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Il braccio di ferro Usa-Cina potrebbe bruciare valore per 2.500 miliardi di dollari

Uno scenario estremo di disaccoppiamento tra i due principali mercati finanziari globali, quello statunitense e quello cinese, potrebbe comportare perdite fino a 2.500 miliardi di dollari a causa di vendite forzate di titoli azionari e obbligazionari da parte di investitori di entrambi i Paesi. È quanto emerge da un’analisi pubblicata il 14 aprile da Goldman Sachs. Secondo il rapporto, elaborato da un team di analisti guidato da Kinger Lau e Timothy Moe, gli investitori statunitensi potrebbero essere costretti a cedere fino a 800 miliardi di dollari in azioni cinesi quotate negli Stati Uniti, qualora nuove normative vietassero tali investimenti.

Al contempo, la Cina potrebbe liquidare titoli di Stato e partecipazioni azionarie statunitensi per un valore complessivo stimato in circa 1.670 miliardi di dollari. L’ipotesi di un disaccoppiamento finanziario sta guadagnando terreno sulla scia dell’aggravarsi delle tensioni commerciali tra i due Paesi. Il segretario al Tesoro degli Stati Uniti, Scott Bessent, ha recentemente dichiarato che l’eventualità di un “delisting” delle aziende cinesi dai listini americani “resta sul tavolo”, nel contesto della nuova ondata di dazi imposti da Washington, pari al 145%, cui Pechino ha risposto con tariffe del 125 per cento su tutte le importazioni statunitensi e del 25% su una serie di beni selezionati.

Nel rapporto, gli analisti di Goldman evidenziano l’accresciuto rischio di “delisting” per le aziende cinesi che operano negli Stati Uniti attraverso un certificato American depositary receipt (Adr). Una misura del genere colpirebbe circa 300 imprese, inclusi alcuni dei maggiori gruppi tecnologici cinesi. Alla data del 7 marzo, risultavano quotate a New York, sull’American Stock Exchange e sul Nasdaq, 286 aziende della Cina continentale con una capitalizzazione complessiva di circa 1.100 miliardi di dollari, secondo la Us-China economic and security review commission. Secondo James Wang, responsabile della strategia per la Cina di Ubs Investment Bank Research, il “delisting” avrebbe gravi conseguenze strutturali, tra cui l’accesso limitato alla liquidità dei mercati Usa, un possibile calo delle valutazioni e un’erosione della base di investitori. Tuttavia, ha osservato Wang, la raccolta di capitale attraverso Adr si è ridotta negli ultimi anni, a vantaggio del mercato di Hong Kong. Tra le principali società cinesi quotate a New York figurano il gruppo Alibaba (257 miliardi di dollari di capitalizzazione), Pdd Holdings (125,7 miliardi) e NetEase (64 miliardi). L’indice Nasdaq Golden Dragon China, che segue 68 società cinesi quotate negli Stati Uniti, ha perso il 15 per cento dall’inizio del mese, a fronte di un calo del 4,4 per cento dello S&P 500 e del 9,5 per cento dell’Hang Seng Index di Hong Kong.

Nel 2022, cinque grandi aziende cinesi a controllo statale – tra cui PetroChina e Sinopec – si sono ritirate dai listini statunitensi in seguito a una controversia sugli standard di revisione contabile, poi risolta con un accordo tra le autorità di vigilanza dei due Paesi. Molte società cinesi hanno da allora avviato una doppia quotazione a Hong Kong per mitigare il rischio di “delisting”. Secondo Goldman Sachs, 27 aziende attualmente quotate solo negli Stati Uniti – per un valore complessivo di 184 miliardi di dollari – avrebbero già i requisiti per una seconda quotazione nella città asiatica. Tra queste figurano Pdd, Full Truck Alliance e Futu. Secondo gli analisti della banca statunitense, un’eventuale quotazione a Hong Kong “potrebbe favorire una rivalutazione” dei titoli, grazie alla possibilità per gli investitori statunitensi di convertire gli ADR in azioni ordinarie in caso di improvvisi shock di liquidità.

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