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La scommessa dei dazi americani

Dario Rivolta

Un eminente analista politico americano non pregiudizialmente ostile a Trump, Stephen Kotkin, dice di lui: “Trump è la quintessenza dell’America…non è un alieno che è atterrato da qualche altro pianeta… riflette qualcosa di profondo e duraturo nella cultura americana. Pensate a tutti i mondi che ha frequentato e che lo hanno innalzato. Wrestling professionistico, reality TV, casinò e gioco d’azzardo non sono più solo a Las Vegas o Atlantic City ma ovunque, incorporati nella vita quotidiana. Cultura della celebrità. I social media. Tutto questo mi sembra l’America. E sì, anche la frode, la menzogna sfacciata e la roba di P. T. Barnum, imbonitore di Carnevale. Questo è un pubblico non piccolo, ed è da dove viene Trump e chi è”. Poco dopo, a scanso di equivoci, aggiunge: “E’ passato molto tempo dall’ultima volta che abbiamo avuto competenza e compassione ai vertici” (Purtroppo, detto per inciso, è successo lo stesso da noi in Europa).

Tali considerazioni non possono essere dimenticate nel giudicare le sue scelte politiche, sia quelle annunciate sia quelle realizzate, e ciò in aggiunta al fatto che Trump non ha cultura politica e ragiona solo come un imprenditore. In particolare bisogna tenerne conto quando valutiamo la questione dei previsti dazi alle importazioni di merci verso gli Stati Uniti. In questo caso è ancora più evidente l’attitudine di Trump a giocare d’azzardo. Secondo l’interpretazione più accreditata la sua è una scommessa, seppur rischiosa e potenzialmente pericolosa sia per gli USA sia per quel resto del mondo che subirà le nuove tariffe doganali.

Non si può, comunque, dimenticare che gli USA soffrono oggi di un forte deficit commerciale negli scambi con l’estero e l’obiettivo dichiarato dal Presidente americano è di “trasformare ancora una volta l’America nella superpotenza manifatturiera del mondo”. Attualmente gli scambi con l’estero sono negativi per circa 920 miliardi di dollari, di cui circa 100 con la Germania e 40 con l’Italia (per noi gli USA sono il secondo mercato mondiale dopo la UE e le esportazioni costituiscono il 33,7% del nostro PIL). Interessante è anche sapere che durante il suo primo mandato aveva ereditato un minus di 503 miliardi, cifra che quattro anni dopo era diventata di 626 miliardi nonostante fosse riuscito a ridurre quella con la Cina di ben 39 miliardi. Pure Biden aveva provato a ridurre il deficit mantenendo i dazi imposti da Trump e perfino aggiungendone qualcuno di nuovo ma, anche per lui, il risultato finale fu negativo: le perdite aumentarono addirittura di quasi 300 miliardi. In entrambe le presidenze l’effetto di questo tipo di operazioni ha trascinato l’aumento dell’inflazione interna causata dal maggiore costo dei beni importati. Ciò senza un aumento generalizzato della produzione delle aziende manifatturiere locali.

L’annuncio e l’applicazione di nuovi e importanti dazi doganali non potrà che coinvolgere un ulteriore aumento dell’inflazione per i consumatori americani e una successiva possibile reazione speculare dei Paesi colpiti da quelle misure. È oggettivamente impossibile che Trump e il suo staff non abbiano calcolato queste probabili conseguenze ma, evidentemente, contano sul fatto che gli USA sono, e restano, il potere economico e militare più grande del mondo e tocca quindi a loro fissare le regole del gioco. Ecco dunque la scommessa: le nuove tariffe doganali americane dovrebbero mettere in ginocchio le economie di tutti i Paesi che vantano un attivo nella loro bilancia commerciale con gli USA. E tale effetto dovrebbe avvenire prima e in modo più pesante di quando e di quanto ne soffriranno i consumatori sul mercato interno a stelle e strisce. A questo punto, le controparti straniere cercherebbero di negoziare in qualche modo e gli americani potrebbero darsi disponibili a rivedere i dazi soltanto in cambio di un riequilibrio degli scambi bilaterali. In altre parole meno dazi se le controparti si impegnano a comprare più prodotti made in USA. Funzionerà oppure no? Chi soffrirà per primo o di più? Per ora, nessuno può rispondere con una verosimile certezza a questa domanda.

Tuttavia, nelle menti di alcuni degli economisti trumpiani esiste anche un’altra teoria.

Gli avversari della politica dei dazi (sono tanti anche negli USA) ricordano le conseguenze negative per l’economia interna e internazionale della Smooth-Hawley Tariff Act del 1930. Questa legge aumentò le tariffe doganali su più di 20.000 prodotti importati e contribuì in modo determinante alla crisi cominciata nel ’29. Secondo i sostenitori della nuova politica tariffaria c’è però una differenza fondamentale tra gli USA di allora e quelli di oggi. In quel periodo gli Stati Uniti avevano il più grande surplus commerciale del mondo ed erano la patria dei maggiori esportatori del pianeta. Contemporaneamente, i consumatori interni non erano in grado di assorbire con i loro consumi tutto ciò che le imprese americane producevano. Attualmente la situazione è esattamente il contrario: gli americani investono e consumano molto di più di quanto producono ed hanno oggi il più grande deficit commerciale della loro storia.

I dazi sono effettivamente una tassa sui consumatori ma, aumentando il prezzo della produzione e di altri beni commerciabili, i dazi fungono implicitamente anche da sussidio per i produttori nazionali. Mentre nel primo caso gli Stati Uniti soffrivano di troppo risparmio e troppo poco consumo e dovevano quindi esportare tutto ciò che potevano nel resto del mondo (esattamente come oggi fa la Cina), oggi avviene il contrario: producono molto meno di quanto consumino. Tassando i consumi attraverso i dazi si sovvenziona così la produzione interna e si reindirizzerà necessariamente una parte della domanda verso l’aumento della quantità di beni e sevizi prodotti in casa. Ciò aumenterebbe il Pil degli Stati Uniti (e anche l’inflazione) con conseguente aumento dell’occupazione, salari più alti e meno debito. Le famiglie americane sarebbero in grado di consumare ancora di più in valori assoluti, anche se il consumo in percentuale del Prodotto Interno Lordo diminuisse.

Come è ovvio, l’economia non è una scienza esatta (ma esistono le scienze “esatte”?) e, di conseguenza, ogni ipotesi è pura teoria che potrà essere verificata solo con i fatti. Ciò che è indiscutibile resta che l’attuale economia americana, pur essendo la più importante del mondo non è del tutto sana. Secondo la banca Mondiale nel 2023 gli Stati Uniti hanno avuto un PIL di più di 27 mila miliardi di dollari (le esportazioni incidono solo per circa l’11%), la Cina di 18 mila, la Germania 4500, il Giappone 4200 e l’Italia di soli 2200. Nello stesso tempo, tuttavia, il debito sovrano in rapporto al PIL è di ben il 144% e lo squilibrio commerciale resta il più grande del mondo. Non c’è allora da stupirsi che Washington sperimenti qualche tecnica per cercare di rimediare ad una situazione non idilliaca. Se il calcolo degli economisti trumpiani si dimostrerà corretto avrà avuto ragione Trump quando diceva che i consumatori americani dovranno soffrire un poco all’inizio ma poi torneranno a stare bene e perfino meglio di prima. Se invece si sbagliassero e i dazi fossero applicati e mantenuti, le conseguenze economiche negative per i consumatori americani saranno piuttosto pesanti.

Comunque vada, seppur in misura diversa, tutti i Paesi del mondo ne soffriranno, a partire da quelli che attualmente vivono di esportazioni come Italia e Germania. Soprattutto sarà colpita la Cina a meno che riesca, come sta provando a fare da qualche anno senza risultato, a rilanciare i consumi interni in misura sufficiente da assorbire la locale sovrapproduzione.

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