Birmania

  • L’ex Birmania diventa il principale produttore di oppio al mondo

    Il Myanmar (l’ex Birmania) è diventato la prima fonte di oppio al mondo per effetto dell’instabilità interna e della drastica riduzione delle coltivazioni in Afghanistan. E’ quanto afferma un rapporto pubblicato dalle Nazioni Unite. Il rapporto, stilato dall’Ufficio sulle droghe e il crimine delle Nazioni Unite (Unodc), sottolinea che la coltivazione di oppio in Afghanistan è crollata del 95% nell’arco di un solo anno a seguito del divieto imposto dal governo talebano.

    Di contro, l’instabilità politica, sociale ed economica che grava sul Myanmar dopo il golpe militare del 2021 ha spinto molti agricoltori di quel Paese a coltivare oppio: nell’ultimo anno il prezzo dei fiori ha raggiunto i 355 dollari al chilogrammo, e la superficie coltivata nel Myanmar è aumentata del 18% a circa 47.000 ettari su base annua. La coltivazione dell’oppio si è diffusa soprattutto nello Stato birmano settentrionale di Shan, e avrebbe consentito ai gruppi armati locali di finanziare la pesante offensiva sferrata contro le forze armate a partire dallo scorso ottobre.

  • In Birmania è un bagno di sangue, dilaga la rabbia contro la Cina

    Un massacro di innocenti, il più grave dall’inizio delle proteste contro il golpe: almeno 59 morti domenica 14 marzo, con media locali che riferiscono di oltre un centinaio, e altri 5 ragazzi uccisi nelle città di Myingyan e Aunglai il giorno dopo. La Birmania è ormai in fiamme, con decine di migliaia di giovani che continuano a scendere nelle strade nonostante le forze di sicurezza sparino per uccidere da settimane, scioperi generali, la legge marziale nell’ex capitale e un nuovo stop al traffico internet per impedire al dissenso di organizzarsi.

    Domenica folle di manifestanti hanno attaccato 32 fabbriche legate alla Cina causando anche alcuni feriti, polizia e militari hanno cercato di disperdere la protesta sparando ad altezza d’uomo. Solo qui sono morte almeno 59 persone secondo fonti ospedaliere, e il regime ha dichiarato la legge marziale nei distretti dell’ex capitale teatro delle violenze di ieri. Media locali parlano però di un numero di morti doppio rispetto a quanto emerso.

    In tutto, le vittime dal colpo di stato del primo febbraio sono ormai almeno 145 in 17 città, con migliaia di feriti e oltre 2mila arrestati; e si teme un bilancio molto peggiore, dato che la copertura mediatica è molto minore al di fuori di Yangon e Mandalay. Con un nuovo blocco del traffico internet sui telefonini applicato oggi, il rischio è che nuove stragi siano ancora meno documentate sui social media dagli stessi manifestanti.

    Il blocco alle connessioni è anche la ragione per cui la terza udienza del processo contro Suu Kyi, prevista per il 15 marzo a porte chiuse ma in teleconferenza, è stata rinviata al 24 marzo. Lo ha riferito lo stesso avvocato della Signora, contro la quale sono stati emessi quattro capi di imputazione, dal possesso illegale di walkie-talkie all’accusa di aver intascato pagamenti illegali. Difficile capire se l’impossibilità di andare online è la vera ragione del rinvio o se il regime intende solo prendere tempo. Impossibile anche aspettarsi un’applicazione imparziale della giustizia – Suu Kyi è detenuta in isolamento e senza accesso al suo legale – in un processo chiaramente politico contro la leader che ha trionfato nelle uniche due elezioni libere nel fragile decennio di transizione verso la democrazia, ora stroncato dal golpe.

    A un mese e mezzo dal golpe, è ormai difficile capire quale possa essere la via d’uscita per una giunta militare che ha enormemente sottostimato il rigetto popolare della sua presa di potere e che non riesce a fermare le manifestazioni neanche sparando sulla folla. Le proteste sono il grido di disperazione di una generazione di giovani che stava crescendo assaporando per la prima volta le libertà democratiche, e che si ritrova ora in una brutale dittatura. Gli eventi di ieri mostrano anche come si sia diffusa la rabbia contro la Cina, che fin dall’inizio ha evitato di criticare i militari golpisti, proteggendoli anche all’Onu. La stessa Pechino ha esortato oggi alla calma, dicendosi “molto preoccupata”, ma con un tono che sembra prediligere i suoi interessi economici invece che i morti della repressione armata, e che è stato schernito sui social media dai birmani.

  • Nuova accusa contro Suu Kyi in Myanmar e la Cina si irrita

    L’ex capo del governo birmano, Aung San Suu Kyi, rischia di rimanere in carcere a tempo indefinito senza processo, dopo che è stata accusata di avere “violato la legge sulla gestione dei disastri naturali”. Una accusa che si aggiunge a quella di avere importato illegalmente dei walkie-talkie. La legge è stata varata per perseguire le persone che hanno infranto le restrizioni sul coronavirus. La pena massima per la violazione delle leggi sul Covid è di tre anni di reclusione. Ma una modifica del codice penale introdotta dalla giunta la scorsa settimana consente la detenzione senza il permesso del tribunale. I militari che hanno spodestato con un golpe e tengono nascosta da 15 giorni ai domiciliari l’ex leader settantacinquenne, hanno assicurato che il premio Nobel per la pace “è in buona salute”.

    Nel Paese intanto continuano la stretta repressiva e gli arresti dei dissidenti nonostante le condanne della comunità internazionale e le imponenti manifestazioni di piazza che chiedono la liberazione della leader. Internet è stato bloccato quasi del tutto per la seconda notte consecutiva, ma sui militari è arrivata una doccia fredda da Pechino: il golpe “non è affatto quello che la Cina vorrebbe vedere”, ha ammonito l’ambasciatore cinese nella ex Birmania, Chen Hai. “Avevamo notato da tempo la faida interna per le elezioni, ma non eravamo stati informati in anticipo di un cambiamento politico”, ha spiegato in una dichiarazione pubblicata sul sito Internet dell’ambasciata cinese.

    Il monito della Cina arriva mentre resta forte la pressione internazionale sulla giunta militare. L’inviata dell’Onu per il Myanmar, Christine Schraner Burgener, ha avvertito di “possibili gravi conseguenze” qualora venga usata la “mano pesante” contro i dimostranti. Burgener ha avuto un colloquio telefonico con Soe Win, vice comandante dell’esercito e ha definito il blocco di internet una violazione dei “principi democratici fondamentali”. Le restrizioni all’accesso alla rete, ha aggiunto l’inviata Onu, stanno danneggiando anche “settori chiave, banche comprese”.

    I carri armati continuano a percorrere le strade del Paese. Circa 420 persone – politici, medici, attivisti, studenti, scioperanti – sono state arrestate nelle ultime due settimane. Rimane segreta la località dove sono detenuti Suu Kyi, ex capo de facto del governo civile e il presidente della Repubblica, Win Myint, incarcerati nelle prime ore del golpe. La connessione internet è stata quasi completamente interrotta alle 19,30 italiane e riattivata 8 ore dopo.

    La repressione non ferma però la mobilitazione per la democrazia. Centinaia di manifestanti hanno marciato anche di recente a Yangon, la capitale economica del Myanmar. “Ridateci i nostri leader!” e “Dateci speranza!” gli slogan sugli striscioni. I blindati per strada hanno però scoraggiato molti cittadini e le manifestazioni non sono più affollate come nei giorni precedenti.

  • Birmania in piazza, i generali minacciano la repressione

    Minacce di una repressione armata, idranti sparati sulla folla nella capitale, la legge marziale nella seconda città più popolosa del Paese: in Birmania il regime golpista fa capire di essere pronto a usare la forza, ma nel Paese le manifestazioni di protesta contro il colpo di stato di inizio mese diventano ogni giorno più grandi. Da una parte un esercito abituato a comandare, dall’altra una risposta popolare che i generali probabilmente non avevano messo in conto: due forze contrapposte che fanno aumentare il rischio di violenze con il passare delle ore.

    In centinaia di migliaia sono scesi nelle strade di Yangon, l’ex capitale, in scia ad altre imponenti manifestazioni degli ultimi giorni. Ma altre proteste si sono viste a Mandalay, nonostante la proclamazione della legge marziale con coprifuoco notturno, e persino nella vasta capitale Naypyidaw, costruita negli ultimi anni della dittatura con il chiaro intento di rendere difficili assembramenti anti-governativi. Qui – dove vivono molti dipendenti statali – in mattinata la polizia ha usato gli idranti nel tentativo di disperdere la folla, mentre a Yangon e in altre città del Paese, le forze dell’ordine si sono limitate a impedire l’accesso ai palazzi del potere.

    Il capo delle forze armate, generale Min Aung Hlaing, è apparso in televisione per giustificare il golpe, di nuovo con la motivazione dei “brogli elettorali” nelle elezioni dello scorso novembre in cui ha trionfato la “Lega nazionale per la democrazia” di Aung San Suu Kyi, e annunciando nuove inchieste sulle presunte irregolarità. Ma sono spiegazioni che non convinceranno una folla fatta in gran parte di giovani, che scendono in piazza in un’atmosfera di protesta gioiosa e con scritte, chiaramente ispirate a “meme” imparati in fretta nei pochi anni su Internet, che deridono il regime. Con l’accesso a Internet ormai ristabilito, per quanto le connessioni siano molto rallentate (forse anche per i picchi di utenti collegati per informarsi e condividere immagini delle proteste), nessuno sembra avere ormai paura di esprimere il proprio dissenso.

    Diversi negozi hanno inoltre iniziato a togliere dagli scaffali prodotti dei conglomerati dell’esercito, come la popolare Myanmar Beer.

    Il rischio è però che una popolazione giovane, senza memoria della repressione della “rivoluzione di zafferano” del 2007 e ancor meno del massacro che schiacciò le proteste pro-democrazia nel 1988, sottovaluti la determinazione di un esercito che si sente il garante indispensabile della stabilità nazionale e ha enormi interessi in ballo. “Provvedimenti devono essere presi contro le infrazioni che mettono in pericolo la stabilità dello Stato e la sicurezza pubblica”, ha ammonito la rete statale. Da parte sua, la giunta è probabilmente conscia che la Birmania del 2021 è distante anni luce da quella del 2007: un’eventuale repressione armata finirebbe su tutti i social media, con conseguenze disastrose sull’immagine dei militari in patria e nelle relazioni internazionali. Oggi è arrivato anche l’appello di papa Francesco, che ha espresso la sua solidarietà al popolo birmano e esortato la giunta a rimettere in libertà gli almeno 160 politici e altri dissidenti arrestati.

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