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Per i dissidenti di Hong Kong arriva la repressione giudiziaria

Joshua Wong è stato condannato a 13 mesi e mezzo di carcere dopo essersi dichiarato colpevole delle accuse mossegli sul ruolo svolto nelle proteste per le riforme democratiche che nel 2019 misero a soqquadro Hong Kong. Ventiquattro anni, tra i più noti attivisti impegnati in prima linea, Wong è stato così riconosciuto responsabile di “incitamento, organizzazione e partecipazione alla manifestazione illegale” del 21 giugno del 2019 che portò a circondare il quartier generale della polizia di Wan Chai in risposta alla repressione da parte delle forze dell’ordine dei dimostranti scesi in piazza per protestare contro la legge sulle estradizioni in Cina. Con lui anche Agnes Chow, 23 anni, e Ivan Lam, 26 anni – due ex leader con Wong del gruppo politico Demosisto sciolto a fine giugno in vista dell’entrata in vigore della legge sulla sicurezza nazionale imposta da Pechino – sono stati condannati rispettivamente a 10 e 7 mesi di detenzione.

“Gli imputati hanno invitato i manifestanti ad assediare il quartier generale e hanno cantato slogan che minano le forze di polizia”, ha scandito il giudice della West Kowloon Magistrates Court, Wong Sze-lai, illustrando il dispositivo della sentenza. “La reclusione immediata è l’unica opzione appropriata”, ha poi aggiunto, sottolineando “la necessità di deterrenza e punizione”.  Le condanne, che hanno provocato proteste da parte dell’Occidente, sono maturate sullo sfondo di un giro di vite nell’ex colonia britannica imposto da Pechino dopo la legge sulla sicurezza nazionale. Le accuse contro Wong, Chow e Lam si riferivano a fatti accaduti prima dell’entrata in vigore della legge contestata, ma la formulazione vaga del testo e la sua ampia portata hanno eroso l’alto grado di autonomia concesso ai territori dopo la restituzione della città dalla Gran Bretagna alla Cina nel 1997.

Quattro deputati pro-democrazia del parlamentino locale sono stati cacciati da Pechino perché non patriottici, causando le dimissioni di solidarietà di tutti gli altri 15 colleghi pandemocratici. Provvedimenti sono stati presi anche contro gli insegnanti per aver discusso di argomenti delicati nelle scuole, mentre dalle librerie sono scomparsi testi considerati scomodi.

“I giorni a venire saranno duri ma resteremo lì, non molleremo”, ha commentato Wong mentre veniva portato via dall’aula. “Non è la fine della lotta”, è il messaggio che ha voluto poi veicolare tramite i suoi legali. Jonathan Man, uno degli avvocati, ha spiegato che gli attivisti speravano in pene più lievi perché non erano stati coinvolti nelle violenze. Questa volta però le sanzioni pecuniarie o l’affidamento ai servizi alla comunità non sono state applicati a conferma di un clima diverso con Pechino che, secondo gli osservatori, sembra intenzionata a stroncare con la forza il dissenso nell’ex colonia. Chow aveva già annunciato che avrebbe presentato appello alla sentenza, mentre Wong e Lam stavano valutando se seguirla.

Dominic Raab, ministro degli Esteri britannico, ha criticato la sentenza e ha invitato “le autorità di Hong Kong e Pechino a porre fine alla loro campagna per soffocare l’opposizione”. Toni di condanna anche da Berlino e da diversi parlamentari italiani.

Intanto, Jimmy Lai, il tycoon dei media e strenuo oppositore di Pechino, è stato arrestato dalla polizia con le accuse di frode, secondo il suo tabloid Apple Daily. Ad agosto, Lai fu arrestato per la presunta “collaborazione con forze straniere” e per l’organizzazione di proteste antigovernative. La legge sulla sicurezza nazionale, combinata alla pandemia del Covid-19 (alla base del rinvio delle elezioni politiche da settembre 2020 a settembre 2021), ha neutralizzato le proteste, malgrado la polizia abbia detto che bombe molotov sono state lanciate martedì contro un club sportivo e ricreativo per ufficiali a Kowloon.

Il giorno successivo alle tre condanne, in una Hong Kong sempre più sotto il tallone di Pechino, è finito in manette anche il magnate dei media Jimmy Lai: comparso in tribunale per le accuse di frode – ultimo dei procedimenti penali contro gli attivisti critici verso il governo locale e quello centrale cinese – è stato arrestato in aula. A Lai, 73 anni, fondatore e proprietario del tabloid Apple Daily, schierato a favore delle riforme democratiche, è stata negata la libertà su cauzione per un presunto “pericolo di fuga”. Il processo partirà ad aprile con un giudice nominato secondo la nuova e contestata legge sulla sicurezza nazionale imposta sulla città dalla Cina.

Le accuse di frode contro Lai sono relative all’affitto dell’edificio che ospita l’Apple Daily, parte di una strategia che ha visto le autorità di Hong Kong intensificare il giro di vite su figure chiave dell’opposizione dopo l’introduzione della legge sulla sicurezza nazionale, in vigore dal 30 giugno. Lai e due alti dirigenti della sua azienda Next Digital sono stati formalmente incriminati per aver nascosto e rappresentato in modo falso l’uso degli uffici al proprietario dell’immobile, una società pubblica del governo di Hong Kong. In altri termini, sull’utilizzo degli spazi sono state violate le clausole del contratto di locazione tra il 2016 e il 2020, con un subaffitto improprio di parte dei locali che avrebbe generato vantaggi illeciti ad Apple Daily. Ad agosto Lai fu arrestato dopo che circa 200 agenti di polizia perquisirono i suoi uffici, riuscendo poi a ottenere la libertà su cauzione. La legge sulla sicurezza nazionale punisce tutto ciò che la Cina considera sovversione, secessione, terrorismo o collusione con forze straniere fino all’ergastolo.

Lai si è recato spesso a Washington, dove ha incontrato funzionari di alto livello e il segretario di Stato Mike Pompeo per sollecitare il sostegno alla causa democratica di Hong Kong, spingendo Pechino a etichettarlo come “traditore”.  Il clima del tutto cambiato a Hong Kong, con l’ampia autonomia nei confronti di Pechino che sta evaporando moto velocemente, sta spingendo gli esponenti pro-democrazia a lasciare i territori per evitare pesanti ritorsioni. L’ultimo caso è quello di Ted Hui, ex deputato del Partito democratico su cui pendono 9 capi d’accusa, che ha annunciato la scelta dell’esilio con tutta la famiglia. “Non ci sono parole per descrivere il mio dolore ed è difficile trattenere le lacrime”, ha scritto sui social media Hui, ora in Danimarca e prossimo a spostarsi a Londra.

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