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La contraddizione dell’innovazione culturale e tecnologica

Posso comprendere, o meglio posso constatare, che finalmente il mondo della moda (ma preferisco tessile abbigliamento) abbia compreso come sia necessario partire dal mercato, inteso come una variabile  complessa ed articolata alla quale proporsi con il proprio background storico di brand e di posizionamento sul mercato attraverso la propria collezione.

Fino ad oggi il marketing, al netto dell’innovazione tecnologica, è sempre stato interpretato come la capacità di rendere appetibile un prodotto attraverso le politiche di comunicazione che crea solo in questo modo valore aggiunto: questo in estrema sintesi viene definito il Marketing di prodotto. Viceversa, da oltre vent’anni esiste una corrente di pensiero legata alle strategie del marketing avanzato che ha già diviso in due correnti, sostanzialmente molto distanti, la complessa dottrina e paradigmi del marketing.

In altre parole, al marketing di prodotto si aggiunge il marketing di domanda (privo di definizione anglosassone) inteso come quel settore complesso ed articolato nel quale il focus viene rappresentato inizialmente nel processo di individuazione come dalle analisi delle aspettative e delle loro evoluzioni in rapporto a variabili economiche, sociali e politiche delle diverse situazioni nazionali del mercato nella sua complessa articolazione. Questa “corrente o evoluzione” del marketing non ha mai trovato nessun tipo di riconoscimento da parte tanto della nomenclatura accademica quanto delle imprese del settore tessile  abbigliamento avendo scelto di valorizzare il prodotto a valle della filiera attraverso la semplice divinizzazione della creatività facilmente identificabile nello stilista.

Tuttavia ora la scelta, sempre legittima, di eliminare questo gap culturale e temporale affidandosi ad un algoritmo per comprenderne le aspettative rappresenta una contraddizione in termini nella elaborazione della collezione. Il concetto di creatività nella sua evoluzione contemporanea non può solo venire individuato nel semplice disegno di un capo con annessa scelta del tessuto, da molti anni ormai la creatività trova la propria complessa applicazione anche nella sintesi felice tra la capacità di interpretare le aspettative di un  mercato specifico  e la sua possibile interazione con il brand e la collezione proposta. Risulta piuttosto obsoleta la definizione di creatività definita ed esaltata come capacità di “disegnare” un capo senza inserire il valore fondativo della filiera complessa, espressione del know-how industriale e professionale a monte della filiera del tessile-abbigliamento.

A questa tipologia di creatività si dovrebbe aggiungere anche la capacità di sintesi tra  propria “arte creativa”  unita  alla capacità di interpretare le aspettative del consumatore di riferimento bypassandolo attraverso il proprio Dna di Brand. Affidarsi invece ad un algoritmo (ed in questo caso il termine marketing di domanda viene sostituito dal molto più affascinante demand focused) dimostra il sostanziale ritardo culturale di un settore che non è riuscito ad esaltare il valore della filiera ma si è limitato alla divinizzazione dello stilista.

Ora, in pieno fervore ipertecnologico ma continuando ad ignorare i risultati di una ricerca di mercato del 2015 negli Stati Uniti fatta da Bloomberg investment secondo la quale oltre l’82% dei consumatori si considerava disponibile a pagare un prodotto anche il 30% in più purché forse espressione di una filiera nazionale, si passa alla introduzione di un algoritmo per recuperare il terreno perduto, ma francamente dubito come lo stesso  algoritmo possa interpretare questo sentiment del mercato che chiede di valorizzare proprio la filiera come espressione di un prodotto complesso in quanto originato da una filiera.

Questa decisione assolutamente legittima dimostra come, ancora oggi, nel 2018, non si siano comprese le reali aspettative del mercato e soprattutto il loro valore fondativo nella realizzazione della collezione come di un qualsiasi prodotto tanto da preferire un algoritmo portatore sicuramente di sinergia di costi ma incapace di comprendere la sensibilità unita alla cultura ed alle dinamiche economiche le quali, con complesse alchimie, concorrono a formare le più varie e diverse aspettative alle quali le aziende intendono rispondere.

Un’altra occasione persa da un sistema incapace di riformarsi convinto come l’innovazione non debba trovare la propria massima espressione nella rivalorizzazione della filiera ma nella più semplice applicazione di un algoritmo, come se questo da solo dimostrasse la contemporaneità di determinate strategie.

Introdurre un algoritmo nella creazione delle collezioni potrà  suscitare dei facili entusiasmi tra i sostenitori della digitalizzazione i quali invece, inconsapevoli, rappresentano semplicemente l’espressione del ritardo culturale che cerca di recuperare il tempo perduto attraverso l’introduzione di uno strumento ma porterà alla snaturalizzazione della stessa espressione creativa di un capo e di un prodotto.

Questa scelta poi individua come il capo o il prodotto non venga considerato come una espressione della cultura contemporanea, sintesi di creatività, know how professionale ed industriale.

Nessun processo culturale, infatti, di cui il capo o il prodotto ne risulta la sintesi, può inserire al proprio interno un catalizzatore, come un algoritmo, che di fatto lo stravolge in un ambito di analisi costi/ benefici.

Il mercato richiede da anni molto di più al fine di indirizzare e giustificare le proprie scelte di acquisto.

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