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Acqua bene comune? Gli acquedotti restano vecchi e poco salubri

No al privato nella distribuzione dell’acqua, fu stabilito pressoché a furor di popolo tramite referendum nel 2011. Ma il mancato ingresso dei privati nella gestione della rete idrica ha comportato anche la mancanza di investimenti, che non risultano essere stati fatti dalla mano pubblica cui s’è voluto lasciare la gestione degli acquedotti. Il 60% degli impianti di distribuzione di acqua potabile in Italia ha almeno 30 anni, il 25% oltre 50 anni ed il risultato è una dispersione del 38% dell’acqua che viene convogliata attraverso la rete distributiva. Gli acquedotti sono una delle testimonianze dei risultati che l’antica Roma seppe raggiungere, la Roma odierna invece ha rischiato seriamente di dover chiudere tutti i suoi rubinetti.

Come se piovesse sul bagnato, in base alla direttiva 91/271, l’Italia s’è anche vista condannare da due sentenze della corte di giustizia europea (C565-10 e C85-13) e sottoposta alla procedura d’infrazione 2014-2059 per l’insufficiente depurazione di quella che viene distribuita come acqua che si può bere. Utilitalia, che raggruppa 500 imprese di servizi pubblici, calcola che per adeguare gli impianti gli investimenti dovrebbero più che raddoppiare, da 32 euro per abitante a 80 euro (o più), ma dove trovare quelle risorse?

Intanto, in alcune falde acquifere sono stati riscontrati livelli di sostanze perfluoroalchilitiche (Pfas) che superano abbondantemente i limiti considerati accettabili per la salubrità delle acque stesse. Tra Padova, Verona e Vicenza è stata riscontrata una concentrazione di 1,4-1,8 mg di Pfas per tonnellata d’acqua, 20 volte più alta di quella che le autorità americane sarebbero disposte ad accettare in base alla loro linea in tema di acqua e salute.

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