
L’escalation di violenza tra fazioni in Sudan induce Medici senza frontiere a lasciare Khartoum
In Sudan, dove le Forze di Supporto Rapido combattono contro gli ex amici dell’esercito regolare, 25 milioni di persone soffrono la fame e rimangono spesso vittime delle offensive degli uni o degli altri mentre provano a fronteggiare la fame.
Gli scontri in atto tra le opposte fazioni dal 15 aprile 2023 hanno provocato decine di migliaia di morti e 10 milioni di senza tetto. Vittorio Oppizzi, responsabile dei programmi di Medici senza frontiere nel Paese africano, ha parlato al Corriere della Sera della «più grave crisi di sfollati al mondo: una persona su 5 costretta a fuggire per la guerra».
«A Khartoum si combatte di quartiere in quartiere. El Fashir in Darfur è sotto assedio da nove mesi. A dicembre hanno cominciato a bombardare sui campi di Zam Zam e in altre zone: Jazira e Sennar, gli Stati-granaio del Paese» ha detto Oppizzi, asserendo che «non c’è Paese al mondo dove ci sia più gente a rischio del Sudan».
Matteo D’Alonzo, hospital manager di Emergency a Khartoum stima che «saranno 30,4 milioni i sudanesi in necessità di aiuti umanitari nel 2025, circa due terzi dell’intera popolazione del Paese». La violenza degli scontri nella capitale Khartoum ha già indotto a inizio anno Medici senza frontiere a lasciare la città, dove gestiva un ospedale
Due generali sono gli attori principali della escalation in cui il Sudan precipita sempre più: da un lato Abdel Fattah al Burhan, presidente del Consiglio supremo di transizione e comandante in capo delle forze armate, dall’altro il suo vice Mohamed Hamdan Dagalo, detto “Hemeti”, a capo dei paramilitari delle Forze di supporto rapido (Rsf). Nell’aprile del 2019 i due furono protagonisti del colpo di Stato che rovesciò il regime di Omar al Bashir, l’uomo che aveva dominato la vita politica del Sudan sin dalla fine degli anni Ottanta. L’accordo tra Al Burhan e Dagalo ha però iniziato a vacillare dopo l’accordo per la formazione di un nuovo governo di transizione a guida civile. Una delle parti più sensibili del documento prevedeva infatti l’integrazione delle Rsf guidate da Dagalo – che negli anni hanno accumulato enormi ricchezze attraverso la graduale acquisizione di istituzioni finanziarie sudanesi e delle riserve auree – e la cessione di lucrose proprietà militari nell’agricoltura, nel commercio e in altre industrie, una fonte cruciale di potere per un esercito che ha spesso esternalizzato l’azione militare alle milizie regionali. Dagalo e i suoi uomini vantino strettissimi rapporti con la compagnia paramilitare russa Wagner e con gli Emirati per quanto concerne lo sfruttamento delle miniere d’oro. Abu Dhabi è infatti un hub globale dell’oro, a cui la Wagner rivende quello dal Sudan e con gli Emirati “Hemeti” aveva costruito negli anni un rapporto privilegiato andato tuttavia deteriorandosi da quando il generale ha iniziato a stringere alleanze con i capi tribù del Darfur (di cui è originario), molti dei quali sono islamisti esponenti di spicco del vecchio regime di Bashir. Dall’atra parte l’Egitto di Abdel Fattah al Sisi ha allacciato legami molto stretti con il Consiglio sovrano di Khartum, effettuando frequenti esercitazioni militari congiunte. Al Sisi condivide con Al Burhan l’aver fatto carriera come militare e vede in Burhan un referente più affidabile per quel che riguarda la posizione del Sudan rispetto alla Grande diga della rinascita (Gerd), la maxi infrastruttura in fase di costruzione sul Nilo Azzurro in Etiopia e ritenuta dal Cairo come una minaccia esistenziale alla propria autonomia energetica.