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In attesa di Giustizia: buon appetito!

No, non vi siete sbagliati, la rubrica di ricette è altrove su queste colonne: qui continuiamo a parlare di Giustizia, o quel che ne resta…questa settimana prendendo spunto da una recentissima decisione della Corte Costituzionale che contribuisce a fare del nostro un Paese meno imbarbarito da una legislazione troppo spesso subalterna alla piazza ed alle pulsioni giustizialiste che ne derivano.

Credo che tutti i lettori abbiano sentito parlare del regime detentivo previsto dall’articolo 41 bis dell’Ordinamento Penitenziario: il cosiddetto “carcere duro” che viene inflitto, con provvedimento del Ministro Guardasigilli, ai prigionieri ritenuti più pericolosi poiché inseriti (o supposti tali…non è necessaria una sentenza definitiva di condanna) in associazioni  di elevata statura criminale.

Le condizioni in cui vivono la carcerazione questi detenuti sono effettivamente rigidissime e volte ad impedire che anche dall’interno di un penitenziario mantengano i rapporti con le rispettive consorterie di appartenenza: per esempio, i colloqui con i famigliari sono limitati e avvengono in ambienti in cui il contatto sia ridotto al minimo, l’isolamento all’interno della struttura è pressoché totale anche nell’ora “d’aria”, sono limitati i beni che possono ricevere dall’esterno, sono sostanzialmente esclusi da benefici di legge.

Fino a venerdì scorso, questi carcerati – alcuni dei quali, come detto, sono assistiti ancora dalla presunzione di innocenza – a tutti gli altri limiti loro imposti dovevano sommare il divieto di potersi preparare il pasto in cella, a proposito del quale il Magistrato di Sorveglianza di Spoleto che ha sollevato la questione di legittimità costituzionale ha rilevato che si tratta di: “un momento che costituirebbe modalità umile e dignitosa per tenersi in contatto con le usanze del mondo esterno, il ritmo dei giorni e delle stagioni nel fluire di un tempo della detenzione che trascorre altrimenti in un’aspra solitudine”.

Mafiosi reali o presunti che fossero i destinatari di questa disposizione, la norma suona come una inutile barbarie di cui il Giudice delle Leggi ha fatto giustizia scrutinandone l’incostituzionalità sotto il duplice profilo di violazione degli articoli 27 che postula che le pene (e, quindi, la loro modalità di esecuzione) non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, e 3 della Costituzione.

L’esame di quest’ultimo è interessante perché, sebbene esprima il concetto di parità dei cittadini davanti alla legge, esprime, sottendendolo, il principio di ragionevolezza perché – secondo l’elaborazione giurisprudenziale che la Corte ha consolidato da tempo – l’eguaglianza davanti alla legge significa divieto di discriminazione irragionevole.

Il principio di uguaglianza diventa, così, parametro fondamentale di ragionevolezza di cui le leggi devono essere munite: ne consegue che anche il trattamento con una data pena di una certa categoria di reati e di colpevoli (o presunti tali…) diventa suscettibile di giudizio sulla sua ragionevolezza se gli elementi su cui si fonda non risultino obbiettivi, rilevanti, giustificabili.

Forse non sarebbe stato necessario che a dirlo fosse la più alta Giurisdizione della Repubblica, sarebbe dovuto bastare (ad averne) il buon senso del legislatore per capire che il divieto di cottura dei cibi “è privo di ragionevole giustificazione perché incongruo e inutile alla luce degli obbiettivi cui tendono le misure restrittive autorizzate dalla disposizione in questione (l’art. 41 bis dell’Ordinamento Penitenziario)”. Così, testualmente scrive la Corte Costituzionale cancellando dal sistema una disciplina che non poteva definirsi che indecente…e giustizia è fatta anche se l’attesa è durata molti anni.

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