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In attesa di Giustizia: critica della (ir)ragion pratica

Due cose riempiono l’animo  di ammirazione e venerazione sempre nuove e crescenti, quanto più sovente e a lungo si riflette sopra di esse: il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me; così Immanuel Kant conclude la sua Critica della Ragion Pratica.

Sfortunatamente, tra queste due dimensioni, il cielo stellato e la legge morale – da cui discende quella positiva – può esserci una dolorosa scissione: prova ne sia il fatto che, nell’orizzonte del nostro Paese, oltre al cielo, abbiamo anche un Parlamento stellato. Anzi, pentastellato, che tra i suoi apicali annovera  agronomi prestati al diritto ed astri fiancheggiatori del calibro di Piercamillo Davigo che non è né sciocco né impreparato (per ciò solo ancora più insidioso) ma è il paradigma della furia giacobina del Movimento in materia di giustizia.

La sua voce si è di recente e nuovamente alzata, tra l’altro, dalle colonne del “Fatto Quotidiano”, facendo accapponare la pelle persino ai più tiepidi cultori del garantismo mettendo in mostra l’arsenale completo degli strumenti che trasformano il processo in un momento di esclusiva inquisizione.

Lancia i suoi strali, innanzitutto contro il sistema delle impugnazioni che – a suo dire – servono solo a diluire i tempi sostenendo che la pena ha “anche” funzione rieducativa (in realtà, questa è l’unica funzione assegnatale dalla Costituzione Repubblicana che, così sembra, è ancora in vigore) e l’avvocato che ricorre in Appello o in Cassazione, differendola danneggia il suo assistito.

Il Davigo-pensiero, fermamente contrario al giudizio di Appello (e costui è stato a lungo Giudice di Corte d’Appello e in seguito di Cassazione…), non è nuovo e ostenta una singolare concezione del doppio grado di giurisdizione che, neanche a dirlo, è posto a presidio di parametri costituzionali quali la presunzione di non colpevolezza.

Naturalmente, anche la scelta del rito, oltre agli appelli infondati, sono motivo di indignazione e vengono invocati istituti da mutuare dal processo americano secondo il quale, tradotto dal c.d. Dottor Sottile Guai poi, per Davigo, “se l’imputato si dichiara innocente,  e sceglie il rito ordinario invece che patteggiare, e poi si scopre che era colpevole, lo rovinano con pene così alte che agli altri passa la voglia di provarci”.  L’elogio del patteggiamento a fare il paio con la pena esemplare, la quale con l’art. 27 della Costituzione non ha nulla a che vedere, la galera inflitta quale prezzo per l’esercizio di un diritto.

Si potrebbe andare oltre ma, per concludere, basti il suggerimento che viene proposto per porre un argine ai ricorsi per Cassazione: solidarietà del difensore nel pagamento della sanzione pecuniaria (che può andare fino a seimila euro) che viene irrogata all’imputato se l’impugnazione è ritenuta inammissibile. Oggi, ne abbiamo scritto in altre occasioni, il tasso di inammissibilità – con opinabili giustificazioni – è ben superiore al 70%. E così, anche le esangui casse dello Stato troverebbero un po’ di sollievo.

A Milano il Museo della Tortura ha chiuso i battenti trasferendosi altrove, e anche la Colonna Infame – eretta a monito sulle macerie della casa di Giangiacomo Mora dopo il supplizio suo e di Guglielmo Piazza quali presunti untori – fu demolita nel 1778 essendo divenuta testimonianza di una grossolana ingiustizia: ma, forse, varrebbe la pena recuperare qualche Vergine di Norimberga, un paio di gogne, riedificare la Colonna e l’attesa di giustizia (?!), quella almeno auspicata da Piercamillo Davigo, verrebbe soddisfatta. Quanto al cielo, vi è da sperare che almeno cinque delle sue stelle si appannino in fretta e la legge morale, quella che vuole che la giustizia sia una categoria dello spirito comportante vincoli etici ed indicazioni culturali inderogabili, torni ad essere criterio guida della normazione e del dibattito.

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