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Il falso alibi dell’evasione fiscale

Indro Montanelli, all’inizio degli anni ’70, dalle Colonne del Corriere della Sera sottolineò come in prossimità del varo della legge finanziaria tra novembre e dicembre emergessero sempre le polemiche relative ad una presunta massiccia evasione fiscale.

Il ragionamento sostanzialmente evidenziava il collegamento tra la volontà di aumentare le tasse del governo e, di conseguenza, la spesa pubblica (vera forma di potere in Italia: https://www.ilpattosociale.it/2018/11/26/la-vera-diarchia/), giustificandola con una evasione fiscale incontrollabile che sottraeva risorse.

Da oltre quarant’anni l’evasione fiscale rappresenta quindi la “ragione” ma soprattutto “la giustificazione” della esplosione della spesa pubblica con un tasso di produttività in caduta libera da rendere la stessa spesa insostenibile. In altre parole, la crescita della spesa viene utilizzata solo ed esclusivamente per servire lobby e giardini elettorali che assicurino la rielezione ai politici che la gestiscono, come emerge dalla risibile quota destinata alla spesa in conto capitale.

Recentemente la Cgia di Mestre ha indicato in circa 113,3 miliardi l’evasione fiscale in Italia, con un valore medio del 16% (ogni 100 euro incassati 16 rimangono “in nero”) e peculiarità regionali che spaziano dal 12,5% del Friuli Venezia Giulia, il 13,8% del Veneto e il 12,5% della Lombardia fino al 24,2% della Calabria 23,2% della Campania e 22% della Puglia.

Emerge quindi evidente come i 113,3 miliardi  della evasione  complessiva risultino decisamente  disarmonici se considerati a seconda delle diverse propensioni  regionali.

Il concetto, tuttavia, di evasione fiscale e soprattutto la sua dinamica merita un approfondimento ulteriore.

La problematica della evasione  infatti, da altre autorevoli  fonti (Il Sole 24 Ore), viene addirittura indicata in circa 181 miliardi di euro: quasi 70 miliardi in più rispetto alla cifra indicata dalla Cgia. Questi dati però diventano ancora più interessanti in quanto, a seguito di  una recente legge dell’Unione Europea, all’interno del Pil devono venire conteggiati anche i proventi delle attività  criminali ed anche di conseguenza nella elaborazione della base imponibile.

Quindi, ai 181 miliardi vanno sottratti 78 miliardi attribuibili ad attività criminali, portando, di conseguenza, la cifra evasa dai cittadini operanti in lecite attività a 103 miliardi di euro.

Successivamente i 103 miliardi che rappresentano l’evasione fiscale depurata delle attività criminali vanno  distribuiti ed attribuiti  alle varie “categorie e soggetti economici”. Risulta, infatti, di circa 38 miliardi attribuibile alle grandi aziende mentre altri 34 miliardi vanno attribuiti  all’economia sommersa (il doppio lavoro dei  dipendenti pubblici e lavoro degli extracomunitari). Altri 22 miliardi verrebbero evasi dalle società di capitale ed infine 9 miliardi andrebbero imputati al lavoro autonomo e alle piccole imprese.

Tornando quindi alle percentuali relative all’evasione fiscale attribuibili ai diversi “soggetti economici”, l’economia criminale rappresenta circa il 43% della evasione totale. Un valore che dovrebbe interessare più il ministero dell’Interno che quello delle Finanze. Subito dopo, le grandi aziende rappresentano quasi il 21% della evasione complessiva ed il 37% se calcolata senza il peso della attività criminale.

Viceversa, l’economia sommersa pesa il 19% sul dato complessivo o 33% per il calcolo deputato. Seguono con il 12% o 21% le società di capitale ed infine le piccole imprese di lavoratori autonomi con circa il 5% o 8,6%, sempre se calcolati per l’evasione complessiva o al netto delle attività criminali.

Queste cifre dimostrano sostanzialmente l’incapacità dei governi che si sono succeduti alla guida del Paese di combattere l’economia criminale ma che, viceversa, utilizzano anche il dato della evasione “criminale”  adoperando la normativa europea al fine di accrescere il monte evasione complessivo.

Senza il conteggio dell’economia criminale l’evasione totale risulterebbe di 103 miliardi in più evidenziando  quindi come le attività delle grandi aziende e della società di capitale siano le principali responsabili anche attraverso l’utilizzo di consociate estere.

Per tutte queste categorie di evasione (grandi aziende, società di capitale ed economia criminale) è evidente come la fatturazione elettronica non abbia alcun impatto restrittivo, ma contemporaneamente ci assimila a Portogallo, Messico, Cile e Brasile scelti dall’ex ministro Tremonti come modello economico e normativo.

Viceversa, per i lavoratori autonomi come per le piccole imprese l’aggravio dei costi legato alla fatturazione elettronica può rappresentare una notevole diminuzione della redditività e addirittura la possibilità di rendere impossibile la sostenibilità economica e lo sviluppo futuro.

Da oltre quarant’anni, quindi, l’evasione fiscale viene utilizzata per giustificare la crescita della spesa pubblica corrente come forma di potere della classe politica. Inoltre, per una presunta lotta al fenomeno, vengono utilizzati strumenti come la fatturazione elettronica il cui aggravio di costi incide soprattutto per le categorie che già evadono meno.

Il tema della lotta all’evasione ha rappresentato il palcoscenico per mortificare le piccole e medie imprese indicando nella crescita della spesa pubblica la necessaria conseguenza della stessa evasione. Mai menzogna ebbe vita più lunga, come ebbe modo di scrivere Montanelli già negli anni ‘70.

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