Paese, fregandosi dei propri cittadini. Gloria alla Russia!”. Tra gli obiettivi che gli hacker sostengono di aver colpito, ci sono l’Agenzia del demanio, Credem, Bper, le aziende del trasporto pubblico di Siena, Torino, Palermo Cagliari e Trento. La Polizia postale sta lavorando con l’Agenzia per ripristinare la funzionalità dei siti colpiti, tra i quali quelli dell’Esercito, del Sistema centralizzato di identificazione automatizzata Siac della Difesa, dell’azienda A2A, della fatturazione elettronica verso l’Amministrazione dello Stato, del servizio di pagamento delle tasse on line dell’Agenzia delle entrate.

Pulsante per tornare all'inizio