dollari

  • Trump e debiti Usa

    Un quarto del debito pubblico statunitense, pari circa a 7800 miliardi di euro, ottomilacinquecento in dollari, è, secondo i dati del dipartimento del tesoro americano elaborati nel 2024, detenuto da investitori stranieri.

    Il primo Paese straniero detentore dei debiti USA è il Giappone, seguito da Cina, Regno Unito, Lussemburgo; anche l’Irlanda detiene 374 miliardi di dollari di debito statunitense e pure Belgio e Francia detengono importi analoghi.

    Quanto giocheranno i problemi che i dazi voluti da Donald Trump procureranno su questa situazione del debito pubblico americano detenuto per un quarto proprio dai Paesi che saranno colpiti dai dazi e che di conseguenza subiranno delle ripercussioni negative?

    Il presidente americano che ha intrapreso questa nuova strada con la quale sembra volersi contrapporre a più di mezzo mondo, creando situazioni di grave frizione anche con Paesi storici alleati degli Usa, avrà valutato anche questa situazione e le sue possibili conseguenze?

  • Fallimento programmato e preoccupante di una ‘riforma’

    Per i cittadini le leggi si applicano, per gli amici si interpretano, per alcuni si eludono.

    Giovanni Giolitti

    Era il 4 settembre 1961 quando il Congresso statunitense approvò il Foreign Assistance Act (la Legge sull’Assistenza estera; n.d.a.). Dopo quell’approvazione l’allora presidente democratico degli Stati Uniti d’America, John Fitzgerald Kennedy, firmò un ordine esecutivo con il quale si ufficializzò la costituzione dell’USAID (United States Agency for International Development – Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale; n.d.a.). Si trattava di un’agenzia che doveva gestire tutti gli aiuti internazionali statunitensi per vari Paesi del mondo. Aiuti che fino ad allora facevano parte del “Piano Marshall” per la ripresa, la ricostruzione dell’Europa occidentale. Il piano è stato annunciato pubblicamente il 5 giugno 1947 dall’allora Segretario di Stato George Marshall, dal quale prese anche il nome.

    USAID, dalla sua costituzione e fino a pochi giorni fa, ha gestito ingenti somme miliardarie per finanziare diversi progetti e programmi di assistenza in veri campi ed in molti Paesi del mondo. Da fonti ufficiali, risulterebbe che solo durante l’anno fiscale 2023 USAID ha gestito più di 40 miliardi di dollari. Si tratta di finanziamenti erogati per attuare progetti ideati da raggruppamenti politici della sinistra. Ragion per cui l’attuale presidente degli Stati Uniti d’America durante la sua campagna elettorale, nell’ambito della sua ormai nota strategia MAGA (Make America Great Again – Rendiamo l’America di  nuovo grande; n.d.a.), aveva promesso la sospensione e anche l’annullamento dei finanziamenti per simili progetti. Promesse che ha mantenuto già dal primo giorno del suo insediamento, quando ha firmato il decreto del congelamento, per 90 giorni, di tutti i finanziamenti e gli aiuti degli Stati Uniti per altri Paesi. Finanziamenti quelli che devono essere riallineati con le priorità del programma del presidente statunitense. E tra quei finanziamenti c’erano anche quelli gestiti dall’USAID.

    Lunedì scorso, 3 febbraio 2025, il presidente Trump ha dichiarato ai giornalisti che USAID doveva essere chiusa “molto tempo fa”. Lui ha altresì dichiarato che l’USAID “è gestita da un gruppo di pazzi estremisti di sinistra radicali.[…]. Li faremo andar via e poi prenderemo una decisione”. E già dal 1o febbraio scorso molti dirigenti dell’agenzia sono stati avvisati di essere messi in congedo forzato, mentre alcuni altri sono stati licenziati. Il 4 febbraio scorso il presidente Trump ha incaricato il Segretario di Stato come dirigente ad interim dell’USAID. Il Segretario di Stato, dopo il suo incarico, ha dichiarato che verranno fatte delle analisi e delle verifiche sui finanziamenti e l’operato dell’USAID. E per ogni finanziamento saranno fatte tre domande: “Rende l’America più sicura? Rende l’America più forte? Rende l’America più prospera?”. Sì, perché i nuovi dirigenti del Dipartimento di Stato sono convinti che “…l’agenzia si è da tempo allontanata dalla sua missione originale di promuovere con responsabilità gli interessi americani all’estero”.

    Uno dei Paesi che, dopo la caduta del regime comunista, ha beneficiato dei finanziamenti dell’USAID è anche l’Albania. Finanziamenti ai quali, quasi sempre, sono stati aggiunti quelli fatti dalla Fondazione per la Società Aperta (Open Society Foundations; n.d.a.), fondata nel 1993 da George Soros, il multimiliardario, speculatore di borsa statunitense e l’ideatore, tra l’altro, del “Mercoledì nero” nella Borsa di Londra del 16 settembre 1992. Sono stati dei finanziamenti che hanno sostenuto progetti di vario genere, tra cui anche quelli per la democratizzazione del Paese, dopo quarantacinque anni sotto una spietata dittatura comunista. Ma, durante questi ultimi dieci anni, la maggior parte dei finanziamenti del USAID e quelli della Fondazione per la Società Aperta, sono stati devoluti alla consultazione e alla stesura della riforma del sistema della giustizia in Albania, approvata all’unanimità, nelle primissime ore del 22 luglio 2016, dal Parlamento albanese.

    Si tratta di una riforma che, da allora, fatti accaduti e che stanno accadendo alla mano, non ha mai raggiunto gli obiettivi dichiarati sulla carta. Obiettivi che dovevano garantire il funzionamento del sistema della giustizia, in base al principio della separazione dei poteri di Montesquieu. E cioè doveva essere uno dei tre poteri separati ed indipendenti, insieme con il potere legislativo e quello esecutivo. Ma che, invece, è stata una “riforma” che ha garantito al primo ministro albanese il suo personale controllo del sistema. E da quanto sta pubblicamente emergendo durante questi ultimi giorni, risulta che tutti i “consiglieri” della “riforma” del sistema della giustizia, stranieri e albanesi, sono stati pagati dai finanziamenti sia dall’USAID che dalla Fondazione per la Società Aperta, proprio per rendere possibile un simile controllo. Una “riforma” quella che risulta essere stata un fallimento ideato, voluto e programmato da coloro che lo hanno finanziato e da colui che ne doveva beneficiare, il primo ministro albanese.

    Durante la scorsa settimana, dopo la sospensione dei finanziamenti dell’USAID, sono state rese pubblicamente note molte informazioni, ricavate da documentazioni ufficiali, che confermano, senza equivoci, proprio il vero obiettivo della “riforma” del sistema della giustizia. Dalle stesse documentazioni risulterebbe che sono stati finanziati ingenti somme per il diretto e permanente coinvolgimento di alcune organizzazioni locali molto vicine al primo ministro. Oltre alla struttura rappresentante in Albania della Fondazione per la Società Aperta, un’altra organizzazione locale, la cui direttrice è stata una ex compagna del primo ministro ed ormai compagna dell’ex ministro degli Interni ed attualmente capo del gruppo parlamentare del partito socialista, capeggiato proprio dal primo ministro, ha “fortemente contribuito” per rendere attiva la “riforma” del sistema della giustizia in Albania. Si tratta dell’organizzazione non governativa East West Management Institute (Istituto della Gestione Est – Ovest; n.d.a.), la cui direttrice ha ricevuto per molti anni, e fino alla scorsa settimana, ingenti finanziamenti proprio dall’USAID. Dalla documentazione ufficiale risulta che la sua organizzazione ha ricevuto, solo durante l’ultimo anno fiscale, 31.2 milioni di dollari. In più, sempre in base alla documentazione ufficiale, dall’inizio dell’attuale anno fiscale e cioè dall’ottobre scorso, e fino alla scorsa settimana, l’organizzazione ha ricevuto circa 10 milioni di dollari dall’USAID. La stessa direttrice ha dichiarato ufficialmente di aver avuto, mediamente, uno stipendio di 100 mila dollari all’anno sempre dagli stessi finanziamenti. E ovviamente nessuno può mettere in dubbio il “valoroso contributo” dell’organizzazione da lei diretta, nell’ambito della “riforma” del sistema della giustizia in Albania.

    Il nostro lettore da anni è stato continuamente informato della totale ubbidienza delle strutture del sistema “riformato” della giustizia agli ordini e alla volontà del primo ministro albanese. Così come è stato informato che il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d’America ha conferito, il 9 dicembre scorso, il premio “Campioni Globali dell’Anticorruzione per il 2024” anche al dirigente della Struttura speciale contro la Corruzione e la Criminalità organizzata. Una delle persone che ubbidisce in una maniera vergognosa ed in violazione delle leggi in vigore agli ordini del primo ministro (Riconoscimenti irreali e ingannevoli che offendono l’intelligenza; 16 dicembre 2024). Tutto grazie alle attività lobbistiche finanziate dalla Fondazione per la Società Aperta.

    Chi scrive queste righe è convinto che si tratta di finanziamenti occulti che hanno appoggiato un autocrate ed il suo regime, nonché il fallimento programmato e preoccupante di una “riforma”, quella del sistema della giustizia in Albania. Aveva ragione Giovanni Giolitti: per i cittadini le leggi si applicano, per gli amici si interpretano, per alcuni si eludono.

  • I “banchieri clandestini” cinesi accusati di favoreggiamento del cartello messicano

    Una rete cinese di “banche clandestine” aiuta il potente cartello messicano della droga di Sinaloa nel riciclaggio di denaro e altri crimini. E’ questa l’accusa con la quale il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti (DoJ) ha accusato 24 persone di reati che includono anche la distribuzione di narcotici.

    Le forze dell’ordine hanno sequestrato circa 5 milioni di dollari (4 milioni di sterline) di proventi, oltre ad armi e centinaia di chili di cocaina, metanfetamine e pillole di ecstasy.

    Il Dipartimento di Giustizia ha sottolineato la stretta collaborazione con le forze dell’ordine messicane e cinesi, un messaggio che ha trovato eco anche da parte cinese.

    Gli Stati Uniti accusano il cartello di Sinaloa di aver contribuito ad alimentare un’epidemia mortale inondando il paese di fentanyl, un oppioide sintetico fino a 50 volte più potente dell’eroina, ed ha evidenziato come più di 50 milioni di dollari siano transitati clandestinamente tra i membri della banda di Sinaloa e i gruppi cinesi.

    Gli ‘scambi’ venivano utilizzati dagli agenti di Sinaloa per spostare il denaro acquisito illegalmente dagli Stati Uniti al Messico, gli scambi cinesi offrono un “mercato pronto” per la valuta statunitense, ha affermato il DoJ, spiegando che alcuni cittadini cinesi vogliono “alternative informali” al sistema bancario convenzionale perché il governo di Pechino pone un limite alla quantità di denaro che possono ritirare dalla Cina.

    Una dichiarazione di Pechino, citata dall’agenzia di stampa AFP, sembra confermare la stretta collaborazione con gli Stati Uniti, affermando che le autorità locali hanno arrestato un sospettato di riciclaggio di denaro.

    Gli Stati Uniti accusano da tempo la stessa Cina di inondare il Paese con farmaci mortali come il fentanyl, un’accusa che la Cina nega. Nel 2022 più di 70.000 americani sono morti per overdose di fentanyl e Washington afferma che gli oppioidi di produzione cinese stanno alimentando la peggiore crisi della droga nella storia del paese.

  • Crac di banche regionali Usa

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su ItaliaOggi il 15 febbraio 2024

    Dopo il collasso di tre istituti di credito regionali statunitensi nel marzo scorso, il settore è di nuovo sotto stress. Infatti, in un solo giorno le azioni della New York Community Bank (Nycb) sono crollate del 38%, dopo aver riportato una perdita di 252 milioni di dollari nell’ultimo trimestre.

    Anche l’indice bancario regionale Kbw è sceso del 6%, il suo più grande calo giornaliero da maggio. Non sono crolli improvvisi e momentanei. Le perdite sono continuate, colpendo altre banche regionali, tra cui la Bank of California, la BankUnited con base in Florida, la Western Alliance Bank dell’Arizona, la Bank OZK dell’Arkansas e la Valley National Bank del New Jersey.

    È utile ricordare che in queste situazioni c’è sempre una certa speculazione che soffia sul fuoco. Si stima che chi ha scommesso sul crollo delle azioni delle banche regionali abbia registrato profitti per 685 milioni di dollari in un giorno! Perciò gli investitori e le autorità di regolamentazione sono di nuovo in allerta.

    Una delle cause sarebbe l’esposizione al mercato immobiliare commerciale che è da tempo in difficoltà. Ci sarebbero state delle grosse perdite sui prestiti immobiliari concessi. Le banche sono state e sono costrette ad accantonare cospicui fondi per coprire eventuali perdite.

    C’è anche una nefasta eredità lasciata dalla pandemia: il valore di molti immobili, infatti, sarebbe crollato poiché milioni di lavoratori sono ancorati al lavoro a distanza, lasciando gli uffici vacanti o sottoutilizzati. Ancora una volta, però, è soprattutto l’alto tasso d’interesse della Federal Reserve al 5,5% a mettere in difficoltà molte banche, colme di titoli Treasury in perdita, e a rendere difficile il pagamento dei prestiti accesi dagli investitori immobiliari. Anche la recente decisione del governatore Jerome Powell di non ritoccare al ribasso i tassi ha dato una spallata al mercato.

    Vi è poi la richiesta da parte della Federal deposit insurance corporation (Fdic) alle banche di riempire i suoi fondi svuotati per i salvataggi fatti la scorsa primavera. La Fdic è l’agenzia indipendente del governo Usa che garantisce i depositi fino a 250 mila dollari. Si stima che le banche regionali americane dovrebbero versarle almeno 500 milioni di dollari. Inoltre, per sopravvivere, molte banche regionali starebbero portando avanti numerose operazioni di fusione/acquisizione e ciò renderebbe il mercato più instabile, volatile.

    La crisi immobiliare americana sta mettendo, com’era prevedibile, in serie difficoltà anche alcune banche europee, canadesi e giapponesi esposte sul mercato immobiliare statunitense. Al riguardo, la banca privata svizzera, gestore patrimoniale, Julius Baer, ha registrato forti ribassi dei suoi profitti e altre banche maggiori, come la Deutsche Bank, hanno dovuto accantonare delle riserve extra per far fronte a eventuali perdite su investimenti immobiliari americani.

    Anche i salvataggi fatti lo scorso anno hanno lasciato dei buchi irrisolti. Ad esempio, la Nycb ha registrato delle difficoltà a seguito dell’acquisizione di prestiti per un valore di 13 miliardi di dollari dalla Signature Bank di New York, uno dei tre istituti di credito falliti lo scorso anno. Molte banche regionali lamentano rilevanti diminuzioni del loro cosiddetto net interest income (nii), che è la differenza tra quanto esse guadagnano sui prestiti concessi e gli interessi pagati sui depositi. Per riuscire a trattenere i depositi dei clienti in fuga e in cerca di compensi più alti, esse hanno dovuto alzare gli interessi offerti.

    In un recente discorso, Michael J. Hsu, presidente dell’Office of the Controller of the Currency (Occ), l’agenzia federale di vigilanza bancaria, ha analizzato le crisi bancarie del 2023 evidenziando tre grandi problematiche: la «fuga dei depositi» non assicurati è sempre più veloce; mantenere degli asset liquidi non è sufficiente in caso di grave stress; il contagio colpisce le grandi banche anche in mancanza di un loro rapporto diretto con quelle regionali in crisi. Si ricordi che nella Silicon Valley Bank, il cui fallimento è stato il secondo più grande della storia Usa, il 90% dei depositi non erano assicurati e, al sorgere della crisi, in precipitosa fuga.

    Hsu ha inoltre riportato che la Fdic evidenzia che i depositi non assicurati sono aumentati del 10% annuo, passando dai 2.300 miliardi di dollari del 2009 ai 7.700 miliardi del 2022. Molte più banche si basano su depositi non assicurati.

    Inoltre, le banche, che sono visionate dall’Occ, hanno 12.000 miliardi di dollari di depositi, il 40% dei quali, pari a 4.800 miliardi, è senza l’assicurazione della Fdic.

    In altre parole, il sistema bancario americano è seduto su una bomba a orologeria. In caso di stress o di crisi, i «run», cioè le fughe dei depositanti dalle banche, diventerebbero incontrollabili. Continuiamo a pensare che il G20 debba affrontare il tema di una riforma radicale del sistema che non riguarda soltanto gli Usa.

    * già sottosegretario all’Economia ** economista

  • Gli Usa piegati dagli interessi

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su ‘ItaliaOggi’ il 18 novembre 2023

    Le guerre e gli scontri geopolitici in corso hanno oscurato certe preoccupanti tendenze economiche negli Usa e anche nel resto del mondo. Non hanno cancellato le realtà. Basti osservare attentamente gli andamenti finanziari di oltre oceano. L’agenzia di stampa Bloomberg stima che a fine ottobre 2023, il pagamento degli interessi sul debito pubblico federale, calcolato su 12 mesi, ha raggiunto circa 1.000 miliardi di dollari. Il livello annualizzato degli interessi pagati è raddoppiato rispetto alla fine di marzo 2022.

    È l’effetto combinato del Quantitative Easing e dell’immissione di liquidità, con i quali la Federal Reserve ha sostenuto il sistema durante la crisi pandemica, e poi con i successivi aumenti del tasso di sconto per contenere l’inflazione, prodotta in parte proprio dal QE. Il governo americano pagherà più interessi sul debito anche rispetto alle già stratosferiche spese militari!

    Nell’anno fiscale 2023, che è terminato il 30 settembre, il deficit di bilancio è stato di 1.700 miliardi di dollari, un aumento di 320 miliardi, cioè il 23% in più rispetto a quello dell’anno fiscale precedente. La gran parte di quest’aumento si deve alla crescita di ben 184 miliardi per interessi sul debito. Sarebbe stato di 2.000 miliardi se la Corte Suprema non avesse bloccato il programma di cancellazione del cosiddetto “debito degli studenti”. Il debito pubblico ha superato 26.200 miliardi, con un aumento di circa 2.000 miliardi rispetto al 2022. A ciò ha contribuito molto la diminuzione delle entrate di ben 457 miliardi, dei quali 456 sono meno tasse sui redditi dei cittadini. Altro che ripresa, è una realtà amara per la maggioranza della popolazione americana.

    Gli alti tassi d’interesse hanno reso i prestiti più costosi, aumentando così la pressione anche sul debito americano. Oggi i Treasury bond a 10 anni hanno un tasso di interesse di quasi 5 %, tre volte il livello di due anni fa! Nei mesi scorsi l’aumento dei tassi ha mandato a gambe all’aria parecchie banche regionali che erano piene di titoli pubblici a basso rendimento. La crescita dei tassi è andata di pari passo con l’inflazione. Adesso si afferma che quest’ultima sarebbe scesa al 3%. Molti si affidano alla smorfia napoletana per “indovinare” quali saranno i tassi futuri dei T-bond.

    Questa situazione rischia di generare un permanente stato d’instabilità del bilancio federale. Il rischio di un shutdown al primo di ottobre era stato evitato all’ultimo minuto con un accordo bipartisan alla Camera dei deputati. Per legge, le agenzie federali devono far approvare dal Congresso i programmi di spesa per spendere i soldi. Il shutdown implica la sospensione di numerose operazioni del governo federale per mancanza di soldi, con effetti negativi sui lavoratori pubblici, sull’economia e sull’intera cittadinanza.

    Senza nuovi accordi, il prossimo 17 novembre ci potrebbe essere un nuovo shutdown. Probabilmente sarà ancora una volta evitato, ma queste montagne russe per il bilancio federale non sono un bel biglietto da visita per il resto del mondo.

    A giugno scorso fu evitato il default con un accordo bipartisan, il “Fiscal Responsibility Act of 2023”, che sospende il fatidico tetto del debito federale fino al primo gennaio 2025. L’accordo prevede un limite di spesa discrezionale di 1.590 miliardi di dollari per due anni. In altre parole, il governo può prendere prestiti e spendere di più di quanto fissato nel bilancio federale. La ragione della crisi era dovuta al fatto che già in gennaio si era raggiunto il tetto del debito previsto per il 2023 di 31.400 miliardi. L’agonia fu protratta fino a giugno con “misure straordinarie” di carattere amministrativo-finanziario.

    Persino due agenzie di rating americane, Standard &Poor’s e Fitch, da sempre molto generose nei confronti dei titoli americani, hanno dovuto ritoccare al ribasso il loro rating circa la capacità di ripagare il debito. Gli Usa hanno perso la tripla A, il massimo dei rating, e ciò potrebbe avere un effetto sia sul costo del debito sia sulla propensione degli investitori a fare prestiti al governo federale. Moody’s ha invece confermato la tripla A ma con un outlook da stabile a negativo.

    Gli Usa guardano avanti e si aspettano che in dieci anni il debito federale sarà di 52.000 miliardi di dollari. Per il momento sembrano voler ignorare le cause profonde delle crisi, della finanza speculativa, delle banche too big to fail, dello shadow banking per concentrasi, invece, sul taglio delle spese sociali di bilancio e sull’aumento delle tasse. Non offrono nessuna idea nuova per affrontare i problemi succitati e i loro riverberi negativi in tutto il mondo, a partire dall’Europa.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • Agenzie di rating Usa farlocche

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su ‘ItaliaOggi’ il 28 marzo 2023

    Serve chiarezza. Dietro le recenti bancarotte negli Usa ci sono altri motivi di preoccupazione. In primo luogo il fallimento delle autorità di sorveglianza, a cominciare dalla Federal Reserve: il loro mancato intervento è dovuto al fatto che esse erano pienamente consapevoli che le loro politiche monetarie altalenanti, interessi zero prima e aumento dei tassi poi, avrebbero messo sottosopra il sistema bancario. Hanno ritenuto, erroneamente, che astenersi fosse la seconda tra le peggiori possibilità. La prima sarebbe stata continuare con le politiche di poderose iniezioni di liquidità fino a far esplodere la bolla.

    Il governo e le autorità bancarie, quindi, non sono stati colti di sorpresa. Erano pronti a nuovi interventi di salvataggio dell’intero sistema. Meglio intervenire dopo il fallimento di una banca regionale che di una too big to fail (troppo grande per fallire).

    C’è stato, infatti, un barrage di interventi. Si è creata una Bank Bailout Facility attraverso la quale il governo concede dei prestiti alle banche. La Fed ha annunciato un “discount window”, uno sportello, dove attingere a prestiti di emergenza a basso costo. Sotto la guida della Fed e del Tesoro, sei grandi banche, JP Morgan, Wells, Citi, Bank of America, Goldman Sachs e Morgan Stanley, si sono accordate per mettere a disposizione 30 miliardi di dollari per la First Republic Bank. Non sono bastati, però, a fermare il crollo. Anche la Federal Deposit Insurance Corporation, l’agenzia di protezione finanziaria, è entrata in campo per garantire i depositi fino a 250 mila dollari. Si tenga presente, però, che il suo fondo coprirebbe soltanto il 2% dei 9.600 miliardi di dollari di depositi assicurati.

    È in atto anche una narrazione che cerca di distogliere l’attenzione dalle banche too big. Si parla insistentemente dei rischi di insolvenza delle banche regionali e delle cosiddette saving and loans banks, quelle che raccolgono i risparmi e poi concedono prestiti alle imprese locali e alle famiglie.

    Indubbiamente non si possono negare le loro difficoltà attuali, create proprio dagli andamenti dei tassi d’interesse. Si ricorderà che una crisi simile, ma in una situazione di differente gravità sistemica, era avvenuta già negli anni Ottanta, sempre per effetto della crescita vertiginosa dei tassi d’interesse da parte della Fed.

    È comunque da ingenui ritenere che le banche regionali siano delle entità totalmente indipendenti rispetto alle 20 maggiori banche Usa, cosiddette, sistemiche. Secondo JP Morgan nell’ultimo anno le banche più piccole avrebbero perso 1.100 miliardi di dollari in depositi che sono stati trasferiti in quelle più grandi.

    C’è anche un’altra narrazione che vorrebbe le banche europee, e non quelle americane, essere nell’occhio del ciclone.

    Certamente, dopo la crisi del Credit Suisse e le gravi fibrillazioni della Deutsche Bank (DB), non si può negare che il sistema bancario europeo sia in crescente difficoltà.

    Noi non ci siamo mai stancati di denunciare i comportamenti rischiosi di DB, superstar dei derivati otc. Ma non si può nemmeno dimenticare che il sistema bancario europeo sia entrato in acque agitate proprio per aver copiato i metodi speculativi di quello americano e della City inglese.

    E’ doveroso anche notare il macroscopico errore delle agenzie di rating, le note imprese americane private. Fino al giorno prima del fallimento della Silicon Valley Bank, Moody’s le garantiva il voto di A3 e Standard & Poor’s (S&P) le dava un rating un po’ inferiore di Bbb. Certamente erano lontani dalle triple A elargite a piene mani prima della bancarotta della Lehman Brothers. I titoli della Svb, però, erano considerati “investment grade”, cioè degni di investimento e perciò non speculativi.

    Si noti che, anche rispetto al fallimento della First Republic Bank, le agenzie di rating S&P e Fitch hanno inserito la banca tra le imprese “junk”, spazzatura, solo dopo gli interventi di salvataggio. Nelle prospettive bancarie globali per il 2023, la S&P afferma che il settore bancario statunitense è in buona salute e che il rischio è in calo. Per la Moody’s le prospettive sarebbero stabili, sebbene avvertisse venti contrari in un’economia in rallentamento.

    Si tratta di gravi sottovalutazioni, a discapito dei risparmiatori e degli onesti investitori. Si persegue un comportamento, a dir poco incompetente e inadeguato, già emerso prepotentemente nel 2001 alla vigilia del fallimento della Enron, il gigante americano dell’energia, e poi nella Grande Crisi del 2008. Dal 2001 il Congresso americano ha portato avanti varie iniziative di riforma che, però, non hanno indotto le agenzie di rating a un comportamento più corretto.

    Si dovrebbe tenerlo presente quando esse pontificheranno sulla situazione economica e finanziaria dell’Italia. In passato, purtroppo, si è sempre tenuto un atteggiamento troppo supino.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • Fallimento Silicon Valley Bank

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su ‘ItaliaOggi’ il 15 marzo 2023

    Quando il sistema finanziario è schiacciato dalle bolle causate dai debiti è da irresponsabili portare le banche sulle montagne russe. Ciò che ha fatto la Federal Reserve ieri e sta facendo oggi. Il risultato più evidente è il fallimento della Silicon Valley Bank (Svb) di Santa Clara in California. Tutti ci auguriamo che non diventi l’inizio di un nuovo collasso finanziario globale come nel 2008.

    Durante il periodo del tasso d’interesse zero e dei quantitative easing molte imprese, anche quelle zombie, come la Banca dei regolamenti internazionali di Basilea definisce quelle in condizione quasi fallimentari, hanno ottenuto notevoli volumi di nuovi crediti dalle banche, anche di medie dimensioni. Adesso hanno grandi difficoltà nel pagamento del servizio sul debito.

    A loro volta, le banche hanno convenientemente acquistato grandi quantità di titoli di Stato, in particolare Treasury bond della durata di 10 anni, che pur con un rendimento modesto, rappresentavano una garanzia di stabilità, senza rischi e un interessante profitto rispetto allo zero assoluto. Il repentino e continuo aumento dei tassi d’interesse da parte della Fed, combinato con gli annunci di nuovi rialzi dei tassi per lunghi periodi futuri, sta stravolgendo i meccanismi finanziari. Per esempio, le obbligazioni del Tesoro a scadenza 1 e 2 anni offrono adesso interessi maggiori di quelle della durata di 10 anni emesse in passato. Una cosa irragionevole e destabilizzante.

    Il problema è sistemico, poiché il settore bancario ha in pancia una montagna di asset a basso rendimento, e sta peggiorando con l’aumento del tasso d’interesse della Fed.

    La Svb è la banca in cui la maggior parte dei clienti sono società tecnologiche start up che depositano i prestiti ottenuti dal cosiddetto venture capital, cioè quei gruppi che finanziano i loro lavori in cambio di un ritorno futuro, quando i risultati e le nuove tecnologie saranno realizzati. I loro investimenti sono delle scommesse. L’aumento dei tassi d’interesse ha, tra l’altro, ridotto i flussi finanziari da parte del venture capital. Di conseguenza le start up hanno usato sempre più i loro depositi presso la Svb. Quest’ultima, già sotto pressione, ha aumentato notevolmente la vendita dei titoli in perdita. Caso emblematico è quello delle obbligazioni decennali che rendono meno di quelle annuali.

    Quando la Svb ha annunciato l’intenzione di mettere sul mercato 2,25 miliardi di dollari in nuove azioni per sostenere il proprio bilancio, la «bomba» è esplosa, provocando una corsa agli sportelli, sia in forma telematica sia fisica. Per evitare il panico, la Federal Deposit Insurance Corporation (Fdic), l’agenzia governativa indipendente che assicura i depositi bancari e sovrintende alle istituzioni finanziarie, è subito intervenuta garantendo i depositi fino a 250 mila dollari e altre misure di sostegno per le parti non assicurate.

    La Svb non è una too big to fail, troppo grossa per poter essere lasciata fallire, ma nemmeno una «banchetta». È la 16sima del sistema bancario americano. Ha un patrimonio pari a 212 miliardi di dollari. Si tratta del secondo più grande fallimento bancario nella storia degli Usa, dopo la bancarotta della Washington Mutual, con asset pari a 318 miliardi, avvenuto nel settembre 2008, all’inizio della grande crisi finanziaria.

    È da tener presente che questo default non avviene in un mare calmo ma nelle tempeste provocate anche dal collasso del mercato delle cripto valute. Infatti, un’altra banca, la Signature Bank di New York, che conta molti depositi in cripto valute, e un patrimonio di 110 miliardi di dollari, è fallita dopo aver subito un crollo nel valore delle sue azioni e delle sue obbligazioni. Si tratta della terza bancarotta bancaria più grande nella storia americana.

    All’inizio di marzo anche la Silvergate Capital Corp., una piccola banca di San Diego legatissima alle cripto valute e con un patrimonio di 14 miliardi di dollari, è fallita. Le decisioni della Fed stanno spingendo i mercati a muoversi nel breve e nel brevissimo periodo. Ciò rende il sistema instabile, imprevedibile e ad alto rischio. Le parole che circolano con timore sono «rischio di contagio» e «effetto domino». Infatti, la fibrillazione provocata dalle azioni Svb in caduta libera, è stata grande, tanto che altri titoli bancari sono stati sospesi per evitare una slavina.

    L’andamento dei tassi d’interesse sarà la spada di Damocle sui mercati e sul sistema finanziario e bancario internazionale. D’altra parte, non è un caso che i derivati finanziari over the counter siano concentrati per l’80% del loro valore nozionale totale (630 mila miliardi di dollari) sui tassi d’interesse. Per fortuna c’è Janet Yellen, segretario al Tesoro Usa, che ha espresso fiducia nella resilienza del settore bancario americano. La cosa, però, rassicura solo chi ci vuole credere.

    Nel frattempo la Fed ha iniziato un programma di crediti di emergenza alle banche in difficoltà, come la First Republic Bank, per evitare che vendano i Treasury bond in loro possesso e che abbiano dei fondi extra per far fronte a eventuali ritiri dei depositi da parte dei clienti.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • Usa, debito pubblico eccessivo

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su ‘ItaliaOggi’ l’11 marzo 2023

    Il debito federale americano di 31.381 miliardi di dollari è il limite posto nel bilancio dello Stato per l’anno fiscale che va da ottobre 2022 a settembre 2023. Il tetto è stato già raggiunto il 19 gennaio scorso. Vi saranno problemi per coprire le spese dei prossimi mesi.

    Janet Yellen, segretario del Tesoro, in merito ha annunciato «manovre tecniche» per posporre il default, che «produrrebbe una catastrofe economica e finanziaria». Per evitare la sospensione delle attività e dei pagamenti da parte di vari organismi pubblici si dovrà per forza sfondare il tetto del debito. Non sarà facile, data la composizione del Congresso, con la Camera dei deputati a maggioranza repubblicana.

    In tre anni il debito federale succitato è aumentato di ben 8.500 miliardi! Dal 2009 è quasi triplicato! Il Congress Budget Office, l’agenzia bipartisan che analizza gli andamenti di bilancio, stima che il deficit sarà almeno di 400 miliardi superiore del previsto. Essa aveva anche calcolato interessi sul debito pari a 282 miliardi.

    Nel frattempo, però, l’inasprimento della politica monetaria della Federal Reserve e gli aumenti del tasso d’interesse fanno stimare che il servizio sul debito raggiungerebbe i 400 miliardi di dollari. Se il tasso di sconto della Fed dovesse essere del 5%, com’era nel 2007, gli interessi sul debito potrebbero salire a 1.000 miliardi! Un aumento da non escludere, visto che lo considerano possibile la Fed di San Francisco e anche JP Morgan, la più grande banca americana.

    Alla fine, pensiamo che, come in passato, si troverà un compromesso tra maggioranza e opposizione. Ne va dell’affidabilità internazionale degli Stati Uniti. L’alternativa è dichiarare bancarotta. D’altra parte è difficile immaginare che i ministeri sospendano a lungo le attività, mettendo gli impiegati in cassa integrazione, o che in numerose città e Stati dell’Unione i vigili del fuoco o la polizia possano essere bloccati per mancanza di fondi.

    Si stanno considerando anche nuove e inedite iniziative. C’è chi propone di ripianare il deficit di bilancio coniando monete sonanti fino a un valore di mille miliardi di dollari. L’idea fu già discussa durante la presidenza di Obama. Sarebbe consentito dal 14° emendamento, Sez. 4, della Costituzione che sancisce: «Non potrà essere posta in questione la validità del debito pubblico degli Stati Uniti, autorizzato con legge».

    Chi propone tale soluzione sostiene che non sarebbe inflattiva. Portano l’esempio del presidente Abramo Lincoln che, nel mezzo della guerra civile, fece una simile iniziativa. Allora, dicono, i nuovi soldi andarono a finanziare un periodo di espansione economica senza precedenti, soprattutto nella siderurgia, nelle infrastrutture ferroviarie e nella meccanizzazione dell’agricoltura, con una notevole crescita della produttività. Oggi, invece, ci sembra che ogni nuova liquidità scompaia nel “buco nero” della finanza speculativa.

    C’è anche chi vorrebbe trasferire dalla Fed al Tesoro i titoli federali, circa 6.000 miliardi di dollari, a suo tempo acquistati attraverso i «quantitative easing». Il Tesoro potrebbe, quindi, annullare questa parte del debito. Sarebbe una possibilità legale che richiederebbe ovviamente il consenso del Congresso e della Fed, ma lascerebbe la banca centrale con una voragine nei conti. Oggi, infatti, essa giustifica i passivi di bilancio inserendo detti titoli negli attivi.

    Altra idea è di coniare “monete di platino” per un grande valore, sulla base dell’Articolo 1, Sez. 8, della Costituzione che afferma: «Il Congresso ha il potere… di coniare moneta e regolarne il valore».

    In passato il Congresso ha cercato di limitare questa generale possibilità ma ha lasciato un’eccezione, la moneta di platino, che una disposizione speciale permette di essere coniata in qualsiasi importo per scopi commemorativi. Le monete di platino furono proposte al Congresso già nel 2013 ma senza successo. Tali soluzioni straordinarie appaiono molto fantasiose. Alla fine, la decisione sarà quella molto più semplice di aumentare il debito pubblico. Cosa che, però, ingigantisce la bolla e i rischi connessi.

    Per noi europei è opportuno riflettere sul fatto che negli Usa si discuta su come affrontare le emergenze finanziarie e il problema del debito pubblico. Se si pensa bene, anche i quantitative easing sono stati degli interventi straordinari per evitare il crollo del sistema bancario e finanziario. Hanno, però, stravolto i meccanismi monetari centrali. Tutto “legalmente”!

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • Cina e Arabia sempre più vicine

    Riceviamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su ItaliaOggi il 22 dicembre 2022

    La recente visita del presidente cinese Xi Jinping in Arabia Saudita, con i suoi riverberi commerciali e politici, dimostra, ancora una volta, che la strategia unipolare americana di isolare i potenziali sfidanti e avversari, con l’avallo di un’Europa miope, non funziona.

    La Cina ha siglato importanti accordi di fornitura di petrolio e di gas. E non solo. Negli incontri di Riyad ha rinforzato la partnership e la cooperazione con i Paesi del Golfo produttori di petrolio e con quelli della Lega Araba. Per questa ragione si è parlato di una visita storica.

    La prospettiva, naturalmente, è di far arrivare in queste regioni e nel Mediterraneo la nuova Via della seta, la Belt and Road Initiative (Bri) con tutti i suoi progetti infrastrutturali, tecnologici e industriali.

    Cina e Arabia Saudita hanno firmato un memorandum per coordinare le iniziative economiche della succitata Bri con il programma saudita «Vision 2030» di sviluppo industriale e manifatturiero. Gli accordi prevedono la cooperazione nei settori spaziali, nucleari, missilistici, delle nuove energie come l’idrogeno, e delle grandi infrastrutture tra cui la costruzione di «Neom», una città super moderna da 500 miliardi di dollari.

    Tra i contratti firmati vi è quello con Huawei, il gigante delle telecomunicazioni, che, nonostante l’opposizione americana, ha già degli accordi per la rete 5G con quasi tutti i Paesi del Golfo.

    È, quindi, naturale che la Cina abbia proposto di utilizzare lo yuan nei pagamenti per le forniture di energia e più in generale per gli scambi commerciali. Per i prossimi anni la Cina avrà bisogno di importare, non solo dalla Russia, grandi quantità di petrolio e di gas. D’altra parte, il 72% del petrolio e il 44% del gas consumati in Cina sono importati.

    Nel 2021 il commercio tra Cina e Arabia Saudita è stato di 87,3 miliardi di dollari, con un aumento del 30% rispetto all’anno precedente. Di questi, 44 miliardi sono per il petrolio. Il 25% del petrolio saudita va verso la Cina. Si noti che nel 2021 l’Arabia Saudita era già il primo esportatore di petrolio in Cina, davanti alla Russia.

    Del resto i rapporti economici con la Cina sono in crescita da tempo. Nel 2010 la China Railway Construction Corp. ha costruito una ferrovia di oltre 18 km per trasportare i pellegrini alla Mecca. Più recentemente è stato siglato un accordo di lungo termine sull’energia tra la Sinopec e l’Aramco, le rispettive compagnie petrolifere nazionali.

    In uno studio del Ministero degli esteri cinese «China-Arab cooperation in the new era» si propongono una cooperazione monetaria con le banche centrali della regione e l’uso delle monete nazionali nei pagamenti.

    Dell’utilizzo dello yuan se ne parla da anni. Nel 2018 i cinesi hanno introdotto contratti petroliferi in yuan nel tentativo di internazionalizzare la loro moneta. I sauditi considerano di includere contratti future denominati in yuan nei modelli di formazione del prezzo del petrolio dell’Aramco.

    La supremazia del dollaro rimane, ma fortemente indebolita. Esso è usato nell’80% del commercio mondiale del petrolio. Tutto il petrolio saudita è ancora commerciato in dollari. Nelle riserve monetarie di Riyad vi sono più di 120 miliardi di dollari in Treasury bond americani. Non di meno, è opportuno notare che, dall’inizio del 1990, le importazioni Usa di petrolio dall’Arabia Saudita si sono ridotte a un quarto.

    Molti Paesi, anche alcuni tra gli alleati degli Usa, sono stati fortemente colpiti dal fatto che il sistema finanziario basato sul dollaro sia stato usato come arma di guerra nelle sanzioni contro la Russia, facendo venir meno la certezza di garanzia e di sicurezza.

    È ancora aperta, ma forse per poco, la «window of opportunity», cioè la possibilità di riorganizzare l’intero sistema economico, monetario e commerciale globale su una base moderna e più equa. È necessario però, che gli Usa abbandonino la pretesa primazia unilaterale per preparare con le altre nazioni, a cominciare dai Paesi del Brics, un nuovo Accordo di Bretton Woods. Tale necessità ci sembra sempre più urgente.

    L’Europa potrebbe avere un ruolo centrale in tale iniziativa multilaterale. Lo ripetiamo da tempo: il ruolo dell’Europa non può essere ancillare rispetto agli Usa. Ha tutte le carte in regola per essere protagonista attivo nella realizzazione di un nuovo assetto, multipolare, del mondo. Altrimenti, le tensioni geoeconomiche e geopolitiche potrebbero acuirsi a tal punto da rendere possibile un conflitto catastrofico.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • Il multipolarismo, anche monetario, è una necessità

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi pubblicato su Notiziegeopolitiche.net il 6 luglio 2022

    Parlare di multipolarismo e di assetti geopolitici in grado di garantire un nuovo ordine mondiale è visto con grande sospetto. Al contrario, l’approccio multilaterale è oggi l’unico strumento per affrontare e risolvere in modo pacifico le molte sfide globali, anche quelle riguardanti la sicurezza.
    Per fortuna, proprio mentre spirano forti venti di scontro e di guerra, voci importanti stanno rompendo gli indugi per portare il multipolarismo al centro del dibattito. L’ha fatto François Villeroy de Galhau, il governatore della Banque de France, durante l’Emerging Market Forum di Parigi lo scorso maggio con un discorso su “Multipolarity and the role of the euro in the International Financial System”.
    Il banchiere centrale francese afferma che “non dobbiamo abbandonare come “obiettivo creativo” l’idea di un sistema finanziario internazionale (sfi) multilaterale cooperativo”.
    Egli riconosce che “mentre Bretton Woods scompariva quando è venuta meno la convertibilità del dollaro in oro, il sistema monetario internazionale è rimasto basato sul dollaro Usa. L’idea di una valuta globale non ha prosperato nei dibattiti accademici, e ancor meno nelle discussioni politiche”. Purtroppo!
    Anche se già negli anni ’60 Henry Fowler, il segretario al Tesoro sotto la presidenza di Lyndon Johnson, avvertiva che “fornire riserve e scambi a tutto il mondo è troppo da sopportare per un solo Paese e una valuta”.
    L’idea del cambiamento era stata ripresa nel 2010 da Michel Camdessus, a lungo direttore generale del Fmi, che aveva lanciato un’iniziativa per mettere in luce le mancanze del sistema finanziario internazionale, in particolare la sua governance globale e l’eccessivo affidamento su una singola moneta.
    Il punto sollevato dal governatore francese è chiaro. Occorre prendere atto che un sistema finanziario frammentato rappresenta un grave pericolo. Bisogna evitare di passare da un sistema dominato dal dollaro a un non-sistema conflittuale tra il mondo del dollaro e quello del renminbi cinese. Ciò genererebbe instabilità, con il rischio di svalutazioni valutarie competitive. Potrebbe portare allo sviluppo di sistemi di pagamento separati con un’interoperabilità limitata e indebolire la rete di sicurezza finanziaria globale.
    Egli comunque vede dei progressi verso un paniere di monete, come il recente aumento delle risorse del Fmi in diritti speciali di prelievo, la moneta di conto formata dal dollaro, dall’euro, dal renminbi, dallo yen e dalla sterlina, equivalenti a 650 miliardi di dollari.
    Rileva particolarmente che, per evitare gli errori del passato, avremmo bisogno di uno slancio collettivo verso un sistema finanziario multipolare stabile e orientato al mercato. Farebbe aumentare l’offerta di asset globali sicuri e offrirebbe ai mercati emergenti una maggiore indipendenza dalla politica monetaria americana. Ciò detto, purtroppo, le condizioni politiche per un cambiamento così importante non sono ancora favorevoli. Ma “è un’utopia da mantenere in vita”, ripete Villeroy de Galhau.
    Qui dovrebbe entrare in gioco l’Europa. Per passare a un sistema globale più resiliente, l’euro dovrebbe svolgere un ruolo internazionale più importante. È una valuta che conta su un solido record di stabilità di oltre 20 anni, ci ricorda il governatore francese.
    Sebbene l’euro non sia stato creato per fungere da valuta internazionale, oggi un suo ruolo più forte sarebbe associato a una maggiore autonomia della politica monetaria e a un minore impatto degli choc valutari sull’inflazione. Dopo il dollaro, esso è diventato la seconda moneta più utilizzata a livello globale e rappresenta ben il 20% delle disponibilità valutarie nelle banche centrali e circa il 20% del debito e dei prestiti globali. Secondo i dati SWIFT, quasi il 40% delle transazioni è effettuato in euro.
    Il capo della Banque de France ammette che il mercato del debito sovrano in euro è ancora frammentato e solo pochi Stati dell’Ue emettono attività globali in quantità sufficiente. D’altra parte, una valuta internazionale è forte in rapporto alle attività sicure che può offrire. A questo proposito, egli valuta positivamente il programma Next Generation EU che raccoglierà oltre 800 miliardi di euro attraverso un’emissione congiunta di obbligazioni europee.
    L’obiettivo, ovviamente, non sarà quello di trasformare l’euro in una valuta dominante. Al contrario, egli afferma, “mireremmo a fare affidamento su più valute per offrire stabilità al sistema finanziario internazionale attraverso la diversificazione dei rischi”.

    * già deputato e sottosegretario all’Economia; **economista.

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