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Continua in Cina la persecuzione dei cristiani

L’accordo con il Vaticano non cancella la repressione

Il 4 giugno 1989 non esiste per il regime comunista di Pechino. E’ stato un giorno critico e tragico per i cinesi, in cui il governo ha massacrato migliaia di dimostranti che reclamavano la democrazia nella piazza Tienanmen di Pechino. Lo ricorda un articolo del Wall Street Journal del 30 maggio scorso, che denuncia la continuazione della persecuzione dei cristiani. Lo stesso giorno, tra l’altro, i leader del partito comunista – rammenta il giornale – videro i candidati pro democrazia in Polonia soppiantare il potere comunista, con l’indispensabile sostegno di Papa Giovanni Paolo II. Questi due eventi avrebbero spinto Pechino a rafforzare il controllo sulla religione, ritenendo che essa avesse rappresentato un forte incentivo per le manifestazioni a favore della democrazia. Dopo la tragedia di Tienanmen, dunque, i gruppi cristiani furono obbligati a registrarsi presso associazioni statali “patriottiche”. Nell’intento di mantenere l’accesso ai mercati occidentali, Pechino applicò selettivamente queste regole nelle grandi città, al fine di non far scoppiare reazioni troppo travolgenti nei confronti del regime. Chi sopportò il peso della chiusura delle chiese e l’internamento di massa nei campi di concentramento furono i contadini cristiani clandestini. Nei successivi tre decenni dopo il famigerato 1989, il cristianesimo cinese avrebbe registrato una crescita spettacolare. Oggi potrebbero esserci oltre 100 milioni di cristiani cinesi. Tutti, tranne 36 milioni – riferisce sempre il giornale americano – praticano la loro fede, al di fuori del controllo del governo. Il sociologo Fenggang Yang, professore e direttore fondatore del Center on Religion and Chinese Society della Purdue University, situata a West Lafayette nello stato dell’Indiana (Usa), ha previsto che la Cina potrebbe avere circa 280 milioni di cristiani entro il 2030. Un dato comparativo è offerto dal Partito Comunista che conta 90 milioni di iscritti. L’anno scorso il presidente Xi Jinping, nel tentativo di frenare la crescita della Chiesa e di sottomettere la fede cristiana ai dettami del partito, affidò il controllo diretto delle chiese al Partito comunista ufficialmente ateo. Fu così che alcune mega chiese urbane clandestine sono state chiuse, migliaia di membri delle congregazioni arrestati e numerosi eminenti pastori protestanti sono stati condannati a lunghe pene detentive. Il regime ha inoltre lanciato, proprio in questi giorni, una campagna nazionale per sradicare le chiese che avevano rifiutato di registrarsi. Questa politica si chiama “sinicizzazione.” L’Istituto pontificio per le Missioni estere afferma che l’obiettivo di questa politica è rendere le religioni “strumenti di partito”. L’anno scorso nella provincia di Henan, 10.000 chiese protestanti sono state chiuse, anche se la maggior parte erano state registrate secondo le norme in vigore. Nel 2018, più di un milione di cristiani sono stati minacciati o perseguitati e 5.000 sono stati arrestati. Nelle chiese i simboli cristiani a volte vengono sostituiti con le immagini del presidente Xi. Le chiese sopravvissute devono sostituire gli insegnamenti biblici ed evangelici con i valori socialisti. C’è stato un accordo del Vaticano con Pechino sulle nomine episcopali, ma ciò nonostante i cattolici cinesi non sono stati risparmiati. Papa Francesco ha riconosciuto tutte e otto le selezioni dei vescovi fatte dal governo cinese, mentre lo stato cinese non ha ancora ricambiato con nessuno dei 30 vescovi selezionati dal Vaticano. Da quando l’accordo è stato firmato, inoltre, due popolari santuari mariani di pellegrinaggio sono stati demoliti. Diversi preti cattolici clandestini ed un vescovo sono stati detenuti e costretti alle sessioni di rieducazione del Partito comunista, che non smentisce sé stesso e come si è sempre comportato in tutti i Paesi del mondo dove è andato al potere: imporre l’ateismo come dottrina di Stato e fare piazza pulita del cristianesimo. Molti cattolici in Cina rimangono clandestini e sono critici nei confronti dell’accordo firmato dal Vaticano, perché, come temevano e denunciavano, l’accordo non sarebbe stato rispettato dal partito comunista. Sapeva tutte queste cose il Vicepresidente Di Maio quando è andato a Pechino a preparare l’adesione del governo italiano alla Nuova Via della Seta, adesione firmata in seguito a Roma, contro il parere di tutti gli Stati dell’Unione europea di cui l’Italia, fino a prova contraria, è uno dei membri fondatori? E se lo sapeva, quali sono i vantaggi che l’Italia pensa di ricavare da questa firma? E’ possibile andare a braccetto con chi, ancora oggi, pratica la persecuzione contro i cristiani, come avveniva ai tempi dell’Impero romano? Sì, per i nostri governanti è possibile, nonostante le chiacchiere quotidiane sui diritti umani.

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