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Il significato delle parole

Voi mi chiedete cosa mi costringe a parlare?
Una cosa strana; la mia coscienza.

Victor Hugo

Tra i tantissimi dibattiti filosofici e psicologici che da tempo hanno attirato l’attenzione degli studiosi, ma non solo, c’è anche il rapporto tra quanto offre il lessico di una lingua parlata e le capacità del cervello delle persone, che parlano quella lingua, di esprimere un concetto, un fenomeno, una realtà ecc. Sono perciò naturali le seguenti domande: è il limitato lessico della lingua che impedisce al cervello umano di esprimersi o, invece, è il cervello umano che non riesce ad afferrare e concepire determinati concetti, fenomeni, realtà ecc.? Perché in alcuni casi non si può esprimere un concetto, un fenomeno, una realtà vissuta e/o virtuale? È la lingua, anche se forbita ed evoluta, che non soddisfa determinate esigenze del cervello con i dovuti vocaboli, oppure è il cervello umano che non riesce a concepire e connettere, nonostante le parole/locuzioni non mancano?

Un significativo esempio, come dimostrazione di questo “dilemma”, lo potrebbe rappresentare la parola della lingua inglese whistleblower. Riferendosi ai dizionari e tradotta in italiano rappresenterebbe una persona che soffia il fischietto. Questa parola, nella lingua inglese, indica per esempio un poliziotto, un capo treno, un nostromo, un arbitro sportivo ecc. Ma la stessa parola, dalla seconda metà del secolo scorso, ha anche un altro significato, soprattutto negli Stati Uniti d’America. E cioè indica “una persona, un soggetto che, solitamente nel corso della propria attività lavorativa, scopre e denuncia fatti che causano o possono in potenza causare danno all’ente pubblico o privato in cui lavora o ai soggetti che con questo si relazionano…”. Ovviamente in questo contesto si usa anche il corrispondente verbo whistleblowing. Anzi si presume, non essendo però una cosa certa, che tutto parta da questo verbo. Facendo riferimento perciò all’usanza dei poliziotti britannici di soffiare il fischietto per allertare/attirare l’attenzione e, nel caso servisse, chiedere anche aiuto ad altri poliziotti o alle persone presenti, quando si trovavano di fronte ad un crimine commesso. Si tratta di una parola che ormai è entrata a far parte anche di molte altre lingue, incluse quelle europee, ma senza essere ancora propriamente tradotta. Perciò quasi sempre si usa nella sua forma originale, in inglese. E purtroppo, non di rado, assume anche una connotazione negativa, come spia, informatore, denunciatore, talpa e, addirittura, “gola profonda”, soprattutto nel contesto italiano.

Per trovare la giusta e corrispondente parola nella lingua italiana, sono stati chiamati anche gli esperti dell’Accademia della Crusca. Si tratta di una delle più note istituzioni degli studi linguistici, non solo in Italia ma anche nel mondo, fondata a Firenze alla fine del sedicesimo secolo (tra il 1582 e 1583). L’Accademia della Crusca nel 2014 dava la sua risposta alla domanda “Come si traduce in italiano la parola whistleblower?”. L’Accademia, nella sua risposta, spiegava ufficialmente che “al momento, nel lessico italiano non esiste una parola semanticamente equivalente al termine angloamericano”. Si metteva però in chiara evidenza un fatto importante, che oltrepassava i confini delle competenze della stessa Accademia. Gli esperti erano convinti che non si poteva dare la colpa alle [mancate] capacità espressive della lingua italiana, ma, bensì, alla mentalità dell’opinione pubblica italiana, non ancora in grado di comprendere e di fare propri alcuni nuovi concetti, fenomeni e realtà. Mentalità che si crea e si elabora prima nel cervello umano, per poi rispecchiarsi nelle continue attività umane, sia a livello individuale che collettivo. Dando così un’ulteriore e concreta dimostrazione del sopracitato dibattito/dilemma legato alle capacità espressive della lingua e quelle cognitive del cervello. I rispettabili esperti dell’Accademia della Crusca, nella loro risposta ufficiale, ammettevano che nella lingua italiana mancava la parola corrispondente alla parola inglese whistleblower. Ma allo stesso tempo sottolineavano che è “innanzitutto il concetto designato a essere poco familiare presso l’opinione pubblica italiana”. Per loro una simile incapacità e inadeguatezza era da collegarsi direttamente con “la mancanza, all’interno del contesto socio-culturale italiano, di un riconoscimento stabile della “cosa” a cui la parola fa riferimento”. Per poi concludere che  “per ragioni storiche, socio-politiche, culturali – che qui non è il caso di discutere – in Italia ciò che la parola whistleblower designa non è stato oggetto di attenzione specifica, riflessione teorica o dibattito pubblico, almeno fino a tempi recentissimi”. Più chiaro di così! E come in Italia, anche in altri paesi del mondo. In molti altri.

Bisogna sottolineare però che, nonostante le “incapacità” linguistiche e/o della mentalità, in molti paesi ormai sono sancite leggi che proteggono il whistleblower. Sono ormai funzionanti leggi, regole e normative protettive per tutti coloro che denunciano presso le dovute autorità statali delle attività illecite e fraudolente, ovunque esse siano verificate e accadute. Negli Stati Uniti d’America, lì dove ebbe anche inizio tutto ciò, è da più di un secolo e mezzo, precisamente dal 1863, che è stata sancita una legge federale, “The False Claims Act” (la legge per le false pretese/reclami/.rivendicazioni; n.d.a.), riconosciuta anche come “The Lincoln Law” (la legge Lincoln; n.d.a.). Legge che non solo obbligava/obbliga lo Stato, con le sue istituzioni, di prendere in difesa colui/coloro che denunciavano [whistleblower], ma anche dava/dà loro una ricompensa tra il 15% e il 25% dei danni recuperati. Da sottolineare anche che negli Stati Uniti attualmente la maggior parte degli casi perseguiti e risolti dalle autorità partono da segnalazioni e denunce dei whistleblower.

Anche in Albania, come in molti altri paesi del mondo, non esiste la dovuta parola per definire la sopracitata parola in inglese. Ma in Albania però, i primi ad essere denunciati dovrebbero essere proprio i massimi rappresentanti/dirigenti politici, statali e dell’amministrazione pubblica. Primo ministro in testa, fatti alla mano. E le denunce non sono mancate e non mancano. Anzi! Sono talmente tante, come sono anche talmente tanti i clamorosi scandali che ormai si scavalcano l’un l’altro e, purtroppo, spesso si dimenticano. Non perché non sono importanti e con delle gravi conseguenze pubbliche, ma semplicemente perché sono numerosissimi e la memoria non sempre riesce a ricordarsi di tutto e di tutti. E poi, in Albania, invece di essere perseguiti legalmente i veri colpevoli, compresi primo ministro, ministri, deputati e altri in seguito, purtroppo sono altri, i whistleblower, ad essere perseguitati e seriamente minacciati.

Per fortuna, da qualche tempo a questa parte e dopo gli innumerevoli scandali, è proprio la sezione albanese della ben nota radio statunitense “Voice of America” che sta facendo il whistleblower. Il che ha messo in vistosa difficoltà il primo ministro albanese. Forse lui sa anche il perché. E come al suo solito ha cominciato ad ingiuriare anche la “Voice of America”.

Chi scrive queste righe pensa che invece è il primo ministro che, come minimo, dovrebbe essere ingiuriato. Aveva ragione Aristofane, il quale circa 2500 anni fa diceva “Ingiuriare i farabutti non è peccato. Significa, a pensarci bene, onorare gli onesti”.

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