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Pil warning

Per le aziende quotate che risultano soggette ad una disciplina molto rigida in relazione alle comunicazioni ai propri soci spesso si assiste alla dichiarazione di “profit warning” nel caso in cui il management aziendale  intenda avvertire i proprio azionisti che per l’anno in corso gli utili risulteranno in discesa se non azzerati.

Immancabilmente, invece, in Italia, come ogni anno da parte di istituti quali Istat e Centro Studi Confindustria, tra giugno e settembre vengono rivisti i dati della crescita economica rispetto a quelli inseriti nella legge finanziaria varata l’anno precedente dal governo. Parlando quindi dello Stato italiano, composto non da azionisti ma da cittadini, la riduzione della crescita si manifesta, di conseguenza, non con una diminuzione del “dividendo azionario” ma attraverso un progressivo aumento inevitabile della pressione fiscale o una riduzione della spesa corrente al fine di mantenere l’equilibrio finanziario. Quindi, come ogni anno da oltre un ventennio, si assiste al “Pil warning”.

Nel primo caso, cioè per le aziende quotate, l’effetto del warning risulta quello di una riduzione della redditività delle quote azionarie. Nel secondo, e ci riferiamo allo Stato italiano, viceversa l’effetto si manifesta attraverso la necessità di una manovra finanziaria aggiuntiva per mantenere l’equilibrio economico-finanziario garantito da entrate fiscali che invece, proprio a causa del PIL Warning, risulteranno sicuramente inferiori progressivamente alla minore crescita. Senza tale manovra aggiuntiva salterebbero le coperture finanziarie per i capitolati di spesa del bilancio dell’anno in corso.

Mentre nel primo caso il Warning si traduce in una riduzione dei margini azionari, e quindi della disponibilità economica, nel secondo si traduce in un aumento ulteriore della pressione fiscale o una malaugurata riduzione della spesa pubblica che negli ultimi anni quasi sempre si è trasformata in una riduzione dei trasferimenti agli enti locali. Quest’ultimi poi la trasformano in una riduzione dei servizi sanitari e di altro genere alla cittadinanza.

La Frenata del PIL stimato ora al +1,3%, unito al forte calo dell’export oltre Ue ( -2,7%), inevitabilmente si trasformeranno in una manovra correttiva. Quindi, come ampiamente anticipato, tutti i dati entusiastici raccontati e favoleggiati dagli ultimi due ex governi Renzi e Gentiloni e dalle rispettive maggioranze si sciolgono in soli tre mesi come neve al sole. Si renderà necessaria inevitabilmente una ulteriore manovra correttiva legata alla decrescita del PIL al di sotto delle previsioni governative (di circa 9 miliardi), in aggiunta a quella già conclamata e scaturita

dall’aumento dei tassi di interessi e di conseguenza dei costi al servizio del debito pubblico (altri 5/9 miliardi). Ovviamente a questi andranno aggiunti anche i 14 miliardi necessari per bloccare l’effetto delle clausole di garanzia relative all’aumento dell’Iva. Ancora una volta tutti i centri studi, in particolare di Confindustria, durante l’emanazione e la elaborazione della legge finanziaria o Def  per l’anno 2018 hanno fornito un supporto poco professionale alla politica governativa, specialmente in relazione alle prospettive di crescita del PIL. Poi, come sempre, da anni tali elaborazioni vengono successivamente smentite tra giugno e settembre.

La compagine politica di maggioranza e di governo di cui questa risulta l’espressione possono avere il desiderio di offrire scenari economici di sviluppo positivi quando si trovano al governo e questo si può anche comprendere. In questo senso basti ricordare un ex ministro dell’Economia che affermò che in 4 anni avrebbe portato la quota export sul PIL dall’attuale 28,7% ad oltre il 50%. Un’affermazione priva di qualsiasi supporto ma soprattutto competenza economica e di conoscenza del mercato.

A riprova si ricorda che della primavera del 2015, in cui la quota Export era il 28,5% sul PIL (periodo di uscita di questa entusiastica intervista al Corriere della Sera), nonostante il clima sempre più concorrenziale e competitivo le aziende italiane sono riuscite ad aumentare complessivamente la quota Export su PIL all’attuale 29,7, quindi con una crescita importante di oltre lo 0,4 % l’anno. Un risultato determinato solo ed esclusivamente dalle capacità delle imprese italiane di presidiare i mercati esteri e non certo dalla capacità o dal supporto del governo per il quale, dopo aver stanziato 34 milioni per la lotta all’italian sounding, di questa priorità non resta alcuna traccia.

Non può essere comprensibile e tanto meno giustificabile da parte di certi studi non mantenere delle posizioni terze per evitare le continue smentite a sei mesi dalle proprie previsioni economiche.

Tutto questo poi in un contesto nel quale i titolari dei dicasteri economici affermavano che la ripresa economica sarebbe avvenuta attraverso la forte esplosione dell’export, il cui calo del 2,7% (maggio 2018/2017 extra Ue) dimostra ancora una volta la loro assoluta “eccentricità” nelle previsioni economiche. Una responsabilità che ovviamente cadrà sul governo in carica il quale invece di affrontare queste problematiche terribili favoleggia di flat Tax, reddito cittadinanza e amenità varie invece di affrontare la terribile eredità lasciata dai governi Renzi e Gentiloni.

Ovviamente, tornando al parallelo tra azienda e Stato italiano, a fronte di un profit warning molto spesso gli azionisti rispondono attraverso il ritiro della delega e della fiducia al management e, in taluni casi, chiedendone anche la messa sotto accusa. Viceversa, nella gestione della complessa economia italiana la responsabilità rimane un parametro sconosciuto all’intera classe politica, in particolar modo se “tecnica”.

La decadenza economica del nostro Paese, ieri come oggi, nasce da una classe politica e dirigente che si dimostra sorda e cieca rispetto all’impatto dei fattori economici da loro determinati.

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