Attualità

L’inflazione desiderata

L’annuncio del prossimo quantitative easing alla fine del proprio mandato rappresenta la migliore eredità del presidente della BCE Mario Draghi per legare e condizionare i primi mesi di attività del nuovo presidente Christine Lagarde. Sono invece piuttosto incerti gli obbiettivi e i possibili risultati  della seconda iniezione di liquidità voluta dalla BCE.

Dal 2015 ad oggi il quantitative easing ha rappresentato sostanzialmente “una sospensione dalla realtà” nella valutazione della sostenibilità del rapporto debito pubblico PIL e la spesa pubblica (in continua progressione) della quale hanno beneficiato soprattutto i governi Renzi e Gentiloni. Questi, infatti, pur usufruendo di continue diminuzioni dello spread, con la conseguente riduzione dei tassi di interesse che hanno presentato una condizione unica dal dopoguerra ad oggi  per la riduzione del debito, hanno continuato, invece, ad aumentare la spesa pubblica in modo dissennato. Ne è prova il fatto che la  crescita del PIL dal 2015 al 2018 è sempre percentualmente inferiore alla crescita del debito e al tasso d’inflazione il cui  differenziale si è manifestato attraverso una riduzione del potere d’acquisto e, di  conseguenza, dei consumi.

Tornando all’attualità del 2019 e al governo Conte, la Confesercenti ha rilevato come verranno meno  durante l’anno in corso oltre  un miliardo di consumi con una diminuzione del -0,4%, mantenendo quindi lo stato di deflazione. Questo secondo quantitative easing, tuttavia, si pone l’obiettivo di aumentare l’inflazione da sempre desiderato al  2% che rappresenta un livello auspicabile, ma solo e quando questa risulti essere espressione di un aumento della domanda.

Nonostante ciò si ricerca ancora una volta questa inflazione da parte della BCE (il cui ruolo istituzionale sarebbe quello di combatterla) perché alleggerirebbe il rapporto debito/PIL nel breve periodo grazie ad una crescita nominale del PIL stesso. Una visione esclusivamente monetaristica e utilitaristica e di brevissimo respiro in quanto ad ogni rinegoziazione del debito l’inflazione verrebbe trasferita anche ai costi del servizio al debito stesso. In più questa tipologia di politica monetaria finalizzata all’aumento della semplice liquidità presenta una gravissima mancanza di valutazione relativa alla nuova strutturazione del mercato globale anche sotto il profilo finanziario. Nel mondo globale le politiche monetarie anche se continentali (BCE) sortiscono un brevissimo effetto e per altro molto limitato ma l’eccesso di liquidità porta una depatrimonializzazione degli stessi risparmi privati  (https://www.ilpattosociale.it/2019/07/17/la-politica-monetaria-e-la-depatrimonializzazione-del-risparmio/).

A questo si aggiunga come lo stesso aumento dell’inflazione da troppi anni sia espressione in Italia del semplice aumento della pressione fiscale e delle accise (come non ricordare la favorevole posizione all’aumento  dell’IVA finalizzata alla crescita dell’inflazione della ex ministro Padoan). A questa infrazione interna legata alla pressione fiscale si aggiunga quella perversa d’importazione legata alle quotazioni delle materie prime, in particolare del petrolio e  suoi derivati. Nel 2013 ebbi l’ardire di scrivere come il mondo sarebbe cambiato quando gli Stati Uniti avrebbero raggiunto l’indipendenza energetica.

Da allora ad oggi gli Stati Uniti sono passati da primo importatore di petrolio a rappresentare il primo produttore ed esportatore di petrolio grazie agli investimenti dello Shale oil e shale gas.

L’alleanza stretta successivamente con l’Arabia Saudita (prima nazione per riserve petrolifere) e con la Russia ha posto le condizioni internazionali perché la quotazione del petrolio si mantenga tra i 60 e i 70 dollari. Una forchetta di quotazione che garantisca alle aziende estrattive statunitensi una buona redditività  e non risulti penalizzante per i consumatori e le imprese. In questo modo risulta neutralizzato il potere dell’Opec che con il  continuo aumento dei prezzi del petrolio per anni ha rappresentato il cappio al collo alle imprese italiane e dello sviluppo mondiale.

All’interno di un mercato globale nel quale la concorrenza determina un forte livellamento sia del prezzo al consumo quanto dei margini aziendali la politica monetaria consentirebbe di raggiungere un aumento dell’inflazione e di un miglioramento del rapporto debito/Pil della durata massima di sei  mesi. In questo modo viene evitato il problema di affrontare i veri nodi della mancanza di una crescita e di conseguenza di un reale aumento dell’inflazione da domanda la quale può essere ottenuta attraverso una riconversione della spesa pubblica ed un progressivo abbassamento delle aliquote fiscali  e della loro progressività.

In altre parole, l’ottima eredità lasciata dal presidente Mario Draghi attraverso l’annuncio del prossimo quantitative easing di cui beneficeranno i governi in carica lascerà invariata la dinamica dei problemi italiani che vengono determinati essenzialmente da due fattori responsabili della stagnazione italiana: la spesa pubblica, con la sua costante e progressiva crescita di quella improduttiva, e la gestione del credito, cioè il sistema bancario che da anni ha abbandonato la propria missione istituzionale.

In un simile contesto la “sospensione dalla realtà” nella valutazione dei parametri fondamentali dell’economia italiana che il Q.E. ci regala per un altro periodo potrebbe dimostrarsi il colpo finale alla nostra credibilità.

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