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Dietro lo scontro tra Congo e Rwanda la competizione tra superpotenze per le risorse minerarie

L’escalation dei combattimenti tra le Forze armate congolesi (Fardc) e i ribelli del Movimento 23 marzo (M23) nell’est della Repubblica democratica del Congo (Rdc), e in particolare nella provincia del Nord Kivu, ha riacceso il mai sopito conflitto regionale che affonda le sue radici nel genocidio del Ruanda del 1994, ma che trae origine dalla lotta per il controllo e lo sfruttamento delle risorse minerarie di cui la regione è ricca, a cominciare dal cobalto. I ribelli M23, sostenuti dal Ruanda, hanno infatti rivendicato il controllo della città strategica di Goma, capoluogo del Nord Kivu, fulcro di una regione che contiene migliaia di miliardi di dollari di ricchezze minerarie ancora in gran parte inutilizzate. Il gruppo – che è una delle oltre 100 fazioni armate che lottano per un punto d’appoggio nel Congo orientale – è composto principalmente da combattenti di etnia tutsi che non sono riusciti a integrarsi nell’esercito congolese, e che già nel 2012 guidarono un’insurrezione fallita contro il governo di Kinshasa, per poi restare dormienti per un decennio, fino alla ripresa delle attività ostili a Kinshasa nel 2022.

Tra il 1996 e il 2003 la regione è stata al centro di un conflitto prolungato soprannominato “la guerra mondiale dell’Africa”, che causò la morte di circa 6 milioni di persone, mentre gruppi armati combattevano per l’accesso a metalli e minerali di terre rare come rame, cobalto, litio e oro. In un mondo che fa sempre più affidamento sui metalli e sui minerali rari, per via della crescente importanza che questi rivestono nella rivoluzione tecnologica e nella transizione “verde”, la posta in gioco è ora aumentata, così come gli interessi dei vicini Ruanda e Uganda, ma anche delle grandi potenze come Stati Uniti e Cina.

Secondo il dipartimento del Commercio Usa, la Rdc è il principale produttore mondiale di cobalto (si stima che fornisca circa il 70% della produzione mondiale), un elemento essenziale per la produzione di batterie dei veicoli elettrici. Ciò nonostante, la maggior parte delle risorse minerarie del Paese – il cui valore è stimato in 24mila miliardi di dollari – resta inutilizzata. Inoltre, soltanto una minima parte della ricchezza prodotta dallo sfruttamento dei minerali è finora stata convogliata alla popolazione congolese, di cui il 60% vive al di sotto della soglia di povertà.

La Rdc è il più grande produttore di cobalto al mondo con una produzione che si è attestata a 130mila tonnellate nel 2022, ovvero quasi il 70 per cento del cobalto prodotto a livello mondiale. Il Paese è anche il quarto produttore di diamanti industriali, con una produzione di 4,3 milioni di carati, mentre non dispone attualmente di miniere di litio attive, anche se sono in fase di sviluppo diversi progetti, tra cui quello relativo allo sfruttamento della miniera di Manono-Kitolo, che in passato produceva stagno e coltan fino alla sua chiusura, avvenuta alla fine del 1982. Il Congo vanta alcune delle riserve di rame di qualità più elevata al mondo, con alcune miniere che si stima contengano gradi superiori al 3 per cento, significativamente più alti della media globale, pari allo 0,6-0,8 per cento. Anche il settore dell’oro della Rdc sta assistendo a un rinnovato interesse da parte delle società minerarie, e nel 2021 la produzione di risorse minerarie è aumentata da 10 mila a quasi un milione di tonnellate.

È in questo contesto che va inquadrato il conflitto in atto nel Nord Kivu, che ha conosciuto una significativa recrudescenza nelle ultime settimane con l’arrivo a Goma dei ribelli M23, sostenuti militarmente e finanziariamente dal Ruanda. L’offensiva dell’M23 sembra seguire una logica chiara, vale a dire il controllo sulle risorse naturali della regione: oro, cassiterite, coltan, cobalto e diamanti. Dopo aver inizialmente conquistato vaste aree delle regioni di Rutshuru e Masisi, i ribelli si stanno ora spostando verso l’area di Walikale, nota per la sua significativa produzione di coltan, un minerale strategicamente importante per la transizione energetica. Per queste ragioni, la crisi interessa da vicino le due grandi superpotenze globali, gli Stati Uniti e la Cina, e s’intreccia con il grande progetto infrastrutturale noto come Corridoio di Lobito, il maxi progetto ferroviario lungo 1.300 chilometri – finanziato dagli Stati Uniti e dall’Unione europea – che mira a collegare i bacini minerari della Rdc allo Zambia e al porto angolano di Lobito, sull’Oceano Atlantico. Un progetto che, nelle intenzioni di Washington, punta ad essere la risposta alla Nuova via della seta cinese (Belt and road initiative, Bri).

In questo contesto, appare significativo il fatto che di recente Molly Phee, ex assistente del segretario di Stato per gli Affari africani sotto l’amministrazione Biden, abbia affermato che gli Usa avrebbero proposto – senza successo – di coinvolgere anche il Ruanda nello sviluppo della maxi infrastruttura ferroviaria, in cambio del ritiro del proprio sostegno ai ribelli M23. “Avevamo proposto a entrambe le parti (Ruanda e Congo) che, se fossimo riusciti a stabilizzare la Rdc orientale, avremmo potuto lavorare allo sviluppo di una diramazione dal Corridoio di Lobito attraverso la Rdc orientale. (I ruandesi) non hanno permesso quell’azione”, ha detto Phee in un’intervista rilasciata ai media internazionali prima della fine del suo mandato. “Abbiamo cercato di offrire incentivi positivi. Esiste un quadro autentico, fondamentalmente negoziato dalle parti, e al momento il Ruanda sembra essersi tirato indietro”, ha aggiunto. Secondo la diplomatica statunitense, l’offerta includeva anche una stretta sulle Forze democratiche per la liberazione del Ruanda (Fdlr), il gruppo ribelle hutu ruandese attivo nel Congo orientale dal genocidio del 1994, ritenuto fuorilegge dal governo di Kigali. Al contrario, nel settembre scorso il governo ruandese ha preferito siglare un importante accordo che prevede la costruzione di una ferrovia a scartamento standard che collegherà il porto di Isaka, in Tanzania, alla capitale ruandese, Kigali.

Le abbondanti risorse naturali presenti nel sottosuolo congolese hanno finito per globalizzare il conflitto nella Rdc orientale. Mentre un tempo le aziende statunitensi possedevano vaste miniere di cobalto in Congo, negli ultimi anni la maggior parte di esse è stata venduta a società cinesi, tanto che il “South China Morning Post” descrive il Paese come “l’epicentro degli investimenti cinesi in Africa”. L’ascesa della Cina nell’industria estrattiva del cobalto della Rdc è stata causata dalla significativa diminuzione degli investimenti statunitensi. Nel 2016, ad esempio, la società mineraria dell’Arizona Freeport-McMoRan ha venduto Tenke Fungurume – un sito di estrazione di rame e cobalto – alla China Molybdenum Company. Nel 2020, inoltre, la Freeport-McMoRanha effettuato un’altra vendita di un sito di rame e cobalto non sviluppato alla China Molybdenum Company. In entrambi i casi, le uniche aziende con offerte competitive erano aziende cinesi. Le principali imprese di Pechino che operano nel Paese includono Chengtun Mining, China Molybdenum, China Nonferrous e Huayou Cobalt. Secondo l’Istituto di studi strategici (Ssi) dello Us Army War College, le imprese statali e le banche cinesi controllano l’80 per cento della produzione totale di cobalto congolese, e delle dieci miniere più grandi al mondo, nove si trovano nella regione del Katanga, nel sud della Rdc: di queste, la metà è di proprietà di aziende cinesi. Anche nella raffinazione del cobalto la posizione delle imprese statali cinesi è dominante: le loro raffinerie rappresentano tra il 60% e il 90% della fornitura globale. Inoltre, il 67,5% del cobalto raffinato della Cina proviene dalla Rdc.

Secondo il Council on Foreign Relations (Cfr), think tank statunitense specializzato in politica estera e affari internazionali, le società collegate alla Cina controllano tuttora la maggior parte delle miniere di cobalto, uranio e rame di proprietà straniera nella Rdc e l’esercito congolese è stato ripetutamente schierato nei siti minerari nell’est del Paese per proteggere le aziende cinesi. La Cina è inoltre pienamente coinvolta nel conflitto interno nell’est della Rdc e nella sua economia: il governo congolese sta infatti combattendo i ribelli M23 con l’aiuto di droni e armi cinesi, e la vicina Uganda – schierata al fianco del governo di Kinshasa – ha acquistato armi cinesi per svolgere operazioni militari all’interno dei confini congolesi. Gli accordi che Pechino ha negoziato con la leadership congolese, in particolare durante la presidenza di Joseph Kabila, hanno aiutato le aziende cinesi a garantire un accesso senza precedenti ai metalli che consentono loro di produrre in serie elettronica e tecnologie per l’energia pulita.

Il predominio della Cina nella filiera del cobalto è il risultato degli investimenti di Pechino nelle miniere della Rdc e di quelli a lungo termine nelle infrastrutture di trasporto nei Paesi circostanti, come Tanzania e Zambia. È il caso dell’accordo siglato nel settembre scorso con i governi di Dodoma e Lusaka per ristrutturare e ammodernare la vecchia ferrovia Tanzania-Zambia (Tazara), lunga 1.860 chilometri e che collega la città zambiana di Kapiri Mposhi al porto tanzaniano di Dar es Salaam. Un’intesa che rientra pienamente nell’ambito dell’Iniziativa Nuova Via della seta cinese. La linea ferroviaria fu costruita tra il 1970 e il 1975 grazie a un prestito non oneroso della Cina, offrendo una rotta per il trasporto merci dalle miniere di rame e cobalto dello Zambia alla costa tanzaniana, aggirando così il Sudafrica e l’ex Rhodesia (l’attuale Zimbabwe). La ferrovia attualmente esporta cobalto e altri minerali dallo Zambia e, in futuro, potrebbe essere un modo importante per le aziende cinesi di estrarre cobalto dalla regione del Katanga meridionale, nella Rdc, e di trasportarlo fino a Dar es Salaam. Nel febbraio 2024 Pechino ha peraltro annunciato l’intenzione di spendere fino a un miliardo di dollari per modernizzare la ferrovia Tan-Zam, in cambio del suo controllo operativo, il che potrebbe aumentare esponenzialmente le esportazioni di minerali essenziali verso la Cina.

Qualcosa, tuttavia, sembra essere cambiato con l’ascesa al potere a Kinshasa del presidente Felix Tshisekedi, subentrato a Kabila nel 2019. In quello stesso anno la Rdc ha stretto un accordo di cooperazione militare con gli Stati Uniti, che prevedeva tra le altre cose l’addestramento di ufficiali congolesi negli Usa. Nel 2023 il governo di Kinshasa ha inoltre chiesto e ottenuto la rinegoziazione di un accordo da 6 miliardi di dollari siglato nel 2008 con Pechino, ritenuto troppo svantaggioso per il Paese africano. L’anno dopo, nel 2024, gli Stati Uniti hanno sanzionato i ribelli dell’Alleanza del fiume Congo (Afc), della quale fa parte l’M23, accusati di voler rovesciare il governo di Kinshasa e di alimentare il conflitto nell’est del Paese africano. Un mese dopo, Tshisekedi ha apertamente accusato il suo predecessore, Kabila, di appoggiare i ribelli con l’obiettivo di “preparare un’insurrezione”.

L’idea che proprio di un’insurrezione si tratti sembra essere confermata in questi giorni dal leader dell’Afc, Corneille Nangaa, che ha chiarito che l’offensiva non si fermerà a Goma e che l’obiettivo finale è Kinshasa. L’avanzata ribelle, insomma, sembra voler impedire a Tshisekedi un possibile riavvicinamento a Washington, con tutto ciò che ne consegue in termini di sfruttamento dell’immenso potenziale minerario del Paese. Il Ruanda, che di questo tentativo appare il manifesto regista, potrebbe invece aver trovato una importante sponda internazionale in Pechino. I due Paesi hanno di recente elevato le relazioni al rango di partenariato strategico lo scorso settembre e a dicembre, durante una visita a Doha, Kagame ha elogiato pubblicamente il ruolo della Cina in Africa. “È una relazione senza le tante condizioni poste da altri Paesi del mondo, da cui riceviamo tanto in termini di lezioni e poco in termini di valore”, ha detto

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