BCE

  • Tassi negativi sui depositi delle banche alla Bce: nel 2018 hanno reso 7,5 miliardi a Francoforte

    L’11 giugno 2014, la Bce ha introdotto un tasso di interesse negativo sui depositi presso la Banca Centrale e questo, secondo un’analisi condotta da Deposit Solutions, ha fatto sì che nel solo 2018, le banche della eurozona abbiano trasferito alla BCE circa 7,5 miliardi di euro sulle giacenze liquide, ossia 21 milioni di euro al giorno, con un impatto medio sugli utili del -4.3% nel solo 2018. La maggior parte di questi pagamenti è stata effettuata da banche tedesche, francesi e olandesi che, nel periodo 2016-2018, hanno pagato rispettivamente 5,7, 4,1 e 2,5 miliardi di euro, con un impatto sugli utili compreso tra il -9.1% della Germania e il -4% della Francia. Nello stesso intervallo di tempo, le banche Italiane hanno rappresentato il 5.2% dei trasferimenti, per un controvalore di circa 900 milioni di euro di interessi negativi. Con un impatto sul profitto del -2,4%, le banche italiane hanno versato meno tassi di interesse negativi di quelle francesi e tedesche, ma più delle controparti spagnole, che negli ultimi tre anni hanno pagato 764 milioni.
    I pagamenti dei tassi di interesse negativi continuano a crescere anno dopo anno, ma non in Italia. I pagamenti annuali di interessi delle banche tedesche sono quasi raddoppiati negli ultimi tre anni e sono aumentati di anno in anno anche in Francia, Paesi Bassi e Lussemburgo. L’aumento è stato particolarmente oneroso per le banche spagnole che nel 2016 hanno versato circa 125 milioni di euro di tassi di interesse negativi, e nel 2018 più di tre volte tanto, attestandosi sui circa 400 milioni di euro. In controtendenza, l’Italia è stata l’unico paese dell’Eurozona ad aver registrato un calo dei pagamenti di anno in anno.

  • Italia e Spagna maggiori beneficiarie del sostegno della Bce a banche, imprese e famiglie

    Insieme alla Spagna, l’Italia è la maggior beneficiaria del programma Tltro (Targeted longer-term refinancing operations) con cui la Bce guidata da Mario Draghi in questi anni ha aumentato la disponibilità di liquidità per le banche (tramite prestiti alle banche di durata quadriennale a tassi favorevoli, condizionati però alla successiva erogazione di finanziamenti a famiglie e imprese da parte delle banche stesse).

    Al momento la Banca centrale europea ha portato a termine due programmi Tltro, il primo lanciato il 5 giugno 2014 e il secondo avviato il 16 marzo 2016: nella sostanza con tali prestiti la Bce ha offerto liquidità alle banche applicando un tasso corrispondente a -0,4%.

    Dalle elaborazioni di Jefferies International su dati Bce riportate dal Sole 24 Ore risulta che le banche italiane sono quelle che, in rapporto agli asset, hanno fatto maggior ricorso al sostegno di Francoforte. Sommando i prestiti settimanali al tasso di rifinanziamento principale (Mro, Main refinancing operations, che è a pari a 0) a quelli Tltro (al tasso negativo di -0,4%) le banche italiane hanno ottenuto 243 miliardi di euro, che corrispondono al 6,5% del totale degli asset (3.744 miliardi). Dietro l’Italia, la Spagna (6,4%), seguita dal Portogallo (4,8%),  Grecia (4,1%), mentre in fondo troviamo  Francia (1,7%) e Germania (1,1%).

  • I numeri e i parametri

    I numeri risultano un’espressione dei parametri che vengono scelti per le diverse rilevazioni statistiche. Da sempre inascoltato mi ostinavo ad affermare come i risultati relativi all’aumento dell’occupazione attribuita all’attività  degli ultimi governi, ed in particolare negli ultimi due anni, risultassero falsati dai parametri di cui questi numeri erano espressione.

    A tal proposito si ricorda come lo storytelling governativo, confermato dai principali giornali italiani, anche economici, declini come un successo dell’attività di governo il raggiungimento di circa un milione di posti di lavoro, un numero assolutamente non in linea con la realtà in quanto andrebbe ricordato che, specialmente nel primo anno di ingresso del Jobs Act, i risultati puramente numerici andrebbero depurati delle riconversioni di contratti già in essere.

    Dando anche comunque per reale il milione di posti di lavoro, a nulla serviva ricordare come per l’Istat  risultasse un lavoratore occupato chiunque venisse chiamato anche solo per un’ora la settimana per una volta alla settimana. In questo modo veniva quindi negato qualsiasi tipo di associazione numerica ad un parametro qualitativo. Come a nulla serviva ricordare agli esponenti del governo e ai  parlamentari della maggioranza come il 33% di questi nuovi posti di lavoro e di questi contratti fosse relativo ad occupazioni della durata di tre giorni.

    Contemporaneamente il vero dato importante pone l’industria al centro della ripresa economica in quanto da sola riesce ad esprimere la propria importanza attraverso una  percentuale del 23% di contratti a tempo indeterminato, a fronte di un dato generale del 9% che di fatto dimostra come il settore dei servizi abbia un valore vicino allo zero per quanto riguarda i contratti a tempo indeterminato.

    Fino a ieri si leggevano toni trionfalistici da parte di giornali che negavano l’evidenza, come i politici e gli economisti legati al governo, veri e propri professionisti nella rappresentazione della verità parziale.

    Finalmente ora il presidente della BCE Mario Draghi si è dichiarato preoccupato perché pur avendo raggiunto il numero di occupati numericamente a livello pre crisi non ha potuto non rilevare come il livello dei contratti, e di conseguenza il livello retributivo, risultino molto inferiori rispetto a quelli del livello pre crisi 2008. Del resto risultava sufficiente analizzare l’andamento dei consumi per comprendere come la dinamica economica fosse assolutamente disgiunta e addirittura opposta rispetto all’andamento numerico dei nuovi  contratti.

    Ovviamente i sostenitori dello storytelling governativo degli ultimi anni “sorvoleranno”  la dichiarazione del presidente della BCE o peggio presenteranno come proprie queste riflessioni, dimostrando, ancora una volta, come anche nella semplice lettura numerica delle analisi statistiche l’onestà intellettuale non rappresenti la conditio sine qua non anche se da applicarsi alla semplice lettura dei semplici numeri, in particolar modo se legati a delle successive analisi qualitative.

  • L’eredità

    In un periodo di transizione come quello attuale nel quale l’intera compagine politica per un proprio tornaconto elettorale spara a zero previsioni e promesse senza alcuna copertura finanziaria, e spesso neppure normativa, guardare ed analizzare i fattori più importanti nel medio e nel lungo periodo, anche con uno sguardo rivolto al passato, può fornire degli elementi utili per analizzare il presente e soprattutto il medio/lungo termine futuro.
    L’eredità che ci lascia questo governo, che a parole afferma, come da sempre i governi precedenti, di avere favorito l’attività delle PMI lascia veramente esterrefatti se non basiti. Risultano infatti 871 gli adempimenti burocratici per l’anno in corso ai quali le PMI risultano costrette ad adempiere. Mentre sono 215 le imposte che sempre le imprese si vedono costrette a pagare, frutto di una creatività applicata al mondo fiscale unica nel suo genere in tutto il mondo.

    Un dato tuttavia lascia veramente perplessi soprattutto in prospettiva futura. Dal 1996 al 2016, quindi in circa vent’anni, la pressione fiscale complessiva risulta aumentata del 80,3% mentre l’inflazione manifesta un aumento del 43%. Due dati importanti e indicativi i quali quindi dipingono, al di là delle dichiarazioni degli ultimi governi, la situazione passata e la sua evoluzione fino ai giorni nostri. Di qui l’importanza risulta fondamentale soprattutto in prospettiva futura. Emerge chiaro ed evidente infatti come a fronte di un aumento della pressione fiscale dell’80% sostanzialmente i servizi resi dalla pubblica amministrazione ai cittadini come alle imprese ed alle aziende nel loro complesso risultino scaduti a livelli assolutamente insopportabili e deprimenti per lo sviluppo economico e la stessa qualità della vita. In questo senso basti ricordare che nell’ultima classifica del World Economic Forum l’Italia non sia compresa per qualità di vita neppure tra le prime venti nazioni del mondo.
    In più basta ricordare come la spesa per il welfare italiano risulti di venti punti superiore a quella scandinava che rappresenta il modello più efficiente e sicuramente più costoso all’interno dell’Unione Europea. Logica conseguenza è che se sono aumentate le spese per un sistema complesso dei servizi contrariamente questi diventano sempre più scadenti. La problematica risulta perciò relativa all’erogazione di questi servizi.
    In altre parole emerge assolutamente evidente come non sia più sostenibile né politicamente e tanto meno economicamente una organizzazione della pubblica amministrazione che tra sistema centrale regionale, provinciale e comunale ha preso le sembianze ormai di una piovra assolutamente impenetrabile.

    Al tempo stesso è evidente come il diverso andamento dell’inflazione all’aumento della pressione fiscale rispetto all’inflazione di fatto dimostra che oltre ad essere folle il piano economico degli attuali ministri Padoan e Calenda, che si dichiarano favorevoli all’aumento dell’IVA in modo da far aumentare l’inflazione, questo fosse anche sostanzialmente errato nella sua applicazione reale. Negli ultimi vent’anni, infatti, l’inflazione è aumenta di poco più del 50% (+43% rispetto al +80%) rispetto all’aumento della pressione fiscale dimostrando l’effetto (ormai disconosciuto a questi “economisti”) deflattivo per i consumi nazionali e quindi in un secondo momento sul calcolo dell’inflazione stessa. Perché se è vero che una maggiore inflazione determina sotto il profilo semplicemente nominale un miglior rapporto tra debito e PIL, un effetto tanto ricercato dall’attuale governo in quanto relativo al breve termine, al tempo stesso emerge come l’inflazione abbia un effetto deprimente relativamente i consumi. In particolar modo se tale inflazione risulta un’infezione in fiscale, cioè legata ad una maggiore pressione fiscale, non si manifesta con un miglioramento dei servizi e di conseguenza deprime i consumi in quanto, lo si ricorda, l’inflazione stessa determina una diminuzione del potere d’acquisto da parte dei consumatori.

    Tornando quindi al presente, ma ragionando in prospettiva di medio e lungo termine, emerge paradossale come ancora oggi nessuno si esponga su come coprire finanziariamente le clausole di salvaguardia che ci attendono a fine anno. Al tempo stesso non si percepisce nessun riferimento al molto probabile aumento dei tassi di interessi nell’arco di 12 mesi unito ad una diminuzione della fiducia degli investitori finanziari internazionali che farà aumentare lo spread. Ancora una volta l’Italia e soprattutto la classe politica si sta dimostrando assolutamente inadeguata alle sfide che la stanno aspettando senza per di più il benevolo patrocinio del presidente della BCE Mario Draghi.
    Comprendere i contenuti presenti nell’eredità degli ultimi vent’anni dovrebbe rappresentare la base per avviare una politica di rinnovamento economico e sviluppo per il futuro.

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