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In attesa di Giustizia: comune senso del pudore

Ho visto cose che voi umani non potete nemmeno immaginare: ho visto celebrare processi in videoconferenza e decidere la sorte di un uomo con la connessione intermittente che faceva capire una parola si e tre no, ho visto cancellerie chiuse con i funzionari a casa in smart working ma senza i computer criptati per lavorare e ho visto sentenze della Cassazione sostenere che un certificato medico presentato in udienza da un avvocato non vale nulla perché andava spedito via pec.

Benvenuti nel meraviglioso mondo del processo penale telematico dove tutto è fantasia, intuizione, colpo d’occhio e velocità di esecuzione, un po’ come sostiene il Perozzi in Amici Miei riferendosi al genio…solo che in questo caso di genialità non c’è nulla, anzi: serve fantasia per interpretare le circolari ministeriali, intuizione per capire come funziona il leviatanico portale di deposito atti, colpo d’occhio per scoprire gli uffici con all’interno un umanoide che sia ancora disposto a darvi retta e velocità di esecuzione per cogliere l’attimo in cui i sistemi informatici messi a disposizione da via Arenula sono miracolosamente funzionanti.

In questo girone dantesco destinato agli inefficienti che è diventato il back office della giustizia penale la semplificazione che avrebbe dovuto portare ha, invece, fallito miseramente peggiorando le cose ed è ancora più facile imbattersi in forme particolari di mancanza di senso del pudore come nella sentenza della Cassazione che questa settimana offre amari spunti di riflessione.

Accade che un avvocato, per ragioni di salute, non sia in grado di raggiungere Roma per discutere un processo proprio in Cassazione: come si è fatto per decenni chiede ad un collega la cortesia di andare a chiedere un rinvio per legittimo impedimento inviandogli via mail una copia di certificato medico; per completezza di informazione ricordiamo, anche a chi non è seguace di Davigo e Travaglio, che questi rinvii non valgono a raggiungere la prescrizione perché ne sospendono il corso.

Risultato: la Suprema Eccellentissima Corte rigetta l’istanza e senza rispetto alcuno per il comune senso del pudore e con sprezzo del ridicolo scrive che la richiesta non può essere accolta perché: 1) il certificato medico è in fotocopia 2) perché doveva essere spedito alla cancelleria via pec.

E così fu che il ricorso è stato trattato senza il difensore a discuterne le ragioni; questa decisione induce alcune riflessioni: la prima di queste attiene alla primazia che sembra doversi ormai riconoscersi alle macchine ed il vade retro ad un gentiluomo in toga soprattutto se per sostenere le proprie ragioni è munito solamente di una fotocopia…fotocopia che la pec (nell’eventualità remota che qualcuno la legga per tempo o non finisca nella spam a causa della presenza di un allegato sospetto) si direbbe in grado di trasformare miracolosamente in un originale così come la macchinetta della Lavazza sita nel corridoio della cancelleria inizi a mescere Barolo al posto del cappuccino.

L’etimologia del termine giurisprudenza richiama ad un corretto governo del buon senso nella interpretazione della legge ed, a tacer di questo, il codice prevede espressamente che vi possa essere deposito di atti e documenti in udienza e questa decisione non è priva dello sgradevole retrogusto del sospetto nei confronti di avvocati che si ammalano al momento più opportuno…ammesso che lo siano davvero.  Vergogniamoci per loro che non sono in grado di farlo da soli.

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