
Da anni si parla e si scrive della penetrazione cinese in Africa e in particolare come, grazie alla “trappola del debito”, la Repubblica Popolare Cinese riesca ad ottenere posizioni di valenza economica e strategica in tanti Stati africani.
La “trappola del debito” consiste in grandi prestiti concessi ai vari governi locali per la costruzione di infrastrutture strategiche critiche quali porti, autostrade, reti di telecomunicazioni eccetera. Nella maggior parte dei casi si tratta di prestiti che nel corso degli anni si rivelano impossibili ad essere restituiti perché la redditività di quanto finanziato si dimostra molto inferiore al previsto. In quei casi scatta la garanzia prevista nei contratti: le opere realizzate diventano di proprietà dei finanziatori (quindi direttamente o indirettamente del governo cinese) o il debito deve essere rinegoziato. Naturalmente alle condizioni imposte da Pechino. Nel durante, la generosità dimostrata dai prestatori di denaro viene compensata con facilitazioni di accesso alle varie materie prime presenti nel territorio dello Stato debitore.
Un’operazione su cui non si è invece posta sufficiente attenzione è la “Grande Muraglia Verde Africana” che andrà dal Senegal a Gibuti e che attraverserà quindi per circa 7700 km da ovest a est tutto il continente. Il progetto non è nuovo perché fa parte di un piano lanciato dall’Unione Africana nel 2007 e sposato anche dalle agenzie ONU. L0biettivo era di ripristinare 100 milioni di ettari di terreni degradati e creare 10 milioni di nuovi posti di lavoro. Per capire in cosa consista il progetto e perché fu giudicato un’impresa necessaria è bene ricordare che da quando esistono i deserti sappiamo che tendono ad allargarsi invadendo le zone circostanti grazie a continue tempeste di sabbia che coprono le aree di prossimità soffocano le colture e impediscono la reperibilità del foraggio. Da sempre si cerca di porre argini in tutto il mondo all’avanzamento delle aree desertiche ma gli ostacoli si sono dimostrati tanti, i costi enormi e i risultati ottenuti relativamente pochi. Purtroppo, in Africa nonostante l’opera avrebbe dovuto completarsi nel 2030 nel 2020 l’obiettivo era stato raggiunto solo per il 4% e ad oggi si è pressoché ancora fermi a quel punto.
In Cina sembra che le cose siano andate in modo totalmente diverso ed è l’esperienza cinese ciò che Pechino vorrebbe “vendere” in Africa.
Gli esperti cinesi hanno da pochi mesi terminata la realizzazione di un progetto pluridecennale nella regione dello Xinjiang studiato proprio per prevenire la desertificazione e stimolare le economie locali. Si tratta del deserto del Taklamakan nella Cina nord occidentale ed esattamente nella regione autonoma Uigura. Parliamo di una superfice più grande dell’intera Italia, coperta per 85% da dune di sabbia mobile che con l’azione del vento strabordavano coprendo strade, ferrovie e terreni coltivabili. Tutta l’area è ora circondata da una efficace cintura verde di 3050 chilometri che è stata completata grazie al lavoro di più di mezzo milione di persone. Un’azione simile era già stata realizzata per il deserto del Gobi che sta più a nord, a cavallo del confine con la Mongolia. In quel caso si è riusciti a stabilizzare vaste aree e ridurre drasticamente le tempeste di sabbia che arrivavano fino a Pechino. Le piante utilizzate per circondare il Taklamakan sono quelle considerate più idonee ad affrontare i venti, la sabbia e le condizioni metereologiche di quelle latitudini. Tra di loro: il pioppo del deserto, il salice rosso, gli alberi saxsaul (piccolo albero tipico delle steppe aride e dei deserti dell’Asia centrale) e una pianta medicinale detta giacinto del deserto. L’anello verde realizzato in Cina è la prima circumnavigazione totale di un deserto al mondo e la ferrovia realizzata in concomitanza dei lavori collega ora varie città attorno allo stesso deserto trasportando minerali e varie specialità alimentari come noci e datteri rossi verso il resto della Cina. Sulle aree finalmente protette si sta adesso progettando l’impianto di una enorme campo di energia solare che dovrebbe produrre 8,5 gigawatt di elettricità al giorno. In aggiunta si pensa di installare anche alcuni impianti di energia eolica per altri 4 gigawatt.
L’esperienza accumulata dai propri tecnici sul loro stesso territorio ha spinto il Governo di Pechino a proporsi come realizzatori della Grande Muraglia Verde Africana e l’approccio cinese ha già trovato una applicazione attorno alla capitale della Mauritania Nouakchott dove alberi di saxsaul e di acacia, combinati con griglie di paglia a scacchiera (tecnica perfezionata proprio nel deserto del Taklamakan) sono riusciti a stabilizzare le dune di sabbia. Anche in Etiopia le squadre cinesi, dopo aver ripulito la superficie dai cespugli spinosi invasivi, hanno ripristinato i pascoli e triplicato la resa del foraggio attraverso il pascolo a rotazione. Gli ingegneri cinesi coinvolti in queste operazioni affermano di non limitarsi a piantare alberi in Africa ma di creare “industrie verdi”.
In realtà le cose non devono essere state così semplici per i cinesi come sembrerebbe: in Mauritania ci vollero tre anni per convincere le autorità locali che 12 piante native in Cina e resistenti alla siccità non sarebbero diventate specie invasive e anche i semi di tali piante han dovuto passare attraverso una specie di quarantena. Lo stesso è successo in Etiopia dove delle 22 specie di piante utilizzate 8 erano di origine cinese. Oltre al tipo di piante e a speciali griglie di paglia usate a scacchiera sembra che i cinesi siano riusciti ad incrementare del 37% la sopravvivenza degli impianti grazie ad un metodo di piantagione derivato dall’esperienza accumulata. Uno specialista cinese interrogato sul loro metodo di lavoro e sul perché i loro sistemi farebbero risparmiare almeno il 37% sull’investimento necessario rispetto ai costi studiati dall’ONU ha risposto che loro non buttano via il tempo per produrre rapporti di 300 pagine e che i lavoratori cinesi svolgono il loro compito con una velocità dieci volte più alta dei loro possibili concorrenti. Ciò significa che gran parte della manodopera impiegata verrà dalla Cina?
Ad oggi non sembra ancora deciso se l’intera operazione della Grande Muraglia Verde Africana sarà assegnata alle aziende cinesi ma, se così fosse e il tutto fosse completato con successo, quella realizzazione rappresenterà una vittoria strategica in termini di soft power per Pechino. Senza contare che, di là di una questione d’immagine, non va dimenticato che tutto il Sahel è ricco di minerali e si integrerebbe perfettamente della Belt and Road Initiative. Forse il loro interesse non è soltanto altruistico.