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Il Parlamento inglese sospende i lavori per cinque settimane

Esiste un’alternativa al “no deal” bocciato dal Parlamento?

Come era stato annunciato, il governo inglese ha deciso di sospendere i lavori del Parlamento fino al 15 ottobre, permettendo in questo modo al premier Johnson di avere il più ampio margine di manovra sulla Brexit, senza le interferenze dei parlamentari che dall’inizio del mese erano riusciti a ribellarsi alle sue imposizioni. Prima, togliendogli la maggioranza, sia pure di un voto, poi, votando una legge contro il “no deal”. Infine, impedendogli una maggioranza di due terzi per decidere di giungere ad elezioni anticipate. A tutto ciò si è aggiunta la decisione dello Speaker della Camera dei Comuni, John Bercow, di lasciare l’incarico a fine ottobre, come segno di dissenso nei confronti della politica distruttiva di Johnson. Cosa è possibile fare, dunque, in questa confusa e caotica situazione? Essendoci una legge che impedisce a Johnson di fare un “no deal” (di cui Johnson potrebbe non tenere conto) e non essendoci la maggioranza necessaria per indire nuove elezioni prima della scadenza della proroga per la Brexit, cioè il 31 ottobre, a Johnson non rimangono che due scelte: o negoziare un nuovo accordo con l’Unione europea, o chiedere l’estensione dell’art. 50 per una proroga che vada oltre la fine di ottobre. Johnson è contrario ad entrambe le ipotesi, ma essendo costretto dalla realtà a dover scegliere, egli preferirebbe la prima scelta, cioè l’apertura di un nuovo negoziato con l’UE per il raggiungimento di un accordo che superi quello stabilito con Theresa May e bocciato per ben tre volte dal Parlamento. Non a caso, ieri a Dublino in visita ufficiale, ha dichiarato inaspettatamente che la soluzione “no deal” sarebbe un fallimento. Fino al giorno prima il non accordo era uno sbocco inevitabile, una soluzione da perseguire se si voleva l’uscita dall’UE. I tre rifiuti parlamentari all’accordo raggiunto dalla May non esprimevano, forse, la volontà di una rottura netta con i legami europei? O erano soltanto un no netto al Primo ministro? I lavori del negoziato erano durati tre anni, a testimonianza dell’accuratezza con la quale entrambi i negoziatori avevano affrontato i punti dirimenti causati dall’uscita. Lo stesso punto relativo al confine tra l’Irlanda del Nord e la Repubblica d’Irlanda era stato affrontato nella preoccupazione di non creare una frontiera rigida. E l’accordo fu concluso proprio sull’accettazione provvisoria di una frontiera leggera, aperta, che non richiedesse il ripristino di una dogana, soluzione che fu respinta sempre dai Brexiteers. Come mai ora, a tempo quasi scaduto, si riparla di rinegoziare e si invia a Bruxelles, con il Parlamento chiuso per ferie, un interlocutore ufficioso per saggiare la possibilità di una riapertura delle trattative? E’ la forza delle cose concrete che spinge Johnson a ritornare sui propri passi, o è un barlume d’intelligenza politica che mostra in modo lampante l’eventuale fallimento del “no deal”? Comunque sia, soltanto a cose avvenute si può comprendere meglio le ragioni della May che non ha esitato a diventare il capro espiatorio di un accordo che probabilmente era il migliore che si potesse ottenere in quei frangenti, senza venir meno ai sacrosanti principi della sovranità e dell’indipendenza, nel rispetto della volontà degli inglesi espressa dai risultati del referendum del 2016.  Ora non si parla più della frontiera tra le due Irlande, ma di quella del canale che divide l’isola irlandese da quella inglese. La May non poteva sostenere questa proposta perché il partito nordirlandese Dup che le garantiva la maggioranza, non era d’accordo. Che ora si riparli della cosa dimostra che la May aveva visto bene e che il dissenso dimostratogli non poggiava su soluzioni alternative. Era un NO e basta. Riuscirà Johnson a evitare tutti gli scogli e a navigare in acque sicure per l’uscita? E’ ancora presto per dirlo, ma la dichiarazione rilasciata dal Premier a Dublino segna una svolta, non risolutiva ma almeno che tiene conto della realtà difficile e controversa della Brexit. Il vero problema – come afferma Paola Peduzzi su Il Foglio del 10 ottobre – non era la May, ma la Brexit stessa. A noi pare una verità sacrosanta.

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