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In attesa di Giustizia: riservatezza a due velocità

In questo bizzarro Paese dove prosperano trasmissioni televisive votate alla anticipazione di condanne e i quotidiani riempiono le colonne con intercettazioni telefoniche anche estranee all’oggetto delle indagini suona come stonata l’iniziativa della Procura di Brescia che ha indagato per “istigazione alla violazione del segreto d’ufficio” un cronista di giudiziaria del quotidiano locale che ha subito la perquisizione e il sequestro dello smartphone e del tablet, contenenti verosimilmente notizie e informazioni coperte da segreto professionale.

“Istigazione alla violazione del segreto d’ufficio”, così meglio dettagliando una accusa di istigazione a delinquere  presuppone oltre ad un istigatore ci sia, necessariamente, un istigato che a sua volta è sensibile alla sollecitazione.

E in questo caso chi sarebbe il soggetto istigato se non  la stessa Procura della Repubblica, attraverso i suoi uffici, o la Polizia Giudiziaria?

Qui, per fortuna, non corro rischi perché mai documento e commento fatti che non siano già di dominio pubblico o – comunque – non coperti da segreto istruttorio.

La questione è allora un’altra: un giornalista è legittimamente alla ricerca di notizie e dispone di  fonti di informazione che nel caso della cronaca giudiziaria, o “nera” che dir si voglia, sono interne agli uffici giudiziari e alle Forze dell’Ordine che, per conto loro, dovrebbero invece mantenere il massimo riserbo su attività investigative non ancora approdate al dibattimento o – comunque – private della opportuna secretazione.

Ciò premesso, è possibile che questi soggetti possano essere considerati  idonei a subire istigazione e non piuttosto custodi – a volte infedeli – di informazioni riservate e sensibili che non dovrebbero divulgare?

Nel frattempo il giornalista ha visto violati i suoi archivi di lavoro informatici e non contenenti sicuramente altri dati coperti dal segreto professionale che gli è attribuito e diverse da quelle che avevano dato avvio a sospetti e un’indagine così impattante e della quale bisognerà verificare se vi fossero i presupposti per attività così invasive della sfera privata di un professionista.

Fermo restando che deve essere stigmatizzata ogni pubblicazione illegale di atti di indagini in corso, l’idea che un cronista possa essere indagato per essersi procurato informazioni o averne sollecitato la condivisione a fonti per prime non avrebbero dovuto fornirle appare un po’ ipocrita.

Ma tant’è: e se è vero che deve rifiutarsi l’idea del processo mediatico che lede la dignità delle persone accusate prima ancora che si giunga anche solo a una sentenza non definitiva, una iniziativa del genere di quella descritta, oltre alla considerazione già spesa sulla sua natura ipocrita lascia spazio alla domanda: chi custodisce i custodi?

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