Cina

  • Pechino prova a zittire gli uiguri all’Onu

    Per prevenire verifiche a parte della comunità internazionale di abusi o violazioni da parte cinese nello Xinjiang verso la minoranza musulmana uiguri, Pechino ha cercato di impedire un forum promosso a margine dell’annuale assemblea generale delle Nazioni Unite a New York. I diplomatici cinesi hanno inviato una lettera alle missioni internazionali all’Onu che è però stata rispedita al mittente dagli ambasciatori e da gruppi attivisti ai quali veniva rivolto l’invito a disertare il forum. Durante l’incontro Sophie Richardson, direttrice della sezione cinese di Human Rights Watch (Hrw), ha mostrato una copia della lettera pubblicata in esclusiva nei giorni scorsi dal National Review, stigmatizzandone il contenuto: un governo che agisce in questo modo, ha aggiunto, «non ha alcun diritto di far parte del Consiglio Onu per i diritti umani» e conferma che «ha molto da nascondere».

    Anche Beth Van Schaack, attuale ambasciatrice Usa per la giustizia penale globale, ha definito la lettera della rappresentanza di Pechino (menzionata attraverso l’acronimo Prc del partito comunista) all’Onu «un altro esempio della campagna di repressione transnazionale» sugli uiguri. Agnès Callamard, segretario generale di Amnesty International, conferma che gli uiguri continuano a vedersi negate le libertà di movimento, di religione o di cultura, mentre aumentano i procedimenti giudiziari a loro carico, compreso il «trasferimento di detenuti dai cosiddetti centri di rieducazione o di formazione professionale a carceri penali più formali». Degli oltre 15mila residenti dello Xinjiang di cui si conoscono le sentenze, più del 95% dei condannati (spesso con accuse vaghe, come separatismo o messa in pericolo della sicurezza dello Stato) hanno ricevuto pene da 5 a 20 anni, e in alcuni casi anche il carcere a vita.

  • Secondo il “Washington Post” la Cina ha sfruttato la pandemia per raccogliere dati genetici a livello mondiale

    Le agenzie d’intelligence occidentali temono che la Cina abbia sfruttato la pandemia di Covid-19 per raccogliere una vasta mole di dati sul genoma umano a livello mondiale, da sfruttare per ottenere un vantaggio nella “corsa alle armi genetica” con gli Stati Uniti. Lo scrive il Washington Post, che ricorda come durante la pandemia Pechino abbia inviato aiuti a numerosi Paesi sotto forma dei sofisticati laboratori portatili di analisi genetica “Fire-Eye”. Il primo Paese a ricevere uno di questi laboratori, alla fine del 2021, fu la Serbia. Oltre a rilevare le infezioni da coronavirus tramite l’analisi di frammenti del virus, il laboratorio portatile sviluppato dalla Cina è in grado di svolgere complesse analisi del genoma umano, come vantato dai suoi sviluppatori: per questa ragione, l’arrivo di un esemplare del laboratorio Fire-Eye venne accolto con entusiasmo dalle autorità di Belgrado, che vantarono in quell’occasione di disporre “del più avanzato sistema di medicina e generica di precisione nella regione”.

    Nel corso della pandemia, Pechino ha donato o venduto laboratori analoghi a numerosi altri Paesi, e ora, secondo il WP, diversi analisti sospettano che la generosità della Cina sia parte di un tentativo di attingere a nuove fonti di dati genetici umani di alto valore in tutto il mondo. Si tratterebbe di uno sforzo intrapreso da Pechino da oltre un decennio ricorrendo a diversi metodi, che includerebbero anche l’acquisizione di società statunitensi del settore e una serie di operazioni di pirateria informatica. La pandemia avrebbe offerto ad aziende e istituti cinesi l’opportunità di distribuire strumenti per il sequenziamento del Dna umano in aree del Globo dove in precedenza Pechino aveva accesso limitato o nullo. I laboratori Fire-Eye si sono diffusi infatti in almeno quattro continenti e in più di 20 Paesi, inclusi Canada, Lituania, Arabia Saudita, Etiopia, Sudafrica e Australia. In diversi Paesi, come la già citata Serbia, i laboratori portatili si sono trasformati in centri di analisi genetica permanenti.

    Liu Pengyu, un portavoce dell’ambasciata cinese a Washington, interpellato dal Washington Post ha negato categoricamente che Pechino possa aver avuto accesso ai dati genetici raccolti dai laboratori di sua produzione, evidenziando che oltre ad assistere i Paesi beneficiari nel contrasto alla pandemia, i laboratori donati e venduti dalla Cina stanno fornendo assistenza cruciale nello screening di altre malattie, incluso il tumore. L’azienda con sede a Shenzhen che produce i Fire-Eye, Bgi Group, sostiene di non avere accesso ai dati raccolti dai suoi laboratori portatili. Fonti statunitensi consultate dal quotidiano affermano però che Bgi sia stata selezionata da Pechino per edificare e gestire la China National GeneBank, un vasto archivio governativo dei dati genetici raccolti dalla Cina, che includerebbe già dati e profili genomici di milioni di individui di tutto il mondo. Lo scorso anno il Pentagono ha inserito Bgi nella lista delle “aziende militari cinesi” operanti negli Stati Uniti, e nel 2021 l’intelligence Usa ha stabilito che l’azienda sia legata allo sforzo globale del governo cinese teso a ottenere informazioni sul genoma umano a livello mondiale, anche negli Stati Uniti.

  • Nuovi sospetti sull’origine made by China del Covid

    Nel novembre del 2019, poche settimane prima che venissero accertati i primi casi di Covid-19 in Cina, tre ricercatori dell’Istituto di virologia di Wuhan si ammalarono di una patologia mai accertata. Lo indicano informazioni dell’intelligence statunitense che sono state pubblicate oggi dal quotidiano Wall Street Journal e che sembrano avvalorare la tesi della “fuga da laboratorio” all’origine del coronavirus, una teoria sposata nei mesi scorsi anche dal Federal Bureau of Investigation (Fbi) e dal dipartimento dell’Energia di Washington. Uno dei tre scienziati, identificato come Ben Hu, lavorava su un progetto finanziato dal governo Usa e volto proprio a studiare gli effetti dei coronavirus sugli umani. Secondo l’intelligence statunitense, i sintomi mostrati dal ricercatore nel novembre del 2019 sono compatibili sia con quello che successivamente sarebbe stato chiamato Covid-19 che con un’influenza stagionale. Nessuno dei ricercatori, comunque, è deceduto a causa della malattia. A tre anni di distanza, dopo che la pandemia ha mietuto quasi sette milioni di vittime in tutto il mondo, l’origine del virus è ancora oggetto di dibattito. L’ipotesi iniziale, quella del salto di specie, non è mai stata confermata, e la comunità scientifica internazionale resta ancora divisa sul tema. Lo scorso anno, contribuendo ad alimentare ulteriormente le tensioni con la Cina, l’Fbi ha determinato “con un moderato grado di fiducia” che all’origine del virus potrebbe esserci una fuga da laboratorio avvenuta proprio all’Istituto di virologia di Wuhan. Successivamente il dipartimento dell’Energia è giunto a una simile conclusione.

    Quattro altre agenzie d’intelligence Usa, invece, ritengono più probabile che l’origine del virus sia naturale. La Cia non si è mai espressa. Secondo il Wall Street Journal, la comunità d’intelligence statunitense dovrebbe però desecretare proprio nei prossimi giorni nuove informazioni riguardanti il dossier, forse contenenti anche dettagli sui ricercatori ammalatisi nel novembre del 2019. Stando alle informazioni già in possesso del quotidiano, gli altri due scienziati sarebbero Yu Ping e Yan Zhu, il primo autore proprio quell’anno di una tesi sul coronavirus dei pipistrelli. Il nome più importante resta tuttavia quello di Hu, che secondo le fonti ebbe un ruolo centrale nelle ricerche sul coronavirus a Wuhan, alcune di queste finanziate proprio dagli Stati Uniti. Hu era anche uno stretto collaboratore di Shi Zhengli, esperta tra le più note in materia di coronavirus. Il primo caso ufficiale di Covid-19 fu confermato nella stessa Wuhan l’8 dicembre. La Cina ha sempre respinto l’ipotesi che il Covid-19 sia stato il risultato di una fuga di laboratorio e nel corso degli anni ha anche messo in dubbio che la pandemia abbia avuto origine a Wuhan. “Il vero ostacolo per lo studio delle origini del Covid è la manipolazione politica degli Stati Uniti”, ha dichiarato lo scorso marzo il portavoce del ministero degli Esteri di Pechino, Wang Wenbin.

  • Il Congresso mondiale degli uiguri chiede all’Ufficio delle Nazioni Unite per i diritti umani di intraprendere azioni concrete per fermare il genocidio

    Il 1° settembre ricorre il primo anniversario dello storico rapporto sugli uiguri stilato dall’Ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (OHCHR). Il rapporto conclude che le atrocità e le violazioni dei diritti umani in corso nel Turkistan orientale, in particolare la “detenzione arbitraria e discriminatoria” degli uiguri e di altri popoli turchi, nel contesto di altre restrizioni “potrebbero equivalere a crimini internazionali, in particolare crimini contro l’umanità”.

    Ad oggi il rapporto offre la valutazione più definitiva dei problemi affrontati dagli uiguri e da altri popoli turchi. Nonostante le ampie raccomandazioni al governo cinese, non sono stati riconosciuti miglioramenti per affrontare la situazione, al contrario le misure repressive sono peggiorate.

    “Un anno dopo questo rapporto innovativo, chiediamo una rinnovata azione da parte della comunità internazionale. La Cina ha continuato la sua violenta repressione nei confronti degli uiguri e degli altri popoli musulmani turcofoni e la recente visita di Xi Jinping nel Turkistan orientale dimostra che il PCC non ha intenzione di porre fine alle sue politiche repressive, ma piuttosto raddoppia il piano sistematico per cancellare gli uiguri”, ha affermato Il presidente del Congresso mondiale uiguro, Dolkun Isa.

    Il Congresso mondiale uiguro chiede all’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Volker Türk, di dare seguito alle raccomandazioni contenute nel rapporto del suo ufficio, di informare il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite sulla situazione attuale nel Turkistan orientale e di individuare un modo costruttivo per porre rimedio alle persistenti lamentele degli uiguri.

  • L’immobiliare cinese Ebergrande bussa a New York per ridurre i debiti da saldare

    Il colosso immobiliare cinese Evergrande ha avviato a New York la procedura per la ristrutturazione del debito offshore e non comporta un’istanza di fallimento, come lo stesso gruppo ha comunicato attraverso  una nota alla Borsa di Hong Kong.

    Gravata da debiti per oltre 300 miliardi di dollari, la società ha chiesto al tribunale di Manhattan la ristrutturazione di 19 miliardi di dollari di debito estero, sulla base del capitolo 15 del codice fallimentare degli Usa, che protegge le società non statunitensi in fase di ristrutturazione dai creditori intenzionati a promuovere azioni legali.

    Evergrande sta negoziando da quasi due anni con i propri creditori dopo essere risultato inadempiente sul pagamento del debito nel 2021 a causa di una crisi di liquidità. Il default ha avuto inevitabili ripercussioni sull’intero settore immobiliare cinese, che rappresenta poco meno di un terzo del prodotto interno lordo nazionale.

    Negli ultimi mesi non sono mancati momenti di tensione durante le trattative tra Evergrande e i creditori stranieri, in particolare quando nel marzo dello scorso anno la compagnia ha annunciato il sequestro di 2 miliardi di dollari di beni da parte di banche cinesi che avrebbero dovuto restare a disposizione degli obbligazionisti esteri.

    Alcuni creditori, inoltre, hanno contestato la permanenza alla guida del gruppo del presidente Hui Ka Yan.

  • Il quadro ormai è chiaro

    Alle soglie di una  una nuova recessione economica ecco gli effetti disastrosi della politica economica e strategica italiana ed europea  portata avanti con cecità ideologica (https://www.ilpattosociale.it/europa/lunione-europea-ormai-e-una-zona-franca/).

    Il nostro Paese come l’intera Unione Europea in questi anni passa da una dipendenza verso i paesi produttori di petrolio (Opec), il cui unico obiettivo era quello di accumulare ricchezze, ad una di carattere non solo energetico ma soprattutto politico.

    La  totale genuflessione energetica e di interi settori industriali di fatto pone le basi di una vera e propria dipendenza verso una superpotenza (Cina) la quale dimostra strategie espansive dominanti sia politiche che strategiche ed ovviamente economiche molto invasive e preoccupanti per la nostra democrazia.

    Mentre negli anni Settanta la contrapposizione tra i due blocchi politici, quello occidentale e il socialista, era rappresentata dal  muro di Berlino, ora abbiamo fagocitato all’interno delle nostre istituzioni i nemici del nostro stesso sistema economico e politico.

    Questi  hanno assunto le sembianze dei presunti ambientalisti ma, sottoposti ad  una metamorfosi kafkiana, si sono trasformati da soggetti politici ad agenti di distruzione del nostro sistema politico, economico e sociale.

    La dipendenza della nostra economia da un sistema totalitario come la Cina rappresenta il loro vero  obiettivo politico, ottenuto attraverso l’imposizione ambientalista di una ideologia talebana.

    Una strategia che ha assunto i requisiti squisitamente politici a discapito dei veri  valori ambientalisti per i quali tutte le persone nutrono la massima attenzione.

  • Volkswagen coopera col Dragone per le auto elettriche, gli Usa pensano a ulteriori stop alla collaborazione hi-tech

    Volkswagen, riferisce Paolo Balmas su Il Transatlantico di Andrew Spannaus «investirà circa 700 milioni di dollari in Xpeng, ottenendo così circa il 5% della compagina cinese (inclusa una poltrona da osservatore nel CdA), con la quale svilupperà nuovi veicoli elettrici per il mercato cinese. Il gigante tedesco dell’automobile sta tentando di adattarsi a nuove strategie per limitare le perdite registrate in Cina negli ultimi anni. Le società cinesi, specialmente BYD, ma anche Tesla, sembrano mantenere un vantaggio importante sulle rivali europee e giapponesi nel mercato delle vetture elettriche. Infatti, anche Toyota, con le sue due joint ventures (JV) cinesi, sta facendo fatica a conquistare porzioni di mercato. Sia per le tedesche che per le giapponesi, invece, il mercato cinese del motore a scoppio era vasto e più che sicuro. La JV di Toyota con Guangzhou Automobile ha dovuto licenziare 1.000 operai/e, su un totale di 19.000 dipendenti, per riorganizzare le strategie dopo aver venduto meno vetture di quanto preventivato nei primi sei mesi del 2023, malgrado la campagna di sconti effettuata lungo tutto il periodo. Nel frattempo, altri imprenditori tedeschi sembrano trovare fortuna in Cina. La tedesca Lilium, che produce automobili volanti a decollo e atterraggio verticale, ha ottenuto il via libera per aprire una sede nel distretto di Baoan, nella città di Shenzhen, dove le cinesi EHang Holding e Shanghai AutoFlight stanno già producendo i loro velivoli urbani. Il governo cinese non ha ancora rilasciato alcun certificato di sicurezza aerea, ma le imprese godono del sostegno del governo della città di Shenzhen che ha dichiarato di voler diventare il primo hub di trasporto a bassa quota della Cina. L’obiettivo è di ottenere le licenze per il 2025. Nel frattempo, sarà possibile collaudare i velivoli nello spazio aereo di Baoan. Se tale progetto dovesse andare in porto, la logistica, e forse la natura stessa delle città, subirà trasformazioni epocali.
    Intanto, nota ancora Balmas «la guerra economica fra Usa e Cina va avanti. I senatori del Congresso hanno aggiunto una postilla al decreto sulla Difesa per definire ulteriori restrizioni al potenziale trasferimento o vendita di tecnologia avanzata a compagnie cinesi. Nel mirino continuano a esserci i semiconduttori, le tecnologie di comunicazione satellitare, di intelligenza artificiale e di informatica quantistica. Sempre il Senato ha inoltre approvato un limite alla vendita di terreni agricoli superiori ai 320 acri e di imprese agricole del valore superiore di 5 milioni di dollari. Questa seconda iniziativa, oltre cha alla Cina, si estende a compagnie russe, iraniane e coreane del nord. Gli Usa assumono sempre di più un atteggiamento protezionistico».

  • Cina all’opera per evitare la deglobalizzazione e porsi come polo d’attrazione degli investimenti

    La Cina opera per attrarre sempre più investimenti, nonostante la crisi ucraina e quella, paventata, per Taiwan inducano a riflettere se non si sia all’alba di una fase di deglobalizzazione o, secondo altri, di una globalizzazione polarizzata, democrazie da un lato e non-democrazie dall’altro. Su Il Transatlantico di Andrew Spannaus, Paolo Balmas riferisce quanto segue:

    «Tencent, la casa madre di WeChat, ha concluso un accordo con i fornitori di carte di credito straniere, Visa, MasterCard e JCB, al fine di permettere a turisti e businessmen in visita in Cina di utilizzare il sistema di pagamento Weixin Pay, interno all’app di WeChat. Ciò incentiva l’uso dell’app che rende alcuni servizi più efficaci. Ad esempio, si può fare una fila senza dover rimanere in piedi o in prossimità del luogo di servizio. Soprattutto senza l’erogazione di un numeretto su un talloncino di carta, pratica che in molti luoghi della Cina è ormai semplicemente primitiva. Si possono prenotare ristoranti sul momento (i QR code si trovano all’ingresso degli stessi ristoranti) e sapere quanto tempo si ha prima che il tavolo sia pronto per voi, con un messaggio automatico che vi avverte quando il cameriere o cameriera vi attendono. Alipay di Ant Group aveva già aperto i suoi servizi alle carte di credito straniere nel 2022, in un momento in cui la Cina stava cominciando a riaprirsi dopo quasi tre anni di chiusura dovuta al Covid-19. La notizia non aveva avuto un grande effetto perché non si attendeva un grande ritorno di turisti in Cina, ma ora con gli Asian Games a settembre sono attesi molti arrivi e il numero di attività commerciali che non accettano più contanti e carte sono in aumento. Tuttavia, prima era possibile aprire un account e usufruire in parte di questi servizi, ma ora è possibile accedere a nuovi mondi, come ai sistemi per lo shopping online. Non è detto però che i rivenditori spediscano i prodotti fuori dalla Cina se si prova a utilizzarli dall’esterno. Se questo è il futuro, arriverà presto il giorno in cui Amazon scoprirà di avere competitor interessanti.
    Il governo cinese ha emanato nuove regole per l’industria dei fondi di investimento, private equity (PE) e venture capital (VC), che entreranno in vigore dal primo settembre 2023. Secondo le testate che hanno riportato la notizia (fra cui Bloomberg e Caixin), le preoccupazioni maggiori delle agenzie che si occupano del settore finanziario cinese, riguardavano i servizi di custodia. Come per le azioni e le obbligazioni, chi lancia un fondo di investimento lo deve mettere sotto la custodia di entità che garantiscono la sicurezza per gli investitori (solitamente a farlo sono le grandi banche di investimento – nel mondo nordatlantico le grandi banche statunitensi come, ad esempio, State Street hanno più o meno il monopolio, in Cina ci sono le grandi banche di stato come la CCB). La preoccupazione principale riguardava la definizione delle responsabilità di tali custodi. Inoltre, un altro punto riguardava il ruolo dei manager dei fondi. Gli osservatori spiegano che se il testo di legge lascia alcuni punti con una sorta di vaghezza, è perché specifiche agenzie aggiungeranno nel corso dei prossimi mesi varie regole aggiuntive sul piano legale, che andranno nei dettagli. L’industria cinese dei fondi PE e VC ha raggiunto un valore equivalente di circa tremila miliardi di dollari e attrae sempre di più gli investitori occidentali che negli ultimi anni hanno aperto sedi in Cina, come JPMorgan e altri grandi nomi di Wall Street.
    L’Ufficio delle Finanze della provincia di Qinghai ha rilevato circa il 20% (che apparteneva a un’altra agenzia statale) della Banca di Qinghai, dopo che le agenzie di rating cinesi l’avevano declassata. Nel 2022, la Banca di Qinghai aveva registrato un declino nei profitti di oltre il 60%, dovuto alle sofferenze in aumento nell’ambito dei prestiti alle famiglie e dei mercati delle proprietà e dell’energia. Il malessere della banca riflette il diffuso problema del real estate che si estende su buona parte della Cina. Il declino del mercato immobiliare ha fatto registrare una crescita inferiore alla media nazionale in ben 15 giurisdizioni (su un totale di 28). La Cina nel primo trimestre del 2023 è cresciuta del 6,3% e del 5,5% nei primi sei mesi. Mentre tre giurisdizioni erano in linea con la crescita nazionale, nei primi sei mesi del 2023, dieci l’hanno ampiamente superata, con il record di Shanghai in crescita del 9,7%. Su base trimestrale, il record è stato della provincia di Hainan, con il 10,3%, grazie anche a un forte aumento delle attività turistiche sull’isola. I dati segnalano anche un calo di export e produzione, dovuto a un calo generale della domanda internazionale. Emerge un quadro insolito, con province, da un lato, che hanno registrato una crescita del solo 2%, con chiari segni di crisi del settore delle costruzioni e difficoltà per le banche a elargire il credito di cui l’economia e le statistiche hanno bisogno. Dall’altro, ci sono province e distretti con crescite oltre le aspettative, capaci di attrarre investimenti anche esteri, malgrado il continuo attacco mediatico contro la Cina».

  • Schiavismo in Cina, denuncia contro le case automobilistiche tedesche

    I gruppi automobilistici tedeschi Volkswagen, Bmw e Mercedes-Benz sono stati denunciati dall’organizzazione non governativa Centro europeo per i diritti costituzionali e umani (Ecchr) per sfruttamento del lavoro forzato in Cina. Presentata all’Ufficio federale tedesco per l’economia e i controlli sulle esportazioni (Bafa), la denuncia accusa le aziende di non aver fornito alcuna prova di un’adeguata gestione del rischio di lavoro forzato nei loro impianti nello Xinjiang.

    Si tratta della regione autonoma della Cina nord-occidentale popolata dagli uiguri, minoranza turcofona di religione islamica che, sulla base di numerose testimonianze, si ritiene sia oggetto di repressioni da parte delle autorità di Pechino. La legge sulle catene di approvvigionamento in vigore in Germania obbliga le aziende a migliorare la protezione dell’ambiente e dei diritti umani lungo le filiere globali. In particolare, le imprese che producono all’estero o vi fanno fabbricare parti dei propri beni devono assumersi la responsabilità dei processi di produzione e delle condizioni di lavoro presso fornitori. Come autorità di controllo, il Bafa monitora il rispetto della legge sulle catene di approvvigionamento e può sanzionare i trasgressori. Ora, la denuncia dell’Ecchr contro Volkswagen, Mercedes-Benz e Bmw è sostenuta dal Congresso mondiale degli uiguri e dall’Associazione degli azionisti etici di Germania.

    Nello Xinjiang, il primo dei tre gruppi ha una fabbrica per l’assemblaggio delle auto, che gestisce con il partner cinese Saic. Al momento, l’azienda sta preparando un’indagine indipendente sull’impianto ed è “in buoni colloqui” con Saic. In merito alla denuncia dell’Ecchr, Volkswagen si è detta sorpresa, aggiungendo che la esaminerà prima di commentarla. In passato, l’azienda ha ripetutamente affermato di non essere coinvolta in violazioni dei diritti umani. A sua volta, Bmw ha comunicato di “prendere molto sul serio” segnalazioni come quella dell’ong e ha precisato di non essere direttamente attiva nello Xinjiang. A ogni modo, il gruppo è in contatto con i fornitori e li esorta a chiarire eventuali dubbi. Nel caso in cui le accuse fossero ritenute valide e verificabili, verrebbero intraprese azioni appropriate per garantire il rispetto degli standard di approvvigionamento responsabile. Da parte di Bmw non è stato rilasciato alcun commento riguardo alla denuncia dell’Ecchr.

  • Su Alibaba export italiano in Cina per 5,4 miliardi

    Dal 2019 al 2022 le esportazioni delle aziende italiane sui marketplace cinesi di Alibaba sono più che raddoppiate (+140%) raggiungendo i 5,4 miliardi di euro, pari a circa un terzo del valore dell’export italiano in Cina. Questo mercato “La Cina è una grande opportunità per i brand italiani e i consumatori cinesi amano i loro prodotti perché sono una garanzia di qualità, eleganza e stile”, esordisce il presidente di Alibaba Michael Evans – in videocollegamento – davanti a una platea di manager e imprenditori italiani riuniti al Talent Garden Calabiana di Milano per un evento organizzato dal gruppo. A distanza di sette anni dall’avvio dell’attività in Italia, il colosso dell’e-commerce fondato da Jack Ma fa il punto sui risultati delle 500 aziende italiane presenti sulle piattaforme rivolte al mercato cinese Tmall e Tmall Global, ma anche su Kaola e nella catena di supermercati automatizzati Freshippo e Taobao Global. I risultati sono affidati a un’analisi di Sda Bocconi che ha stimato anche l’impatto fiscale, evidenziando che il contributo per le casse dello Stato dovuto alle vendite sulle piattaforme Alibaba è stato di circa 2 miliardi nel 2022. “La nostra mission – afferma Evans – è supportare le aziende ad entrare in uno dei mercati più forti del mondo anche grazie alla collaborazione con le istituzioni, università e agenzie di marketing”. Tra le veterane c’è Tod’s che da lungo tempo collabora con Alibaba nella convinzione che la Cina sia “un mercato determinante, che ogni anno cresce”. A dirlo è il patron di Tod’s Diego Della Valle, convinto che il 2023 possa essere per il settore della moda “un anno eccellente nei rapporti tra l’Italia e la Cina”. In questo scenario, l’obiettivo del governo italiano è “valorizzare e difendere il Made in Italy”, spiega il viceministro delle Imprese e del Made in Italy, Valentino Valentini. La Cina “rappresenta il 20% del Pil mondiale, è un’area del mondo in forte crescita in cui le aziende devono essere accompagnate».

Pulsante per tornare all'inizio