
In attesa di Giustizia: sindrome da accerchiamento
Ennesima tappa del conflitto dichiarato dalla magistratura associata alla riforma sulla separazione delle carriere è stata la mancata partecipazione dei vertici degli Uffici Giudiziari milanesi alla Inaugurazione dell’Anno Giudiziario dell’Unione delle Camere Penali che, con sede unica come di consueto per il 2025, era stata organizzata proprio a Milano: la motivazione è stata che si sarebbe trattato di un contesto aprioristicamente ritenuto inteso a delegittimare la magistratura.
Termini forti, frutto di fallace capacità divinatoria rispetto ad un evento prima ancora che venisse celebrato, ed una scelta che ha avuto come risultato quello di sottrarsi al confronto con l’avvocatura su temi di grande attualità; un rifiuto che, questo sì, suona come uno strappo con quella categoria che non persegue finalità di parte, politiche o di conservazione del consenso ma la cui funzione risiede nell’assicurare che siano rispettate le regole del giusto processo. Un’occasione persa di interloquire con giuristi di elevato profilo, professionisti, accademici e statisti di un tempo andato come un lucidissimo Claudio Martelli che ha ricordato come Giovanni Falcone nel pieno rispetto delle regole processuali abbia inferto colpi durissimi alla criminalità organizzata mentre la Procura di Milano, strapazzando a suo uso e consumo il codice di procedura penale ha unicamente creato i presupposti perché la corruzione, tutt’altro che debellata, si facesse più accorta e subdola ed abbia innalzato le tariffe.
Quei magistrati hanno giurato sulla Costituzione, quella che viene ora sventolata nelle manifestazioni di protesta come un tatzebao, ma sembrano dimentichi che la difesa conosce la sacralità del canone costituzionale e che gli avvocati ne sono i garanti, che proprio la nostra Carta Fondamentale (in cui sono mirabilmente confluite armonizzandosi due ideologie, quella cattolica e quella marxista non senza qualche influsso gentiliano-hegeliano) insegna la centrale importanza di un dialogo culturalmente alto tra avversari che non siano mai nemici ed i risultati migliori originano proprio dalla diversità delle posizioni e delle idee.
L’avvocato, il difensore, dovrebbe, quindi, essere visto interlocutore privilegiato per scongiurare quella deriva normativa che ormai lo relega al ruolo di silente redattore di mail nella cornice di un processo penale deprivato del contributo intellettuale e dialettico portato dalla oralità che altrettanto mortifica la giurisdizione in entrambe le sue componenti, requirente e giudicante, con il pretesto di offrire maggiore slancio ad una macchina ingolfata.
L’invito a confrontarsi declinato dai magistrati milanesi è sintomatico di una sorta di sindrome da accerchiamento e, detta tutta, di un abbassamento del livello della coscienza civile che ultimamente si è in più occasioni ed a più voci manifestato: sarebbe però sbagliato offendersi per il “gran rifiuto”. è preferibile trarne stimoli perché contegni simili, esprimono in ultimo che lo Stato di diritto è un bene ancora da tutelare e su cui l’avvocatura per prima deve vigilare.
La Costituzione, sempre quella, non basta averla in un cassetto, leggerla, giurarci sopra e meno che mai sbandierarla: bisogna comprendere cosa c’è scritto in ogni sua parte e ricordare che sono stati gli Italiani, nel cui nome viene resa giustizia, che hanno sottoscritto quel vituperato disegno di legge di iniziativa popolare per la separazione delle carriere: è innanzitutto alla volontà del popolo sovrano che viene con tali metodi opposta la ferma contrapposizione alla riforma e proseguendo su questa china, la magistratura non si rende conto che si sta ulteriormente delegittimando da sola pur coltivando il convincimento di avere sempre ragione. Sarà, forse, per questo motivo che, mutuando il pensiero di Bertold Brecht, noi avvocati siamo seduti dalla parte del torto perché dalla parte della ragione i posti erano tutti occupati.