Europa

Macron il perdente, potrebbe vincere in Europa

Macron ha perso, sia pure di poco, le elezioni europee in casa, superato di un punto addirittura da Marin Le Pen. Per non darsi vinto, per non soccombere al colpo ricevuto e per indorare la sua immagine, risultata sbiadita in Francia, si dà un gran da fare in Europa, mettendo scompiglio nel tentativo di riformare gli usi in vigore e nel presentarsi come il deus ex machina della situazione, tutto intento, da solo, a risolvere  lo stallo in cui si trova l’Unione europea. Due, in particolare, i suoi punti d’attacco. Il primo si riferisce al rifiuto d’accettare il principio del “candidato di punta”, (lo spitzenkabdidat) per la nomina del presidente della Commissione europea in sostituzione del lussemburghese  Jean-Claude Juncker. Tale principio affida la presidenza al candidato del gruppo politico che ha ricevuto più voti. Nel nostro caso, avendo il PPE raggiunto il primo posto, al suo candidato, il cristiano-sociale bavarese Manfred Weber, spetterebbe la presidenza della Commissione.  No, – dice Macron, –  queste sono regole ormai superate. La tradizione ha fatto il suo tempo. L’Europa ha bisogno di volti nuovi e di persone che contano per l’esperienza acquisita e per i risultati ottenuti. E tanto per non irritare troppo i tedeschi per il rifiuto della candidature Weber, si permette di tirare in ballo Angela Merkel. “Io la voterei se fosse candidata” afferma, sapendo bene che lei non ha nessuna intenzione di dedicarsi interamente all’Europa, come ha ripetuto in più di un’occasione, dopo 14 anni di cancellierato. Ma Macron non molla, nonostante l’insuccesso della sua candidata, la danese Margrethe Vestager, commissaria europea alla Concorrenza in scadenza. Non vuole Weber e va alla ricerca di alleati per mettere il PPE in minoranza, malgrado la sua vittoria elettorale.

Il secondo punto d’attacco lo ha riservato al gruppo liberale ALDE (Alleanza dei Democratici e dei Liberali per l’Europa), il terzo arrivato, al quale ha aderito con i suoi 21 deputati su 101. A lui non va bene il nome, che contiene l’aggettivo liberale, e si è dato subito da fare per cambiarlo, riuscendoci. Il gruppo, d’ora in poi si chiamerà “Renew Europe”. Rinnovare l’Europa, con buona pace del liberale belga Guy Verhostadt, già prima ministro in tre governi  e presidente dell’ALDE dal 2009. Bisognava eliminare il termine “liberale” – avrebbe dichiarato Macron – perché nell’opinione corrente, liberale è sinonimo di capitalismo selvaggio, senza regole, perciò un termine negativo. Di fronte a simili dichiarazioni non inorridiamo più. Se Macron non si considera liberale, è affar suo, e dei francesi. Ma allora, perché i suoi deputati al Parlamento europeo si sono iscritti al gruppo tradizionalmente liberale? Se invece si considerasse liberale, ci chiediamo esterrefatti perché si sottomette al “pensiero unico”, al “politicamente corretto” che, come sappiamo, è una specie di “polizia del pensiero”, come l’ha chiamata una copertina di Newsweek del dicembre 1990. Perché non si batte per spiegare il significato vero di “liberale” e per giustificare con orgoglio la sua appartenenza ad un movimento politico che ha avuto ed ha ancora molti meriti nella tutela della democrazia e della dignità delle persone? E’ un andazzo deleterio questo accettare acriticamente e senza batter ciglio le opinioni sostanzialmente sbagliate e non vere. E’ un contributo passivo e irresponsabile alla diffusione di panzane e di favole alle politiche della disinformazione. A vantaggio di chi? Se lo chiede Macron? Tanto più che, per fare la politica europea che ha in testa e che ha dichiarato in più occasioni, avrà bisogno di alleati, dei democratici cristiani del PPE, dei socialisti del S&D, dei Verdi e di quanti credono che il progresso dell’integrazione, iniziata con la dichiarazione del 9 maggio 1950 di Robert Schuman, sia anche il progresso delle nostre patrie nazionali. Non ci sembra una buona politica quella divisiva iniziata da Macron. Il suo muoversi solitario per ora non ha portato frutti, se non risentimenti nemmeno apertamente manifestati, tra l’altro, a dimostrazione che l’azione diplomatica e non chiassosa è in genere più produttiva del movimento scomposto e leggermente fanfarone.

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