Carcere

  • Il nuovo integralismo fiscale

    La detenzione preventiva rappresenta una forma di esercizio della Giustizia che dovrebbe risultare eccezionale all’interno del complesso sistema giudiziario il quale, viceversa, dovrebbe privilegiare tempi ragionevolmente più brevi ma soprattutto sicuri in relazione all’esercizio del potere giudiziario. Non può esistere, infatti, un sistema giudiziario nel quale buona parte dei processi finisca con la prescrizione del reato come è altrettanto insopportabile che buona parte dell’esercizio dei propri diritti in ambito civile debba attendere anche dieci anni ed oltre per venire riconosciuta.

    La preventiva detenzione, se divenuta usuale all’interno dell’amministrazione giudiziaria, rappresenta, in altre parole, un’aberrazione all’interno del sistema stesso il quale sconta per altro scarsi investimenti pubblici ed una classe di magistrati assolutamente libera da ogni controllo o giudizio se non al solo CSM. E quest’ultimo, venendo meno al principio della terzietà di giudizio valido per il sistema giudiziario, adotta proprio il principio dell’interna corporis, del quale ‘integralismo politico-ideologico si è vestito il governo in carica partendo dalla assoluta incapacità (in questo esattamente in linea con i precedenti) di avviare una profonda rielaborazione della spesa pubblica e degli effetti della stessa al fine di giustificare, una volta di più, la propria incapacità di una sana gestione della spesa pubblica (come ampiamente accertato dalla CCGIA di Mestre (http://www.cgiamestre.com/wp-content/uploads/2019/09/INEFFICENZE-PA-ED-EVASIONE-14.09.2019.pdf). Viceversa si continua ad utilizzare  la problematica relativa all’evasione fiscale come arma di distrazione di massa.

    In altre parole si cerca di attribuire all’evasione fiscale, i cui termini non vengono mai chiaramente indicati, la causa principale del disavanzo e di conseguenza del debito pubblico (https://www.ilpattosociale.it/2019/01/10/il-falso-alibi-dellevasione-fiscale/). Una falsità di una gravità inaudita che vede peraltro il silenzio colpevole del mondo accademico e dei media relativamente al calcolo dell’evasione stessa che non parte neppure dalla definizione tra imponibile e tasse evase.

    Va poi tenuto in debita considerazione il fatto che il ministero “certifica” come nelle controversie fiscali solo un 28% di esiti sia a favore del contribuente (un valore assolutamente fuorviante in quanto tiene conto della somme dei  tre gradi e non del solo esito finale ). In questo contesto la possibilità inserita nell’ennesimo decreto fiscale, che conferisce all’autorità giudiziaria di confiscare preventivamente i beni dell’imputato, rappresenta una forma moderna di neointegralismo religioso fiscale. Con l’aggravante che mentre l’ingiusta detenzione può venire liquidata e risarcita (solo in parte), il danno subito con la confisca dei beni non solo priva nell’immediato del patrimonio ma soprattutto può avere effetti difficilmente quantificabili in caso di risarcimento così come per  una conseguente chiusura dell’attività economica successiva alla confisca.

    Nel nostro ordinamento giudiziario una persona risulta innocente fino al terzo grado di giudizio e questo dovrebbe valere maggiormente per i reati fiscali e amministrativi che, pur colpendo il bene pubblico attraverso la sottrazione di risorse, sono reati patrimoniali.

    All’interno del mondo economico ed amministrativo la confisca dei beni può determinare la chiusura  di qualsiasi attività economica, imprenditoriale e professionale alla quale in caso di riconoscimento dell’innocenza non si potrebbe porre rimedio con un ipotetico risarcimento.  Uno scenario sempre più reale, anche in considerazione della spinta politica ad un maggiore utilizzo della moneta elettronica che fa pensare molto all’accanimento e all’integralismo con il quale il potere politico in carica spinge verso questo tipo di pagamenti.

    La lotta all’evasione fiscale sta ormai assumendo i connotati di una vera e propria lotta religiosa che contrappone il potere politico, sempre più invasivo, alla maggioranza dei contribuenti onesti che vedono ogni anno aumentare oneri e costi come gli adempimenti burocratici.

    Solo l’integralismo religioso applicato in ambito fiscale non si preoccupa degli effetti delle proprie azioni. E di fatto non esiste alcuna differenza nei suoi terribili effetti tra la supremazia di uno Stato in virtù di un integralismo religioso o in nome di un socialismo reale ed etico.

  • In attesa di Giustizia: chiaroscuro da un carcere

    Ci risiamo, ormai da mesi il sistema penitenziario è nuovamente in affanno per il sovraffollamento ma nessuno ha finora nemmeno accennato ad affrontare il problema, anzi. Questa settimana la rubrica offre ai lettori la visita guidata in un piccolo istituto penitenziario, il San Cataldo di Caltanissetta, per offrire uno spaccato delle condizioni di vita e di come sono generosamente affrontate dal personale le quotidiane difficoltà.

    L’edificio risale al 1920, destinato ad orfanotrofio e solo in seguito adibito a carcere e, ovviamente, carenze strutturali dovute alla età della costruzione ed a inadeguati interventi successivi.

    Gli agenti in servizio sono 57 (61 previsti dalla pianta organica) e l’assistenza sanitaria è fornita solo dalle 8.00 alle 20.00. Di notte le emergenze vengono gestite dalla guardia medica, il che esprime un dato allarmante relativamente ai tempi di attesa in caso di bisogno poiché la guardia medica deve assicurare il servizio a circa 20.000 altri utenti.

    All’esterno del carcere, sotto una palma secolare, si trova una scultura a rilievo che ritrae i Giudici Falcone e Borsellino realizzata da un detenuto, all’interno sono ospitate – ad oggi – circa 120 persone tra le quali alcune hanno problemi di dipendenze da droga, altri sono affetti da patologie che richiedono terapie farmacologiche controllate e un discreto numero manifesta disagi psichici ma il contratto dello psichiatra è scaduto e la figura non è stata ancora ripristinata.

    Sempre all’interno si trovano locali vivibili, realizzati con l’apporto lavorativo dei detenuti che hanno curato l’impianto elettrico e la muratura: vi è anche un moderno polo didattico, con aule spaziose dotate di apparecchiature moderne “touch screen” che entrerà in funzione tra poco, da settembre, e vi si accede tramite tornelli videosorvegliati dotati di riconoscimento biometrico degli iscritti ai corsi.

    L’istituto è costituito da due sezioni: una ospita il reparto isolamento e l’infermeria, l’altra la rimanente parte della popolazione detenuta. Soltanto nel settore ‘isolati’ non c’è la doccia in cella.

    I muri dei locali, peraltro, sono cadenti e l’infermeria necessita di una massiccia opera di recupero per il quale sembra sia già stato approvato un finanziamento.

    Le celle, non una esclusa, sono anch’esse malconce e opprimenti: le finestre, nella parte bassa, per esigenze di sicurezza, sono coperte da pesanti pannelli di ferro che con il caldo si arroventano rendendo i locali incandescenti.

    Nelle celle, tuttavia, gli sgabelli hanno gli schienali: sembra normale ma non lo è in questo mondo parallelo e sconosciuto e sono segnali di attenzione: in carcere non esiste il superfluo e, troppo spesso, neppure il necessario a garantire condizioni di vita accettabili. Ci sono televisori di dimensioni adeguate e anche piccoli frigoriferi che consentono ai detenuti di godere di acqua fresca e di conservare il cibo.

    In questo piccolo carcere che sopravvive con dignità è in funzione un servizio di lavanderia per chi è distante dalla propria famiglia e non può effettuare frequentemente il cambio della biancheria.

    Il personale è cortese e attento alle necessità dei ristretti. L’area educativa funziona e garantisce tempi rapidi nella elaborazione dei programmi di recupero ma ciò che manca sono gli assistenti sociali, oberati di altre priorità e che con il carcere si dividono come possono.

    Il lavoro è una nota dolente: non ce n’è per tutti e non con continuità e non può creare professionalità per un futuro nella vita libera ma soltanto riempire un tempo inerte.

    Le condizioni della struttura impongono, poi, convivenza forzata tra persone diverse per età, provenienza, abitudini. Alcune celle dell’istituto ospitano fino a diciotto detenuti e c’è un solo servizio igienico nel quale due water sono posti uno accanto all’altro e separati a mezza altezza da un muretto di cemento.

    Le pareti di quasi tutti i locali sono cadenti, lo spazio destinato alle attività ricreative all’esterno è inadeguato.

    L’area colloqui è gradevole ma poco areata, tuttavia è stato reso attivo il sistema di collegamento via Skype per sostituire l’incontro con i familiari quando impossibilitati a raggiungere l’istituto.

    L’aria della c.d. “socialità” è ampia ma molto calda e logora. I servizi igienici sono pressoché inaccessibili. L’affaccio è su un cortile invaso da rifiuti ed escrementi di piccioni.

    Il carcere è riuscito a ricavare dei locali per la pittura e corsi di bricolage e c’è – incredibile a dirsi – un bel teatro, luminoso e capiente che impegna i detenuti in rappresentazioni alle quali anche pubblico esterno ha partecipato e presso il quale si sono svolte splendide iniziative come “al cinema con papà” in cui ai genitori reclusi è stato consentito, prima del colloquio, di vedere un cartone animato con i propri bambini.

    Infine c’è anche una chiesa all’interno della quale si trova un presepe realizzato con estrema cura dai detenuti, ricco di minuziosi particolari.

    Chiaro scuro da un luogo di detenzione: anche questa che è stata descritta è attesa di giustizia se giustizia è punizione ma anche recupero del condannato.

    Grazie alla delegazione delle Camere Penali che con il suo resoconto della visita a San Cataldo ha reso possibile trasferire anche sulle colonne del Patto Sociale uno spaccato di vita sconosciuta.

  • Detenuto muore nel carcere di Lecce sniffando gas

    Un detenuto brindisino di 40 anni è morto nel carcere di Borgo San Nicola a Lecce. Da quanto emerso l’uomo si sarebbe tolto la vita inalando il gas di una bomboletta da campeggio in dotazione. Il suicidio sarebbe avvenuto qualche giorno fa in cella dove era recluso per scontare una condanna per droga. Il brindisino era stato destinato alla seconda sezione del reparto circondariale C1, denominata Reis, il reparto a elevato indice di sicurezza.
    Come rivela ADUC – Notiziario Droghe, a dare notizia del fatto è stato il vice segretario regionale del sindacato autonomo degli agenti di polizia penitenziaria, secondo il quale permangono condizioni di criticità all’interno del carcere leccese. L’uomo avrebbe dimostrato problemi di adattamento al sistema carcerario e di convivenza con altri reclusi.
    «L’episodio fa emergere ancora una volta le criticità del sistema penitenziario», ha detto Ruggiero Damato vice segretario dell’Osapp. “La gravissima carenza di polizia penitenziaria soprattutto nel ruolo di agenti/assistenti che sottopone gli agenti a turni massacranti che variano dalle 8/10/12 ore consecutive, spesso senza avere la possibilità di consumare una bevanda fresca visto anche la chiusura del locale spaccio da circa due anni». Damato ha anche rimarcato la mancanza di supporti informatici e di sorveglianza per il controllo di «soggetti con problemi di adattamento al sistema penitenziario». «Anche se dotati di tutta l’umanità possibile e di tutta la buona volontà, gli agenti non riescono a far fronte alle carenze del sistema e questo incide sulla serenità nell’effettuazione delle loro mansioni», ha aggiunto. «Ogni perdita di vita è una sconfitta per tutto il sistema penitenziario», ha concluso Damato secondo il quale tragedie come quella consumata nel carcere di Lecce segnano per sempre gli stessi agenti della polizia penitenziaria. «Purtroppo gli agenti sono considerati poliziotti di manovalanza a basso costo», ha scritto lanciando un appello alle autorità. Il sindacato punta il dito verso le autorità, dal ministro al capo del Dap, sino ad arrivare a dirigenti a vari livelli: «Avere una polizia penitenziaria più motivata, incentivata e rispettata, farebbe bene agli agenti e ai detenuti».

  • In attesa di Giustizia: Beccaria non abita più qui

    Nella nostra Costituzione, all’articolo 27, echeggia il pensiero di Cesare Beccaria laddove si prevede che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato: un impegno, pertanto, che coinvolge l’intera amministrazione della Giustizia, dal Giudicante che deve determinare il trattamento sanzionatorio per chi sia stato ritenuto autore di un reato misurandolo con le prospettive di reinserimento sociale, sino al Tribunale di Sorveglianza che può ammettere un condannato a benefici che ne riducano la pena ovvero ne consentano l’espiazione attraverso un progressivo riacquisto della libertà sempre che il soggetto – sottoposto ad osservazione di esperti durante la carcerazione – ne risulti meritevole anche per la possibilità di ottenere un lavoro all’esterno.

    La nostra legislazione prevede che anche l’ergastolano possa avere una opportunità di rientro nel consorzio sociale, sia pure dopo molti e molti anni di detenzione, invece che un “fine pena mai”. Ma ci sono delle limitazioni introdotte nel tempo e tra queste quella che prevede il c.d. ergastolo ostativo, cioè a dire (con riferimento solo a taluni reati di sangue aggravati) il divieto di misure premiali di qualsiasi genere.

    Con decisione recentissima la CEDU ha affermato che l’ergastolo ostativo è contrario anche alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo violandone  l’art 3.

    La pronuncia, partitamente in un periodo storico – politico in cui la tendenza è quella della panpenalizzazione delle condotte e dell’inasprimento delle pene, è di grande importanza nel quadro di un necessario riallineamento della pena detentiva perpetua alla necessaria finalità rieducativa della pena e suona a monito di un legislatore nazionale ispirato solo dalla estremizzazione del rigore, senza considerare che la sicurezza dei cittadini deve essere assicurata anche tentando, almeno tentando, il recupero dei condannati allontanandone il pericolo che ricadano nel crimine una volta scontata la pena.

    Peraltro la critica della CEDU non ha tanto ad oggetto la durata della pena, quanto l’automatismo normativo che, nei reati “ostativi” che non sono solo quelli puniti con l’ergastolo, ravvede nella collaborazione con l’autorità giudiziaria l’unico strumento per ritenere cessata la pericolosità: la Corte mette, dunque, in discussione anche delle ostatività (alcune recentemente introdotte, per esempio per reati contro la Pubblica Amministrazione) relative a pene temporanee.

    La CEDU ha ritenuto che, se la collaborazione costituisce l’unica via attraverso la quale il condannato possa aspirare ad una rivalutazione della sua pericolosità, vi è da dubitare che il dubbio possa essere il frutto di una libera scelta, senza contare che, non di rado, è la paura di ritorsioni che determina la scelta di non collaborare. Quindi, deduce la Corte, la mancanza di collaborazione non può di per sé esprimere una permanente adesione a valori criminali o alla criminalità organizzata, ed altresì che la dissociazione del condannato può esprimersi con diverse modalità. D’altro canto, la collaborazione non è necessariamente prova di una effettiva resipiscenza ma può essere frutto di una valutazione utilitaristica. Infine, afferma la Corte che la personalità di un condannato non può essere ritenuta immutabile rispetto a quella che era al momento della commissione di un reato e, pertanto, deve tenersi conto dei progressi eventualmente accertati nel corso dell’esecuzione della pena.

    La Grand Chambre ha infine osservato che compete allo Stato Italiano introdurre una riforma del regime dell’ergastolo che garantisca valorizzazione di eventuali progressi del condannato ai fini della valutazione pericolosità dello stesso e dell’eventuale accesso a misure alternative al carcere, a prescindere dalla eventuale collaborazione.

    Beccaria non abita più qua, ce lo ricordano da Strasburgo: converrà tenere conto dell’insegnamento invece che perseguire il consenso attraverso il clangore delle manette.

  • In attesa di Giustizia: giustizia fai da te

    Questa settimana inizierà, alla Camera dei Deputati, l’esame del disegno di legge sulla modifica della legittima difesa, provvedimento sostenuto non solo dalla maggioranza di governo ma anche da una parte della opposizione.

    Il timore è che la disciplina, fraintesa anche grazie allo slogan “la difesa è sempre legittima” che la accompagna, si riveli un pericoloso viatico verso una spirale di violenza. E se gli slogan, non diversamente dalle leggi, rischiano di avere una interpretazione autentica la visita in carcere a Piacenza e la solidarietà  del Ministro degli Interni ad Angelo Peveri va proprio in questa direzione.

    Per una migliore comprensione è necessario sintetizzare la vicenda processuale di questo imprenditore rimasto vittima di decine di furti nella sua azienda e che – esasperato – all’ennesima intrusione ha reagito sparando e mettendo in fuga tre ladri, ferendone uno ad un braccio; fin qui nulla di anomalo, senonché, poco più tardi, uno di costoro ritorna per recuperare l’autovettura utilizzata per raggiungere il luogo del tentato furto ma viene individuato, bloccato da un dipendente di Peveri che lo immobilizza. A questo punto, forse anche prima, sarebbe stato il caso di chiamare la Polizia per i rilievi del caso: invece si opta per l’occhio per occhio, dente per dente e il ladro viene prima malmenato e poi attinto da un colpo di fucile al petto che si sosterrà essere partito accidentalmente. In seguito, senza che la difesa dell’imprenditore abbia mai nemmeno tentato di sostenere la legittima difesa, Angelo Peveri è stato condannato per tentato omicidio a quattro anni e mezzo di carcere che ora ha iniziato a scontare.

    Probabilmente nessuno, di fronte ad una simile ricostruzione dei fatti – non contestata dall’imputato se non con riferimento alla  fortuità della fucilata – azzarderebbe l’ipotesi di una reazione giustificabile, anche tenendo conto dell’esasperazione dopo una lunga teoria di ruberie subite, ed anche la pena inflitta risulta equilibrata.

    Il segnale che arriva dalla visita di Salvini al condannato, invece, rischia di alimentare nell’opinione pubblica la convinzione che la legittima difesa domiciliare in fase di approvazione consista in una sorta di “giustizia fai da te” sempre consentita e con qualsiasi estensione nei confronti di chi si introduca in luoghi di dimora o esercizio di attività produttive.

    Vero è che nel privato domicilio l’ultimo baluardo è offerto proprio dalla vittima dell’intrusione ma da qui a dire che qualsiasi risposta possa giustificarsi come proporzionata all’offesa, al pericolo e conforme ad un senso comune di giustizia il passo è lungo.

    Ne abbiamo già parlato ma sembra opportuno ribadire che il rischio sia, da un lato, l’innalzamento del gradiente di aggressività dei delinquenti – che tali sono e tali restano, con freni inibitori già allentati – a fronte del concreto pericolo di incorrere in risposte armate in una probabile spirale di violenza da scongiurare, dall’altro, una corrispondente reattività che metta innanzitutto a repentaglio la incolumità di chi possa essere confuso con un aggressore (immaginiamo, per esempio, un senza tetto che cerchi riparo).

    A tacere di tutto ciò, i numeri, la statistica, parlano di un intervento che, se da un lato può essere dannoso, dall’altro si propone come inutile anche al fine di evitare il patimento del processo a chi abbia difeso se stesso, i propri cari o beni, per verificarne la legittimità: a livello nazionale nel 2013 ci sono stati cinque procedimenti a giudizio, nel 2014 nessuno, nel 2015 tre, nel 2016 due mentre con percentuale vicina al 100% del totale dei casi si perviene alla archiviazione. In altre ipotesi, molte delle quali riguardano aggressioni di fatto bagatellari o nelle quali non vi è stato né pregiudizio né reale pericolo per la incolumità vi è solo da rallegrarsi che nessuno – vittima o aggressore – si sia fatto male, senza la pretesa che il cittadino faccia supplenza delle Forze dell’Ordine là dove è irragionevole pensare che, con il massimo sforzo possibile, possano estendere l’opera di prevenzione perché questa non è né incremento di sicurezza né, tantomeno, di giustizia.

  • In attesa di Giustizia: quando la giustizia diventa vendetta sociale

    Non è una novità che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo rilevi delle criticità nel nostro ordinamento: recentemente, dopo che l’istituto era stato scrutinato negativamente anche dalla Corte Costituzionale (e ne abbiamo trattato su un numero di qualche settimana addietro), l’attenzione si è posata ancora sull’articolo 41bis dell’Ordinamento Penitenziario, quello che prevede un regime detentivo particolarmente duro per i carcerati ritenuti a più elevata pericolosità: generalmente e per espressa previsione normativa, gli appartenenti ad associazione mafiosa.

    Ovviamente, anche Bernardo Provenzano vi era sottoposto e tale era rimasto anche quando le sue condizioni di salute erano diventate tali da renderlo obiettivamente inoffensivo e proprio al suo caso si  è interessata la CEDU registrando una violazione dei diritti fondamentali: ma, tant’è, nonostante che le Procure interessate alla esecuzione della pena del boss (Palermo, Firenze e Caltanissetta) avessero formulato parere favorevole alla revoca del 41bis, il Ministero e la Procura Nazionale Antimafia si sono opposti sostenendo che il detenuto poteva ancora impartire ordini e comunicare con l’esterno.

    Bernardo Provenzano è morto il 13 luglio 2016 sottoposto a carcere duro sebbene le sue condizioni fossero tali da renderlo sostanzialmente una larva: allettato da circa due anni, quarantacinque chili di peso, nutrito attraverso un sondino il cui scollegamento avrebbe provocato la morte nel giro di un paio di giorni; privo di orientamento, affetto da encefalopatia degenerativa, rimane un mistero come avrebbe mai potuto esprimere pericolosità non diversamente contenibile se non attraverso un trattamento disumano.

    Si dirà, è stato anche detto da autorevoli esponenti politici: inumani sono stati i comportamenti di Provenzano in vita, responsabile di omicidi e non solo, per un criminale così non può esserci nessuna pietà.

    Credo che di uno Stato che non amministra Giustizia bensì realizza forme di vendetta sociale non abbiamo bisogno: il rigore cui era sottoposto Bernardo Provenzano prevedeva – come per tutti quelli nelle sue condizioni – una limitazione dell’ora d’aria che da allettato in stato vegetativo non poteva fare, così come non avrebbe potuto comunque leggere la corrispondenza se prima non sottoposta a censura, né poteva prepararsi pasti caldi (il divieto recentemente ritenuto irragionevole dal Giudice delle Leggi) e tantomeno comunicare durante le limitate visite dei famigliari. Tutto ciò solo per fare alcuni esempi tra i vincoli di cui era destinatario e senza dimenticare che il suo ricovero era stato disposto presso il braccio penitenziario dedicato dell’Ospedale San Paolo di Milano: dunque in regime neppure di piantonamento presso struttura sanitaria ma di permanente detenzione che assicurava il massimo della sicurezza possibile.

    Bernardo Provenzano in vita resta quello che le sentenze di condanna hanno descritto e ha scontato la sua pena fino in fondo: tuttavia l’ultimo periodo di espiazione rassomiglia tanto a quel truce spettacolo fondato sul principio “occhio per occhio dente per dente” messo in scena nelle camere della morte dei penitenziari statunitensi dove il difensore, il Procuratore Distrettuale e i famigliari delle vittime possono assistere alla esecuzione del condannato.

    Lo Stato di Diritto è, dovrebbe essere, un’altra cosa: doverosamente rigoroso nei confronti di chi ne ha violato le leggi ma mai vindice. La lenta agonia in carcere di Bernardo Provenzano si sarebbe compiuta comunque e ben poteva far parte della sua pena ma l’accanimento inutile che l’ha accompagnata ha il sapore acre della tortura piuttosto che della Giustizia.                 

  • Una cella nuova e comoda

    9 metri quadri in cui passare parte della propria vita in due dovendo fare i conti con lo spazio che manca, la libertà fuori dalle sbarre e la condivisione non sempre facile. 9 metri quadrati, è questa la dimensione di una cella in cui la maggior parte dei detenuti italiani trascorre la propria giornata, 9 metri quadri che potrebbero essere reinventati per provare a vivere meglio. E’ nato così, un anno fa, il  progetto di design sociale Stanze sospese, ovvero riprogettare completamente una cella con colori e arredi pensati per aiutare il detenuto nelle attività quotidiane, nella riabilitazione e nella dignità. Pensato per gli arredi delle camere dei detenuti del carcere di Opera e sostenuto dalla Fondazione Allianz Umanamente il progetto, nei giorni scorsi, è approdato entro le mura di San Vittore, dove è stata installata una cella pilota.

    Stanze sospese ha visto come primo momento di visibilità un’installazione promossa da 5VIE art+design per il Fuorisalone 2018 nelle cantine del Siam, dove è stata riprodotta una cella del carcere di Opera e una arredata con i prototipi dei nuovi arredi, realizzati in parte in plastica riciclata e prodotti nelle falegnamerie sociali impegnate nel progetto: il laboratorio Arteticamente di Sacra Famiglia e il Polo formativo Legno Arredo.

    Il team di progettazione è composto da tutor e giovani designer e ha lavorato su due principi fondamentali: utilizzare meglio lo spazio e aumentare la flessibilità, con arredi che abbiano ingombri e utilizzi diversi nell’arco della giornata. I giovani designer hanno preso alla lettera la metafora “da rifiuto a risorsa”, progettando un sistema di arredi modulare, resistente e flessibile, per dare dignità al soggiorno di detenzione, favorire l’acquisizione di nuove competenze mediante lavoro, studio, gioco e bricolage e individuare un nuovo cammino, nella legalità.

  • In attesa di Giustizia: buon appetito!

    No, non vi siete sbagliati, la rubrica di ricette è altrove su queste colonne: qui continuiamo a parlare di Giustizia, o quel che ne resta…questa settimana prendendo spunto da una recentissima decisione della Corte Costituzionale che contribuisce a fare del nostro un Paese meno imbarbarito da una legislazione troppo spesso subalterna alla piazza ed alle pulsioni giustizialiste che ne derivano.

    Credo che tutti i lettori abbiano sentito parlare del regime detentivo previsto dall’articolo 41 bis dell’Ordinamento Penitenziario: il cosiddetto “carcere duro” che viene inflitto, con provvedimento del Ministro Guardasigilli, ai prigionieri ritenuti più pericolosi poiché inseriti (o supposti tali…non è necessaria una sentenza definitiva di condanna) in associazioni  di elevata statura criminale.

    Le condizioni in cui vivono la carcerazione questi detenuti sono effettivamente rigidissime e volte ad impedire che anche dall’interno di un penitenziario mantengano i rapporti con le rispettive consorterie di appartenenza: per esempio, i colloqui con i famigliari sono limitati e avvengono in ambienti in cui il contatto sia ridotto al minimo, l’isolamento all’interno della struttura è pressoché totale anche nell’ora “d’aria”, sono limitati i beni che possono ricevere dall’esterno, sono sostanzialmente esclusi da benefici di legge.

    Fino a venerdì scorso, questi carcerati – alcuni dei quali, come detto, sono assistiti ancora dalla presunzione di innocenza – a tutti gli altri limiti loro imposti dovevano sommare il divieto di potersi preparare il pasto in cella, a proposito del quale il Magistrato di Sorveglianza di Spoleto che ha sollevato la questione di legittimità costituzionale ha rilevato che si tratta di: “un momento che costituirebbe modalità umile e dignitosa per tenersi in contatto con le usanze del mondo esterno, il ritmo dei giorni e delle stagioni nel fluire di un tempo della detenzione che trascorre altrimenti in un’aspra solitudine”.

    Mafiosi reali o presunti che fossero i destinatari di questa disposizione, la norma suona come una inutile barbarie di cui il Giudice delle Leggi ha fatto giustizia scrutinandone l’incostituzionalità sotto il duplice profilo di violazione degli articoli 27 che postula che le pene (e, quindi, la loro modalità di esecuzione) non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, e 3 della Costituzione.

    L’esame di quest’ultimo è interessante perché, sebbene esprima il concetto di parità dei cittadini davanti alla legge, esprime, sottendendolo, il principio di ragionevolezza perché – secondo l’elaborazione giurisprudenziale che la Corte ha consolidato da tempo – l’eguaglianza davanti alla legge significa divieto di discriminazione irragionevole.

    Il principio di uguaglianza diventa, così, parametro fondamentale di ragionevolezza di cui le leggi devono essere munite: ne consegue che anche il trattamento con una data pena di una certa categoria di reati e di colpevoli (o presunti tali…) diventa suscettibile di giudizio sulla sua ragionevolezza se gli elementi su cui si fonda non risultino obbiettivi, rilevanti, giustificabili.

    Forse non sarebbe stato necessario che a dirlo fosse la più alta Giurisdizione della Repubblica, sarebbe dovuto bastare (ad averne) il buon senso del legislatore per capire che il divieto di cottura dei cibi “è privo di ragionevole giustificazione perché incongruo e inutile alla luce degli obbiettivi cui tendono le misure restrittive autorizzate dalla disposizione in questione (l’art. 41 bis dell’Ordinamento Penitenziario)”. Così, testualmente scrive la Corte Costituzionale cancellando dal sistema una disciplina che non poteva definirsi che indecente…e giustizia è fatta anche se l’attesa è durata molti anni.

  • In attesa di Giustizia: galera? tranquilli, ce n’è per tutti…

    Il nostro, si sa, è un Paese dove in molti si allietano con l’allegro clangore delle manette: indignati in servizio permanente effettivo, forcaioli più o meno politicamente impegnati e – naturalmente – magistrati orfani del sistema inquisitorio la cui apologia può rinvenirsi in un libro di alcuni anni fa di Marcello Maddalena (allora Procuratore della Repubblica di Torino) dal titolo “Meno grazia e più giustizia”, una conversazione con Marco Travaglio e prefazione di Piercamillo Davigo: et de hoc, satis.

    Quella di cui andremo ad occuparci oggi è una incredibile storia di manette che, però, trae probabilmente origine da sbadataggine piuttosto che da furori cautelari: il che non è detto che sia meno peggio.

    Deve premettersi che nel nostro sistema giudiziario, salvo i casi di arresto in flagranza da parte delle Forze dell’Ordine, la privazione della libertà personale può avvenire solo con provvedimento motivato di un giudice su richiesta del pubblico ministero: se non vi è quest’ultima, il giudice non può autonomamente disporre la cattura di nessuno. Ma a Napoli, pochi giorni fa, le cose sono andate diversamente: è accaduto, infatti, che un G.I.P. abbia arrestato dieci persone mentre il pubblico ministero aveva chiesto la cattura solo di sette; in soldoni, sono finiti in carcere dei cittadini nei confronti dei quali non vi erano gravi indizi di colpevolezza ed esigenze di tutela della collettività o delle indagini che sono i presupposti di un’ordinanza di custodia.

    L’equivoco – chiamiamolo così – si è risolto in una mezza giornata con la scarcerazione dei tre indagati in eccedenza ma non per questo l’accaduto è meno grave essendo espressivo di un livello di attenzione molto basso, inaccettabile da parte di chi svolge funzioni tanto delicate risultando paradigmatico di un approccio sciatto a temi con alto livello di criticità per chi ne è interessato e che non dovrebbe realizzarsi mai.

    Si dirà che è un caso isolato. Purtroppo non è così: è solo uno che è emerso; motivi di spazio impediscono di elencare con opportuna dovizia  ulteriori esempi che sarebbero disponibili:  per garantire alcuni momenti di amaro buonumore basterà qui ricordarne un paio, tra quelli recentemente e personalmente testati prendendo le mosse dalla sentenza di un giudice monocratico di Roma che scrive la motivazione di una sentenza con un linguaggio sincopato (xchè al posto di “perché”, 1 al posto di  “uno” e numerose altre simili perle) sebbene sarebbe giusto aspettarsi che i provvedimenti giudiziari siano scritti in lingua italiana e non come un sms: il che denota frettolosità non coerente con le funzioni. E qualcuno finisce in carcere.

    Proseguiamo con un altro monocratico, questa volta di Catania, che nel corpo di una decisione, dopo aver preannunziato l’analisi di intercettazioni telefoniche prosegue con quella che è – evidentemente – una lettera destinata alla fidanzata: duole sapere che un certo Pippo si è intromesso tra i due e che il magistrato da un anno insegue le capriole di umore della beneamata in cambio di sporadici sorrisi; dopo un paio di pagine si riprende con l’analisi delle prove e sebbene la vicenda sentimentale sia dolorosa e la poetica  struggente ciò che inquieta è che un giudice pensava ai casi suoi (e, probabilmente teneva aperti due files sul computer incappando, poi, in un copia e incolla…)mentre decideva il destino di cittadini; che non abbia riletto la sentenza prima di depositarla in cancelleria è pacifico. Altra galera dispensata.

    Il GIP che ha arrestato più persone di quante richieste, nel frattempo, è stato trasferito al civile (dove, pare, aveva già richiesto di andare) e sembra sia sotto procedimento disciplinare, nulla – invece –  sappiamo circa gli sviluppi della melanconica storia d’amore catanese e neppure se il magistrato romano si sia iscritto a dei corsi serali di italiano. Per fortuna non sono tutti così, anzi…ma anche questa è giustizia (“g” rigorosamente minuscola).

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