accordo

  • L’Ue congela l’accordo sugli investimenti con la Cina

    L’Occidente c’è e vuole dimostrarlo alzando muri contro l’aggressività economica della Cina. Dall’Ue al G7 degli Esteri, il primo dell’era Biden, si tenta di arginare l’espansionismo di Pechino, attualmente il più grande grattacapo delle democrazie occidentali e non solo sul piano dei diritti umani.

    Alla luce dell’inasprimento delle relazioni tra Bruxelles e Pechino a colpi di sanzioni, la Commissione ha deciso di congelare gli sforzi per far ratificate dai 27 e dal Parlamento di Strasburgo l’accordo sugli investimenti concluso alla fine del 2020 con Xi Jinping. “Abbiamo per il momento sospeso lo sforzo di sensibilizzazione politica da parte della Commissione, perché è chiaro che nella situazione attuale l’ambiente non è favorevole alla ratifica dell’accordo”, ha spiegato il vicepresidente della Commissione Ue Valdis Dombrovskis in un’intervista alla France Presse.

    Il clima sfavorevole a cui fa riferimento è quello delle sanzioni cinesi contro personalità europee – adottate come contromisura a quelle imposte dell’Ue contro Pechino – che hanno colpito anche europarlamentari e definite a Bruxelles “inaccettabili e deplorevoli”. “Le prospettive per la ratifica dell’accordo bilaterale sugli investimenti dipenderanno da come evolverà la situazione”, aveva avvertito Miriam Ferrer, portavoce per il commercio della Commissione europea, parlando con l’Ansa. Non solo. La vicepresidente Margrethe Vestager – come preannunciato la settimana scorsa – presenterà lo scudo Ue contro le scalate ostili da parte di aziende di Paesi terzi: una sorta di ‘golden power’ pensata principalmente contro le aziende di Pechino che, gonfie di sussidi governativi, sono ormai da anni iperattive sul territorio europeo approfittando delle difficoltà economiche dell’Europa, aggravate dalla crisi sanitaria. Mentre dalla riunione a Londra dei ministri degli Esteri arriva la proposta degli Stati Uniti di istituire un meccanismo di consultazione del G7 per garantire una risposta coordinata alle mosse di Pechino, considerate aggressive. L’iniziativa è trapelata da fonti presenti alle discussioni londinesi via Bloomberg, e non è stata ancora confermata dal Dipartimento di Stato, ma è chiaro ormai il cambio di passo dell’amministrazione Biden nei confronti del gigante asiatico, portando sulla propria linea anche i tre membri europei del G7: Italia, Francia e Germania. Anche secondo le parole del padrone di casa, il britannico Dominic Raab, le “società aperte e democratiche” devono “dimostrare unità” e fare fronte comune per “contrastare le sfide che condividiamo e le minacce che si moltiplicano”. Oltre al problema cinese, affrontato anche alla cena inaugurale di lunedì sera (circola anche l’ipotesi di costituire un gruppo di monitoraggio chiamato ‘Friends of Hong Kong’), sul tavolo dei capi diplomazia del G7, riuniti per la prima volta in presenza dall’inizio della pandemia, ci sono tutti i grandi dossier internazionali: dall’infinita guerra in Siria alla fragile stabilizzazione della Libia – temi presentati da Luigi Di Maio -, dall’Ucraina minacciata da Mosca all’Afghanistan in bilico tra il ritiro delle truppe Nato e il rigurgito talebano. Molti anche gli incontri bilaterali a margine dei lavori: piena sintonia tra Italia e Regno Unito è emersa, tra l’altro, sulla lotta ai cambiamenti climatici in “quest’anno di presidenze” – del G20 per Roma e del G7 per Londra, nonché di copresidenza della CoP26 – nel faccia a faccia tra Di Maio e Raab.

  • Accordo “di principio” tra Ue e Cina sugli investimenti

    Cina e Unione Europea hanno raggiunto un accordo “di principio” sugli investimenti, che pone fine a 7 anni di negoziati tra Pechino e Bruxelles. L’accordo raggiunto ha “un grande significato economico”, recita una nota dell’Unione Europea e “lega le due parti a una relazione sugli investimenti fondata sui valori e basata sui principi dello sviluppo sostenibile”. L’intesa servirà a “riequilibrare” il commercio e gli investimenti tra Cina e Unione Europea e prevede una “piena attuazione” degli accordi di Parigi in materia di clima e ambiente: ci saranno, poi, un “robusto meccanismo” di applicazione e monitoraggio, garanzie nei campi del trasferimento di tecnologia contro “pratiche distorcenti”, e “chiari obblighi” per le imprese statali cinesi. Per Pechino, l’accordo “fornirà agli investimenti reciproci un maggiore accesso al mercato, un livello più elevato di ambiente imprenditoriale, maggiori garanzie istituzionali e una cooperazione più brillante” e “stimolerà con forza la ripresa mondiale nel periodo post-epidemia”, ha dichiarato il presidente cinese, Xi Jinping.

    L’intesa è stata siglata in un incontro in video collegamento tra il presidente cinese e i vertici Ue, la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, la cancelliera tedesca Angela Merkel, in qualità di presidente di turno; all’incontro c’era però anche il presidente francese, Emmanuel Macron e proprio la partecipazione del capo dell’Eliseo, la cui presenza non era giustificata dal formato dell’evento, è stata accolta con “sorpresa” dall’Italia, che “era a conoscenza della volontà di Macron di inserirsi” ma sperava che questo scenario venisse evitato.

    L’Accordo Complessivo sugli Investimenti (Cai) è “un grande passo avanti” che “ristabilisce l’equilibrio” nei rapporti tra Ue e Cina, dando alle imprese europee “un forte impulso” sul mercato cinese, ha commentato il vicepresidente della Commissione Ue, Valdis Dombrovskis. Il risultato di oggi, ha aggiunto, non risolve tutte le difficoltà nel rapporto con la Cina – che Bruxelles considera un “rivale sistemico”- anche se “lega Pechino a impegni significativi nella giusta direzione, più di quanto si sia mai detta d’accordo a fare prima”. La Cina assicura che l’intesa si applicherà a tutti i campi, ha dichiarato il portavoce del Ministero del commercio di Pechino, Gao Feng, con nuove opportunità soprattutto nei settori del manifatturiero avanzato, dello sviluppo verde e dei servizi. Lanciati ufficialmente nel novembre 2013, i negoziati tra Cina e Ue sono cominciati ufficialmente a gennaio 2014 e si sono protratti per 36 round di colloqui. L’ultimo scoglio riguardava il rispetto degli standard internazionali in materia di diritto del lavoro, che Pechino promette di osservare, nonostante permangano ancora molti dubbi da parte dell’Ue (e degli Usa).

    La Cina è oggi il principale partner commerciale dell’Unione europea e l’accordo giunge a poche settimane dall’insediamento alla Casa Bianca di Joe Biden, che ha promesso un maggiore coinvolgimento degli alleati internazionali per esercitare pressioni sulla Cina. Il suo team aveva espresso preoccupazione in vista dell’accordo e il consigliere per la sicurezza nazionale scelto dal presidente eletto, Jake Sullivan, aveva chiesto preventive “consultazioni” con i partner europei sulle pratiche economiche di Pechino: un richiamo rivolto soprattutto alle accuse di sfruttamento del lavoro forzato nella regione autonoma dello Xinjiang, nel mirino dei sospetti internazionali di violazioni dei diritti umani e detenzioni di massa. Per Pechino, però, l’accordo – che dovrà essere tradotto, ratificato dai 27 membri dell’Unione e approvato dal Parlamento europeo – manda un messaggio di vittoria del multilateralismo all’amministrazione Usa entrante. La Cina, ha detto Gao, “rimane impegnata nel nuovo paradigma di sviluppo e nell’espansione delle aperture. Vogliamo cooperare con tutte le parti, inclusi gli Stati Uniti, per uno scenario di benefici reciproci”.

  • I deputati minacciano di bloccare l’accordo commerciale UE-Regno Unito se Londra ne violerà le condizioni

    I legislatori europei minacciano di bloccare qualsiasi accordo commerciale con il Regno Unito a meno che quest’ultimo non ritiri i suoi piani ignorando gli elementi dell’accordo sulla Brexit e violando il diritto internazionale in maniera così diretta.

    “Se le autorità britanniche violano – o minacciano di violare – l’accordo di recesso, attraverso il disegno di legge sul mercato interno del Regno Unito nella sua forma attuale o in qualsiasi altro modo, il Parlamento europeo non ratificherà in nessun caso alcun accordo tra l’UE e l’UK”, hanno fatto sapere in una dichiarazione congiunta i leader dei gruppi politici del Parlamento europeo insieme ai membri del gruppo di coordinamento del Regno Unito (UKCG). Hanno aggiunto che l’organismo “non accetterà che la sua supervisione democratica venga frenata da un accordo dell’ultimo minuto oltre la fine di ottobre”, ribadendo anche l’appello del vicepresidente della Commissione, Maros Sefcovic, al governo del Regno Unito di ritirare queste misure dalla bozza di legge nel più breve tempo possibile, o si rischia il fallimento dei colloqui post Brexit.

    “La totale mancanza di rispetto dei termini dell’accordo di recesso violerebbe il diritto internazionale, minerebbe la fiducia e metterebbe a rischio i futuri negoziati sulle relazioni in corso”, ha affermato l’UE in una dichiarazione dopo un incontro di emergenza con il ministro britannico Michael Gove, a Londra, la scorsa settimana, aggiungendo che spetta al Regno Unito ricostruire questa fiducia.

    Una violazione dell’accordo potrebbe indurre l’UE a intraprendere un’azione legale contro il Regno Unito. Il governo britannico però, senza troppi giri di parole, ha dichiarato che non ritirerà il disegno di legge del primo ministro britannico Boris Johnson che sarà discusso lunedì prossimo alla Camera dei Comuni e, successivamente, ci sarà una votazione.

    Se i colloqui sono condotti solo dalla Commissione, il Parlamento europeo deve dare il suo assenso affinché qualsiasi accordo venga approvato.

  • Il PE si prepara a votare l’accordo sulle indicazioni geografiche UE-Cina

    Il 6 novembre 2019 l’UE e la Cina hanno concluso i negoziati su un accordo autonomo in merito alla cooperazione sulla protezione delle indicazioni geografiche (IG) di prodotti, perlopiù agricoli. Il reciproco accordo UE-Cina mira a proteggere 100 IG dell’UE in Cina e 100 IG cinesi nell’UE contro l’imitazione e l’appropriazione indebita. Il 20 luglio 2020 il Consiglio UE ha approvato la firma dell’accordo e il Parlamento europeo deve ora dare il suo consenso alla conclusione del contratto. Una volta entrato in vigore, l’accordo potrebbe contribuire a promuovere le esportazioni dei prodotti alimentari di alta qualità dell’UE, compresi vini e alcolici, verso la terza destinazione più grande per le esportazioni agroalimentari dell’UE, cioè la Cina.

    L’accordo amplierebbe inoltre il riconoscimento globale del regime di protezione delle IG sui generis dell’UE, un obiettivo chiave della politica commerciale dell’UE.

  • Accordo sì, ma deplorevole, per Ursula von del Leyen, il taglio a salute, ricerca e clima

    Per raggiungere un compromesso sul bilancio a lungo termine e sul pacchetto di salvataggio causa pandemia da Coronavirus, i leader dei paesi dell’UE a 27 hanno dovuto dare il via libera a importanti tagli ai fondi destinati a settori chiave, tra cui ricerca e innovazione, salute e iniziative climatiche, con un mossa che la Presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha etichettato come “deplorevole”. Paralizzare i fondi, ha fatto sapere durante la conferenza stampa congiunta con il Presidente del Consiglio dell’Unione, Michel, renderebbe difficile per l’esecutivo dell’UE modernizzare il quadro finanziario pluriennale (QFP) per il 2021-2027, sebbene quasi la metà di tali fondi e del Next Generation EU siano destinati a politiche di modernizzazione.

    E se molti hanno definito l’accordo “storico”, tanti altri invece hanno fortemente criticato le conclusioni del vertice straordinario, sottolineando che non riflette le priorità della Commissione, e cioè combattere la pandemia e i cambiamenti climatici, la transizione digitale e la costruzione della resilienza.

    “Si tratta di un pacchetto ambizioso e completo che combina il classico bilancio con uno sforzo di recupero straordinario destinato ad affrontare gli effetti di una crisi senza precedenti nel miglior interesse dell’UE”, hanno affermato i leader dell’UE in una dichiarazione congiunta. Il prezzo per raggiungere l’accordo complessivo di 1,82 trilioni di euro dopo quasi cinque giorni di intensi negoziati è stato quello di paralizzare i fondi dedicati al passaggio a un’economia a emissioni zero, attraverso il Just Transition Fund (JTF), che ha visto il suo bilancio diminuire rispetto a quanto inizialmente proposto dalla Commissione, da 40 miliardi di euro a soli 10 miliardi, e il Recovery Fund non è stato così all’altezza dell’obiettivo di rendere l’Europa leader mondiale nella lotta ai cambiamenti climatici. Il denaro destinato allo sviluppo rurale è stato ridotto della metà, mentre lo strumento di solvibilità, il finanziamento della politica di vicinato, è stato pressoché annullato. Anche il quadro europeo per la ricerca e l’innovazione, in particolare Horizon Europe, ha subito gravi perdite, ottenendo solo 81 miliardi di euro anziché 100, mentre EU4Health, creato per far fronte alle conseguenze della pandemia, è stato completamente cancellato.

    Martedì, durante l’incontro con il Presidente del Parlamento europeo, David Sassoli, Von der Leyen ha sottolineato che ottenere un ‘cenno’ del legislatore europeo “è fondamentale per attuare riforme e investimenti” in Europa. I risultati del vertice hanno ricevuto aspre critiche da parte dei legislatori dell’UE e in particolare dei Verdi, con il copresidente del partito Ska Keller che, pur plaudendo all’accordo, lo considera comunque una cattiva notizia.
    Il Consiglio europeo della ricerca (CER), davanti ai tagli previsti a Horizon Europe, ha sottolineato il paradosso di contare sui ricercatori europei per combattere la pandemia e paralizzare, al tempo stesso, i loro fondi.

  • L’accordo sulla Brexit ad ottobre è ancora possibile, lo afferma il ministro degli Esteri tedesco

    “Raggiungere un accordo tra la Gran Bretagna e l’Unione Europea sui loro futuri legami entro ottobre è ambizioso ma realizzabile”. E’ quanto ha dichiarato il ministro degli esteri tedesco, Heiko Maas, dopo l’inizio dei negoziati Brexit tra l’UE ed il Regno Unito. In precedenza, appena cominciato il semestre di presidenza tedesca dell’UE, Maas considerava la partita sulla Brexit “molto difficile e molto molto lenta” anche perché non c’è ancora certezza sulla direzione che gli inglesi vogliono intraprendere, e cioè, se vogliono o meno un accordo. La cancelliere Angela Merkel aveva già fatto sapere che avrebbe spinto per una “buona soluzione” entro l’autunno, durante la presidenza della Germania, ma che, tuttavia, l’UE deve essere preparata nel caso in cui i colloqui sull’accordo commerciale non andassero a buon fine e non venisse raggiunta un’intesa.

    Il primo ministro britannico Boris Johnson ha ripetutamente sottolineato che il Regno Unito non chiederà una proroga del periodo di transizione, che dovrebbe concludersi il 31 dicembre come è stato anche sancito dalla legge britannica.

  • Accordo con gli Usa, i talebani aiutano Trump a ottenere un secondo mandato

    Donald Trump incassa un successo di politica estera prezioso per le elezioni presidenziali di novembre: la storica firma di un accordo di pace tra Stati Uniti e talebani getta le basi per riportare a casa le truppe Usa dall’Afghanistan e per mettere fine ad una guerra che dura da 19 anni, la più lunga della storia americana.

    Un’altra “promessa mantenuta”, può vantarsi il presidente, dopo i risultati finora incerti e in parte deludenti su altri fronti, dalla Corea del Nord all’Iran, dalla Siria al Medio Oriente. L’accordo è stato siglato in un hotel di Doha, sede dei negoziati da oltre un anno, dopo una settimana di “riduzione della violenza” concordata con Washington.

    Il segretario di Stato Mike Pompeo ha detto che l’intesa “crea le condizioni per  consentire agli afghani di determinare il loro futuro”, la comunità internazionale, dal segretario generale  dell’Onu Antonio Guterres alla Farnesina, dalla Nato alla Ue, plaude: “E’ un importante primo passo in avanti nel processo di pace, un’occasione da non perdere”, ha osservato l’Alto rappresentante Josep Borrell, auspicando “una soluzione politica che comprenda il rispetto dei diritti umani e dei diritti delle donne”.

    Mentre si svolgeva la cerimonia a Doha, il capo del Pentagono Mark Esper era a Kabul per una dichiarazione comune col governo afghano in cui gli Usa ribadiscono il loro impegno a continuare a finanziare e sostenere l’esercito dell’Afghanistan. Il segretario alla difesa Usa ha anche ammonito che se i talebani non onoreranno i loro impegni “gli Stati Uniti non esiteranno ad annullare l’accordo”.

    Quella firmata dall’inviato americano per l’Afghanistan, Zalmay Khalilzad, e dal mullah Abdul Ghani Baradar, vicecapo dei talebani ed esponente dell’originario governo degli insorti, in effetti non è più che una sorta di roadmap soggetta a verifica. Gli Usa si impegnano a ritirare in 135 giorni circa 5000 dei 12mila soldati presenti e gli altri in 14 mesi, anche se resterà un contingente per combattere i gruppi terroristici. I talebani però dovranno rispettare i patti: dovranno rompere con tutte le organizzazioni terroristiche, a partire da quella Al-Qaeda che dopo l’11 settembre costrinse gli Usa ad invadere il Paese, e avviare dal 10 marzo negoziati con il governo afghano, finora escluso da ogni trattativa. L’obiettivo è quello di arrivare ad una tregua durevole e ad una intesa per la condivisione del potere. Ma non c’è alcun fermo impegno dei talebani a difendere i diritti civili e quelli delle donne, brutalmente repressi quando erano al potere e imponevano la sharia. Gli Usa hanno promesso anche di liberare 6000 prigionieri talebani prima dell’inizio dei colloqui tra le parti e la rimozione delle sanzioni.

    Alla vigilia della cerimonia i talebani avevano cantato vittoria: “Da questo storico hotel sarà annunciata la sconfitta dell’arroganza della Casa Bianca di fronte al turbante bianco”, aveva twittato il capo dei social dei guerriglieri postando una foto dello Sheraton. Ma Pompeo li ha invitati a moderare i toni: “So che ci sarà la tentazione di dichiarare vittoria ma essa potrà essere raggiunta solo se gli afghani potranno vivere in pace e prosperità”.

  • Tre anni…

    Tre anni di banali analisi che hanno interessato l’intera politica italiana ed europea assieme al mondo accademico tutte imperniate sulle critiche alla politica del presidente degli Stati Uniti Trump.

    Accademici, economisti ed esperti di ogni materia hanno omesso con colpevole ignoranza o disonestà intellettuale come la politica dei dazi fosse stata inaugurata ben prima dall’Unione Europea con l’introduzione della tutela della produzione di alluminio. Nessuno di questi dotti esponenti dell’intelligentia occidentale ha saputo interpretare la posizione dell’amministrazione statunitense anche nella ricerca di una rinnovata posizione di forza che si potesse esprimere in una nuova capacità negoziale.

    Supportata dal conseguimento dell’indipendenza energetica e dalla leadership di primo produttore al mondo di petrolio, l’amministrazione statunitense si sottrae al ricatto energetico che per anni ne ha condizionato la politica. Da questa posizione di rinnovata forza ottiene finalmente di riportare il colosso cinese all’interno di un primo perimetro di regole. Questa vittoria commerciale rappresenta, in altri termini, la cocente sconfitta delle politiche economiche dell’Unione Europea.

    Mai come in questi ultimi tre anni viene confermata, ancora una volta, l’dea che per far nascere un sentimento europeista sia necessario dimostrare le competenze e tutelare gli interessi economici dei propri cittadini. Questi ultimi  sono definiti in prima istanza dalla tutela del lavoro e di conseguenza della produzione industriale. Sembra incredibile invece come tutto il mondo europeo ed italiano in particolare guardino ad una svolta “Green”  dell’economia quando il sistema delle PMI italiano ha già raggiunto da anni traguardi considerevoli (https://www.ilpattosociale.it/2018/12/10/sostenibilita-efficienza-energetica-e-sistemi-industriali/).

    Mentre l’amministrazione statunitense nell’ultimo accordo del Nafta ha determinato la rialloocazione produttiva dell’Industria automobilistica precedentemente delocalizzata in Messico  la nostra classe dirigente si diletta nell’applicazione della legge di Samuelson (https://www.ilpattosociale.it/2020/01/07/il-ritardo-culturale-accademico/).

    Il raggiungimento della piena occupazione, la borsa di Wall Street ai massimi livelli aiutati sicuramente dalla raggiunta indipendenza energetica rappresentano inequivocabilmente i risultati raggiunti dall’amministrazione  statunitense. Contemporaneamente i traguardi conseguiti dal Presidente Trump e dalla sua amministrazione evidenziano in modo inequivocabile, ancora una volta, come il nostro ritardo sia indice di una crisi culturale della quale quella  economica ne rappresenta un aspetto fondamentale.

  • Accordo ingannevole e pericoloso

    L’uomo troppo compiacente che accorda tutto

    per tutto avere, è ruinato dalla propria facilità.

    Confucio

    Durante gli ultimi mesi dell’anno appena passato si sono pubblicamente incontrati per tre volte il presidente della Serbia, il primo ministro della Macedonia del Nord ed il primo ministro dell’Albania. La prima volta il 10 ottobre in Serbia, a Novi Sad. La seconda il 10 novembre ad Ohrid e la terza volta il 21 dicembre a Tirana. La ragione, almeno quella resa nota ufficialmente, è stata la presentazione di una nuova iniziativa per costituire “L’area economica comune dei Balcani occidentali”. Lo hanno denominato l’accordo del “Mini-Schengen balcanico”. E non a caso hanno evocato sia l’Accordo (14 giugno 1985) che la Convezione (19 giugno 1990) di Schengen, essendo degli Atti con i quali si sanciva l’eliminazione dei controlli alle frontiere interne tra i Paesi firmatari e l’introduzione della libertà di circolazione per tutti i cittadini degli stessi Paesi. Ma, a differenza dell’Accordo e della Convenzione di Schengen, i cui contenuti sono stati resi noti nei minimi dettagli, del “Mini-Schengen balcanico”, promosso pubblicamente durante gli ultimi mesi dell’anno appena passato, si sa poco o nulla. Ragion per cui, conoscendo anche i promotori dell’iniziativa, almeno alcuni di loro, si dovrebbe essere molto attenti e guardinghi. Perché si sa, non tutto quello che luccica è oro, anzi!

    Per capire meglio i [presunti] veri obiettivi strategici della proposta bisogna riferirsi alla storia, che sempre ci insegna. Subito dopo la Prima Guerra Mondiale, la costituzione di nuovi Stati nei Balcani e la definizione delle frontiere tra di loro sono stati oggetto di lunghe e spesso molto dibattute discussioni internazionali. Comprese anche le intricate trattative che si svolgevano in quel periodo a Versailles. In quel periodo, dopo il dissolvimento dell’Impero Austro-Ungarico, cominciò il processo della costituzione del Regno della Jugoslavia. È stato un lungo processo, che cominciò nel 1918 e finì nel 1929. Il regno ebbe però una breve vita, fino al 1941. Ma la storia ci insegna che i serbi non hanno mai smesso di pensare, progettare e volere di nuovo una simile struttura statale. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, nel 1945, si costituì la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia. Comprendeva la Serbia, la Slovenia, la Croazia, la Macedonia, il Montenegro e la Bosnia ed Erzegovina. Quella repubblica si disintegrò poi, dal 1992. Ma subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, Tito, con il compiacimento dei vertici del partito comunista albanese, stava attuando l’inserimento anche dell’Albania come settima repubblica della federazione Jugoslava. Anche in quel periodo tra i due paesi ci sono stati degli accordi comuni, compresi quegli per eliminare le barriere doganali e per unificare la moneta. Tutto fallì nel 1948, quando l’Albania entrò pienamente sotto il controllo dell’Unione Sovietica.

    Adesso il presidente della Serbia sta promuovendo di nuovo un accordo: quello sopracitato del “Mini-Schengen balcanico”. Bisogna sottolineare di nuovo che, ad oggi, non è stato reso noto il vero contenuto dell’accordo. Si parla però di libera circolazione dei cittadini e delle merci, del capitale e altro. Da sottolineare anche che attualmente sono in vigore diversi accordi bilaterali tra i paesi balcanici, tranne in certi casi con la Serbia, come quello che permette il libero passaggio di frontiera, con soltanto la carta d’identità. Volutamente si rendono noti soltanto questi diritti, simili a quelli previsti anche dall’Accordo e dalla Convenzione di Schengen, adottati in seguito dall’Unione europea. Secondo molti noti analisti e opinionisti si tratta soltanto di una copertura propagandistica. Perché in realtà tutto fa pensare ad altro. Ed il tempo, noto per essere gentiluomo, prima o poi lo dimostrerà.

    Il presidente serbo, che è stato ministro dell’Informazione di Slobodan Milošević, non è la prima volta che presenta questa iniziativa. Lo ha fatto da primo ministro a Parigi nel 2016, presentando ufficialmente il suo progetto, che prevedeva la costituzione di “un’area economica comune dei Balcani occidentali”. In quell’occasione l’attuale presidente serbo legava quel progetto con la possibilità di distaccare i paesi balcanici dalla sfera d’influenza dell’Unione europea. Lui dichiarava allora che “L’Unione europea non è l’unico fattore coesivo che possa unire i Balcani. Noi (gli Stati dei Balcani occidentali; n.d.a.) lo dobbiamo fare da soli. Abbiamo bisogno di prenderci cura di noi stessi. Ecco perché ho fatto appello ai dirigenti dei paesi della regione di focalizzarsi su noi stessi”! Per rendere meglio l’idea bisogna sottolineare che il concetto dei “Balcani occidentali” è stato proposto per la prima volta agli inizi degli anni 2000, da alcuni alti rappresentanti della diplomazia francese in sede dell’Unione europea. Secondo quel concetto, l’area comprende geograficamente la Serbia, la Macedonia del Nord, il Montenegro, la Bosnia ed Erzegovina, il Kosovo e l’Albania. Quando è stato presentato comprendeva anche la Croazia che, dal 2013, ha pienamente aderito nell’Unione europea.

    Il vero significato del progetto della Serbia, nonché il suo obiettivo strategico, presentato come “l’Accordo di mini-Schengen“, si capisce meglio se si fa riferimento ad un’altra dichiarazione pubblica fatta dall’attuale presidente della Serbia. Questa volta durante un’intervista rilasciata ad un noto media statunitense, il 6 aprile 2018, proprio quattro giorni dopo essere diventato, il 2 aprile 2018, da primo ministro, il presidente della Serbia. Il giornalista gli domandava se con il suo piano per un mercato comune balcanico egli stesse cercando di ricostituire la Jugoslavia. Lui gli rispondeva, senza batter ciglio, che [infatti] “È la vecchia Jugoslavia più l’Albania”! Ed era più di un anno prima della promozione pubblica del sopracitato accordo! Da parte delle istituzioni albanesi nessuna reazione ufficiale. Né politica e neanche diplomatica. Come mai?!

    Tornando ai sopracitati tre vertici per promuovere l’iniziativa serba del “Mini-Schengen balcanico”, bisogna sottolineare che l’iniziativa ha soltanto il supporto della Serbia, dell’Albania e della Macedonia del Nord. Gli altri paesi lo hanno contestato come programma. Soprattutto in Kosovo e per ben noti motivi. Per quanto riguarda l’Albania, risulterebbe che, ad oggi, nessuna consultazione istituzionale sull’argomento sia stata fatta. Tutto è stato gestito personalmente dal primo ministro, senza la ben che minima trasparenza. Non solo, ma lui ha avuto due palesemente opposti atteggiamenti e comportamenti, riguardo alla non partecipazione dei rappresentanti del Kosovo. Durante il vertice di Novi Sad, il primo ministro albanese dichiarava che non avrebbe partecipato ai seguenti vertici se non fossero presenti anche i rappresentanti del Kosovo. Mentre appena due mesi dopo, durante il vertice di Tirana, ha tuonato contro la non presenza di quei rappresentanti, offendendoli e ingiuriandoli con un volgare linguaggio. Chissà perché?!

    Chi scrive queste righe, se lo spazio glielo avesse permesso, avrebbe avuto molti altri argomenti da trattare e commentare su questo Accordo, che lo considera ingannevole e molto pericoloso. Soprattutto se si tiene presente quanto sta accadendo negli ultimi tempi nel mondo. Egli crede, tra l’altro, che il progetto del ritorno alla ex Jugoslavia, oltre alla Serbia, possa interessare molto alla Russia, ma anche ad altri paesi orientali. Chi scrive queste righe considera grave l’idea di abbandonare i processi europei in corso per i paesi balcanici, nonostante quei processi siano stati volutamente bloccati da certi corrotti e irresponsabili politici balcanici. Quelli che, comunque, saranno ruinati dalla propria facilità di accordare tutto, come pensava Confucio.

     

  • Dal 21 novembre in vigore il trattato di libero scambio Ue-Singapore

    Entrerà in vigore il 21 novembre il trattato di libero scambio fra l’Ue e Singapore. Gli Stati dell’Unione hanno adottato l’8 novembre la decisione sull’accordo che permetterà di rafforzare le relazioni fra l’Europa e la repubblica asiatica, che è il più grande partner commerciale dell’Unione nella regione. Gli scambi di beni fra le due parti valgono in totale oltre 53 miliardi di euro, a cui se ne aggiungono altri 51 miliardi nel commercio di servizi.

    L’accordo prevede che Singapore elimini tutti i dazi rimanenti su alcuni prodotti europei, come le bevande alcoliche, e mantenga l’attuale accesso ‘duty-free’ ai prodotti europei per cui già vige questo regime. Dall’altro lato, l’Ue toglierà i dazi a oltre l’80% delle merci importate da Singapore e rimuoverà le tariffe doganali restanti nei prossimi anni. Barriere tecniche verranno rimosse anche in diversi settori come quello elettronico, automobilistico, farmaceutico, delle energie rinnovabili e dei prodotti di origine animale o vegetale. Ue e Singapore hanno concluso anche un accordo per la protezione degli investimenti, che però entrerà in vigore solo una volta ratificato da tutti gli Stati membri.

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