distribuzione

  • 106: the magic number

    Da anni sostengo come il problema dell’evasione fiscale rappresenti la giustificazione per una pessima gestione della pubblica amministrazione e della spesa pubblica nella sua articolata complessità.

    Lo stesso governo in carica, del resto, con l’estensione per i lavoratori dipendenti del bonus da 80 (Bonus Renzi) a 100 euro per tutte le fasce di reddito fino a 40.000 euro dichiarato (prima era fino a 27.000) ne rappresenta l’ultima conferma. Questo ennesimo capitolo di spesa pubblica ovviamente andrà interamente a pesare sulla crescita del debito pubblico nonostante una minima variazione del Pil con un ridicolo +0,2% compromettendo ulteriormente il rapporto debito pubblico e Pil che corre verso quota 2.500 miliardi ma soprattutto verso il 135% del Pil (https://www.ilpattosociale.it/2019/01/10/il-falso-alibi-dellevasione-fiscale/).

    Ora, dati statistici dimostrano come per i redditi medio bassi un lavoratore autonomo subisca una pressione fiscale fino a 106 volte superiore rispetto al dipendente (Il Sole 24 Ore del 22.01.2020).  Questa ricerca dimostra ancora una volta la disonestà intellettuale dei responsabili dei dicasteri economici degli ultimi vent’anni e dei partiti che quei governi hanno sostenuto. Solo nel 2019 hanno abbassato la saracinesca oltre 6.500 negozi e botteghe artigiane la cui uscita dal mondo del lavoro rappresenta un azzeramento di una importante quota del patrimonio culturale e professionale italiano. Per il 2020 le proiezioni statistiche confermano questo trend negativo.

    Una guerra commerciale tra attori con dotazioni impari in quanto se nasce dalla concorrenza con top player come GDO ed e-commerce questi si avvalgono di regimi fiscali che privilegiano proprio i concorrenti del dettaglio indipendente e dei piccoli artigiani. Questi nuovi soggetti allora, in particolare le società della grande distribuzione, venivano indicati come il futuro della distribuzione moderna ed avanzata. Ora invece che ad andare in crisi sono proprio quelle società della GDO ecco che la politica e i media si preoccupano, giustamente, dei contraccolpi occupazionali di tali ridimensionamenti (solo Auchan metterà in mobilità oltre 750 dipendenti).

    Risulta quindi evidente dalla crisi delle GDO come il dettaglio indipendente non venga sconfitto tanto dalla concorrenza di nuovi operatori distributivi (i quali certamente diminuiscono le marginalità) quanto dal regime fiscale adottato per favorire questi soggetti imprenditoriali. Una strategia politica chiara e della quale si dovrebbe chiedere conto soprattutto ai sindaci delle città, se non altro per la generosità con le quale hanno concesso i permessi per aperture di centri commerciali.

    Tornando alle ragioni articolate che determinano una battaglia concorrenziale assolutamente sbilanciata a sfavore del dettaglio indipendente, ecco come un regime fiscale oppressivo per il dettaglio indipendente presenti un moltiplicatore “106” (the magic number) che può addirittura aumentare nel caso in cui la famiglia risulti composta anche da figli a carico.

    Questi due fattori devastanti nella loro sintesi (pressione fiscale e scarsa produttività della spesa pubblica) condannano il nostro Paese ad un inesorabile declino studiato e voluto da un massimalismo ideologico. Non va dimenticato, infatti, come la spesa pubblica rappresenti assieme alla gestione del credito le prime due forme di potere assoluto: il primo in capo alla politica e il secondo al sistema bancario…(https://www.ilpattosociale.it/2018/11/26/la-vera-diarchia/). Una diarchia inattaccabile che ci destina non tanto al declino quanto all’estinzione.

  • E-commerce ed economia digitale: la sostenibilità del dettaglio tradizionale

    L’economia digitale rappresenta sicuramente l’evoluzione contemporanea della economia reale i cui effetti dipendono dalle modalità di applicazione e dai modelli di consumo conseguenti. Essenzialmente questa  trova la sua massima applicazione quando viene utilizzata nel mondo dello studio, analisi e realizzazione di prodotto così come negli articolati processi produttivi (innovazione di prodotto e di processo). Dovrebbe quindi venire intesa come un fattore complesso ed innovativo dai risultati tanto interessanti quanto articolati.

    In altre parole, questa rappresenta la inevitabile evoluzione dell’economia in un contesto storico di inarrestabile innovazione tecnologica e ciò è maggiormente evidente nella riduzione del time-to-market (risposta al mercato quindi attraverso l’innovazione di processo abbinato alla ideazione) e fornisce un supporto straordinario. Mentre il valore aggiunto come espressione di una maggiore eco-compatibilità andrebbe considerato con maggiore attenzione specialmente per un mercato evoluto e contemporaneo.

    In altre parole,l’economia digitale presenta nella propria genesi dei particolari fattori positivi quando questa viene applicata in modo corretto al complesso mondo produttivo e dei servizi.

    Da anni, viceversa, in questa definizione complessiva di economia digitale l’e-commerce ottiene le stimmate del migliore e contemporaneo asset distributivo per i beni e servizi, e quindi, per sua semplice genesi e definizione, risponderebbe ai nuovi parametri di eco-sostenibilità come semplice nuova espressione digitale nella distribuzione.

    L’e-commerce certamente presenta, come ogni innovazione, il vantaggio per un consumatore di saltare l’interposizione commerciale (anche se Amazon come gli altri top player rimangono dei grossisti on-line) ma il supporto digitale offre l’illusione di una rapporto diretto. Ovviamente quando l’intera distribuzione di una gamma di beni ad alto valore aggiunto viene gestita direttamente dalla società produttrice assistiamo al noto passaggio degli anni ’80-‘90 dal dettaglio indipendente ai flag ship, poi diventati vere e proprie catene gestite dall’azienda stessa.

    Tornando al tema dell’impatto ambientale l’e-commerce gode della considerazione dell’intero mondo politico, accademico e degli economisti che non valutano con obiettività il costo ambientale legato alla parcellizzazione dei flussi delle merci. Esattamente come nel passato si era sposata la filosofia dei centri commerciali e delle grandi catene a discapito del dettaglio indipendente, salvo poi trovarsi con centri storici desertificati e bui dimostrando, ancora una volta, come sia necessario valutare l’innovazione nella sua articolata applicazione e gli stessi effetti complessivi.

    All’interno di un mercato competitivo nel quale i Big Player dell’e-commerce avviano politiche di incentivazione sempre più estreme anche attraverso la possibilità di resi gratuiti, nel solo 2018 i returns (la merce resa dopo averla ricevuta e provata) hanno toccato il valore di 369 miliardi di dollari, circa il 10% dell’intera movimentazione legata all’e-commerce.

    Per il 2020 la previsione indica la possibilità di raggiungere circa 550 miliardi di dollari di returns (450 mld di euro) in quanto il 39% delle persone in fascia di età dai 25 i 39 anni ha dichiarato di acquistare on-line con la sola intenzione di provare e successivamente rendere la merce dopo averla magari indossata per una paio di giorni. Questa movimentazione continua di pacchi e vettori, specialmente nell’ultimo tratto, il cosiddetto last Mile (il furgone che porta a casa del singolo consumatore il prodotto), risulta fondamentale nella creazione di un impatto ambientale assolutamente incalcolabile tale da diventare la prima causa, negli Stati Uniti, di inquinamento superando persino le centrali di produzione di energia.

    Questi dati offrono l’occasione per delle osservazioni e considerazioni.

    La prima, forse la più banale, è relativa al fatto che ogni evoluzione, per sua stessa natura, presenta dei costi indipendentemente dalla propria natura. Al tempo stesso emerge evidente come il concetto di impatto zero rappresenti l’indicazione di un percorso più che un traguardo da raggiungere anche in un mondo caratterizzato dalla continua e sempre più veloce innovazione tecnologica.

    La seconda, e sicuramente la più preoccupante, riguarda l’incapacità da parte della classe dirigente e politica di comprendere come le evoluzioni di per sé risultino certamente inevitabili ma contemporaneamente presentino  sempre un costo anche in termini di sostenibilità.

    Infine, proprio nell’ottica di una sostenibilità diffusa, riconsiderando i parametri di questa evoluzione come la loro applicazione allora, la distribuzione tradizionale ancora oggi non ha alcun concorrente che sia in grado di superare il proprio basso impatto ambientale. Quindi digitalizzazione ed innovazione rappresentano della tappe inevitabili del nostro mondo come dell’economia sia produttiva che distributiva.

    In considerazione, però, della rinnovata attenzione alla sostenibilità ambientale non si dovrebbe commettere l’errore di valutare solo l’aspetto innovativo escludendo le conseguenze per l’ambiente legate ai nuovi comportamenti che da tale innovazione scaturiscono. Nello specifico la distribuzione tradizionale impatta in modo molto minore nel contesto ambientale e meriterebbe una attenzione maggiore anche in funzione del servizio che offrono ai centri cittadini. In altre parole, l’evoluzione legata all’innovazione meriterebbe la stessa valutazione complessiva che viene riservata al mondo reale nella quale si inserisce. Al tempo stesso il concetto di eco sostenibilità non può assolutamente risultare limitato alla diminuzione dei tempi di risposta al mercato (time to market) ma andrebbe valutato in rapporto alla modifica dei comportamenti dei consumatori mondiali (https://www.ilpattosociale.it/2019/09/02/la-sostenibilita-complessiva-il-made-in-italy-e-lesempio-biellese/).

    In fondo la digitalizzazione dell’economia se non introduce una reale ottimizzazione nei flussi commerciali e di persone rappresenta una mera evoluzione della conoscenza con un conseguente modello di consumo.

  • La multicanalità distributiva

    Il mantra più recente che viene proposto alle aziende della filiera Tessile/Abbigliamento in ogni convegno nell’ultimo periodo parte dalla centralità del concetto della multicanalità.

    Alla fine degli anni novanta ricordo perfettamente che molte delle aziende, anche forti di una posizione di leader sul mercato, affermavano in via “informale” come ormai anche loro avessero percepito come una parte della battaglia nata dalla concorrenza si sarebbe trasferita a livello commerciale. L’affermazione dell’e-commerce successiva ha confermato in modo più chiaro i termini della “battaglia commerciale” stessa che vede contrapposti il dettaglio indipendente ed il supporto digitale in un contesto, va ricordato, di continuo calo dei consumi. In questo quadro emerge la “nuova strategia” comune imperniata nel mantenere la multicanalità da parte delle aziende con il fine evidente di non perdere neppure una vendita e soprattutto di evitare  delle scelte strategiche a danno di un qualsiasi canale distributivo. La ricetta che può risultare la più ovvia ma soprattutto non “impegnativa” sotto il profilo commerciale tuttavia presenta delle scelte implicite ed economiche importanti. In relazione, per esempio, alle piattaforme commerciali online per rispondere alle diverse esigenze del singolo consumatore dislocato nel mondo globale è evidente come sia fondamentale disporre di un uno o più magazzini, eventualmente dislocati presso i gestori della piattaforma distributiva on-line. Questo evidentemente comporta  una estrema difficoltà nel programmare la produzione specialmente qualora delocalizzata in paesi a basso costo di manodopera in quanto non più determinata e soprattutto programmata in base agli ordini del dettaglio indipendente.

    A queste difficoltà organizzative si aggiunge  un conseguente aggravio di costi per l’azienda stessa dei quali non viene fatta menzione nelle dotte elaborazioni relative alla multicanalità la quale (nella illusione  complessiva e collettiva ora imperante) dovrebbe venire compensata dai minori costi commerciali legati alle politiche del Sell in e del Sell out .

    Contemporaneamente la scelta di un sistema distributivo multicanale già adottata da molte aziende presenta come legittima conseguenza nell’immediato futuro la perdita della forza contrattuale e conseguentemente di parte delle pretese nei confronti del dettaglio indipendente (minimi d’ordine/possibilità di reso/etc.). Queste vecchie condizioni, infatti, imposte alla rete distributiva da parte delle aziende erano espressione di una attenta distribuzione dei prodotti in rapporto al territorio e al consumatore finale, quindi di una politica commerciale fatta di scelte strategiche.

    Ora, invece, se la politica aziendale abbracciasse la multicanalità sarebbe evidente il venir meno, in parte o completamente, di ogni tipo di potere contrattuale nei confronti della distribuzione, logica conseguenza di questa articolata politica distributiva la cui sintesi è nella individuazione di un nuovo quadro, espressione della  realtà distributiva che vede contrapposti soggetti diversi.

    Potrà anche essere un effetto paradossale ma la multicanalità così come viene intesa non dovrebbe portare alla desertificazione del dettaglio indipendente ma ad un nuovo rapporto di collaborazione distributiva tra reti commerciali, fisiche, digitali e aziende produttrici. Questa complessa realtà distributiva ovviamente comporta un aggravio di costi per l’azienda stessa così come una perdita di capacità di organizzazione della produzione delle quali dotti consulenti convinti che questa sia la scelta più semplice non tengono in alcuna considerazione il non indifferente aggravio di costi.

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