Flat tax

  • La rivoluzione fiscale e la contraddizione in termini

    Con buona pace dei movimentisti, la storia insegna come le rivoluzioni, a parte quella francese, nell’epoca moderna non abbiano nessuna possibilità di raggiungere gli obiettivi prefissati ma soprattutto in ambito fiscale talvolta “riescono”ad ottenere addirittura gli effetti opposti.

    L’introduzione della flat tax, o tassa piatta, nasce dall’idea di cambiare, o meglio, rivoluzionare il sistema fiscale italiano indipendentemente da una approfondita valutazione dei possibili effetti generati nell’economia reale, senza dimenticare anche la necessaria copertura finanziaria, rimanendo inalterata la spesa pubblica: quest’ultima  invece rappresenta il vero problema italiano. Un problema soprattutto se la stessa spesa pubblica venisse valutata con il parametro degli effetti, e quindi della “produttività” tanto cara agli economisti degli ultimi vent’anni i quali invece la applicano solo ed esclusivamente alle aziende private.

    Dimenticando come, al di fuori del portone dell’azienda stessa, il contesto nel quale le nostre aziende si trovano ad operare risulta anticompetitivo ed insuperabile nelle diseconomie da qualsiasi aumento della produttività privata.

    Elementi di considerazione basici che hanno tuttavia indotto i sostenitori di questa dottrina fiscale a considerarsi dei rivoluzionari sotto il profilo economico solo per  aver  sposato questa dottrina fiscale. Una cieca convinzione da non comprendere come risulti possibile ottenere l’effetto esattamente opposto e perverso scaturito dalla  individuazione di una soglia di applicazione della flat tax la cui semplice definizione di fatto rappresenta la contraddizione in termini ed annulla l’essenza stessa del concetto “flat”.

    In altre parole la flat tax “all’italiana” rappresenta la contraddizione in termini, espressione di una insufficiente preparazione economico-culturale di chi l’ha definita normativamente. Questa, infatti,  per sua stessa natura, deve risultare espressione di una “unica aliquota” senza limiti di reddito o fatturato  nel caso di reddito da lavoro o da impresa. L’aver, infatti, individuato delle soglie massime al di sopra delle quali  la flat tax non trovi più applicazione dimostra l’inconsistenza economica ma soprattutto l’incapacità di valutarne gli effetti di questo limite: in altre parole dimostra l’assoluta incomprensione del concetto stesso.

    Le rivoluzioni andrebbero organizzate probabilmente in piazza. Viceversa in ambito fiscale la conoscenza delle problematiche del complesso sistema fiscale italiano dovrebbe portare delle persone mediamente preparate ad adottare una politica del medio come del  lungo termine finalizzato ad una reale e costante diminuzione delle aliquote applicate come della loro progressività. Con l’obiettivo principale di  fornire un maggior respiro alla domanda interna attraverso un maggior reddito disponibile per i lavoratori dipendenti autonomi ma anche per le imprese.

    Le prime due categorie in questo modo riuscirebbero a fornire  un rinnovato sostegno alla domanda interna, viceversa le imprese ricomincerebbero ad avviare piani di investimento sempre a medio-lungo termine i quali assicurerebbero se non un immediato aumento dell’occupazione quantomeno uno scenario più positivo, in un mercato globale concorrenziale che sempre più richiede prodotti di qualità ed espressione di una cultura quale risulta la percezione del  Made in Italy.

    Credere che l’applicazione di una flat tax con l’indicazione delle soglie di reddito rappresenta la contraddizione in termini che di fatto si trasforma  in una semplice rimodulazione delle aliquote fiscali applicate a determinate fasce di reddito. In questo contesto risulta decisamente improbabile che chi non risulti in grado di cogliere questa sostanziale differenza in ambito fiscale possa individuare le reali politiche economiche di sviluppo per il nostro paese.

  • Equità fiscale: 3.7 milioni, 23.3 milioni , 150 persone…

    Uno dei concetti più usati per ragione contro la flat tax è relativo al fatto che questa favorisca mediamente i redditi oltre i 30.000 euro e quindi escluda dai benefici di una aliquota piatta quasi l’80% della popolazione italiana. Da anni i fatti continuo ad indicare, per una riduzione del carico fiscale vista come unica soluzione finanziariamente sostenibile, la riduzione delle aliquote e della loro progressività. L’unicità della soluzione nasce dalla sostenibilità finanziaria anche in considerazione del fatto che il nostro Paese continua a dimostrare una crescita del debito pubblico  due volte e mezza superiore rispetto alla crescita del PIL. In tal senso si ricorda anche che in presenza di una riduzione del PIL reale rispetto a quello previsto (2018 anno in corso 1.1% attuale rispetto alle previsioni di 1,4 %) questo determini automaticamente un aumento della pressione fiscale stessa.

    Tornando quindi alla politica fiscale strutturata in una costante lieve riduzione delle aliquote e della loro progressività per ridare un po’ di supporto alla domanda interna, contemporaneamente la leva fiscale dovrebbe venire utilizzata anche come fiscalità di vantaggio al fine di favorire gli investimenti nel nostro Paese. Questa fiscalità offre  la possibilità di raggiungere il doppio obiettivo di favorire il reshoring produttivo di attività una volta delocalizzate in un paese a basso costo di manodopera e, di conseguenza, aumentare l’occupazione di buon livello, sia professionale che retributivo. Quindi come obiettivo correlato si otterrebbe anche un sostegno alla crescita della domanda interna.

    Ovviamente per trovare la propria copertura si dovrebbe avviare un’azione di ottimizzazione della spesa pubblica, la famosa spending review, mentre  l’anno successivo la copertura dovrebbe  arrivare dal maggiore gettito fiscale legato alle nuove attività industriali con forte ricaduta occupazionale presenti sul nostro territorio. Non va infatti dimenticato che in un mercato complesso e globale come quello attuale, l’economia non rappresenta un sistema perfetto nel quale applicare teorie economiche con manieristica ottusità  ma un insieme complesso ed articolato sempre alla ricerca di un proprio equilibrio senza mai trovarlo.

    Partendo da questo oggettiva considerazione è evidente quindi come la fiscalità, o meglio, la politica fiscale attuata dai vari governi possa rappresentare molto più della politica monetaria, uno dei fattori performanti e competitivi che possano favorire una crescita economica successivamente alla quale può anche subentrare la funzione di redistribuzione del reddito con i servizi erogati dallo Stato attraverso il prelievo fiscale.

    La rinuncia ad una quota della fiscalità normale viene in questo modo ripagata dal maggior gettito dell’anno successivo grazie alla maggiore occupazione creata con gli investimenti allettati appunto dalla fiscalità di vantaggio ma anche grazie al benessere diffuso che, di conseguenza, si riverbera attraverso la crescita dei consumi e il maggiore gettito dell’ IVA e delle altre accise sui consumi.

    In questo senso si ricorda che l’Italia rispetto alla crisi del 2010 risulti ancora al di sotto di oltre il 2% come livello di consumi, il che dimostra come  le politiche fiscali degli ultimi anni non abbiano ottenuto neppure un effetto redistributivo del reddito ma solo quello di coprire assieme al debito l’esplosione della spesa pubblica improduttiva.

    E’ perciò evidente come il livello dei consumi rappresenti un indicatore inequivocabile del benessere diffuso che la politica economica e quindi anche quella fiscale abbiano determinato negli ultimi anni. In questo senso allora può risultare interessare constatare come l’indice dei consumi risulti inferiore a quello dell’inflazione dello 0,3%. In questo contesto disastroso va ricordato invece come il  governo Gentiloni abbia inserito la flat tax al 26%  per le rendite finanziarie che favorisce le rendite oltre i 750.000 euro, in più con una possibilità esclusa per le imprese di compensare anche le minusvalenze.

    Ancora più insultante è l’intervento del governo Renzi che ha inserito la cedolare fissa di 100.000 euro per tutti i percettori di reddito superiore al milione che intendessero scegliere l’Italia come propria residenza fiscale. Solo per dare un esempio: una persona con un reddito di  un milione di euro verserà al fisco italiano centomila euro applicando una aliquota del 10%, mentre se il reddito risultasse di dieci milioni l’aliquota applicata risulterebbe essere del’l,1%.

    Una fiscalità di vantaggio per le singole persone dai redditi milionari non avrà e non può avere nessun tipo di ricaduta per la collettività e per i contribuenti cittadini italiani, se non forse l’aumento del valore degli immobili di prestigio. Si ricorda invece come la tassazione sul lavoro sia del 48%!

    In considerazione quindi allo stato attuale di questo sistema fiscale, assolutamente sbilanciato, la prima riforma fiscale che un governo di persone oneste e competenti dovrebbe varare dovrebbe venire individuata nella soppressione di questa volgare ed iniqua cedolare secca per i redditi multimilionari che rende l’Italia un paese indegno e non certo europeo. Anche perché a tal proposito si ricorda che la fiscalità di vantaggio dei paesi dell’Unione Europea riguarda la volontà di essere maggiormente attrattivi per gli investimenti e le imprese estere che generano occupazione e non certo dei singoli percettori di alto reddito come in Italia. Si continua infatti a parlare a sproposito di investimenti in infrastrutture la cui ricaduta risulta positiva nel medio lungo termine (come fattore competitivo per le imprese), mentre la politica fiscale ha degli effetti immediati sul reddito disponibile dei cittadini e dei contribuenti e rappresenta l’unico modo per ridare un po’ di fiducia che troverebbe sicuramente una manifestazione anche attraverso un aumento dei consumi. Oltre ovviamente a riportare un senso di equità fiscale che attualmente è completamente dimenticato tanto dai sostenitori della flat tax e dell’uscita dall’euro quanto dei loro predecessori. Atteggiamenti entrambi figli di una incompetenza e disonestà intellettuale ormai senza orrore di se stessa.

    P.S. Nel caso qualcuno si chiedesse il significato dei numeri del titolo: persone ed aziende sottoposte al regime fiscale con aliquota media del 48% 3.7 milioni di imprese; 23.2 milioni di occupati; numero di persone che ottengono il regime fiscale forfettario con cedolare fissa a 100.000 euro per reddito oltre 1 milione: 150 …

     

  • La continuità fiscale

    Una recente rilevazione statistica ha stabilito come dal 1996 al 2016 le entrate fiscali risultino aumentate del 80% mentre l’indice dei prezzi attorno al 41%. Una progressione della pressione fiscale che coinvolge nella sua responsabilità tutti i governi degli ultimi vent’anni e che ha portato il Total tax rate al 62% attuale. Già con questi numeri è evidente come la pressione fiscale sia assolutamente divenuta il problema centrale della mancanza di sviluppo del nostro paese unita ad  una pubblica amministrazione che non fornisce servizi per i quali la tassazione viene imposta. A questi numeri a dir poco sconvolgenti si aggiungono anche delle considerazioni e relative alla gestione delle politiche fiscali degli ultimi cinque anni.

    Gli 80 euro del governo Renzi  altro non sono se non un rimborso fiscale “venduto” ai cittadini come un bonus (si pensi alla differenza rispetto ai bonus aziendali elargiti per premiare la produttività come i risultati delle aziende). L’origine infantile di tale iniziativa era quella di ricreare un nuovo sostegno economico alla domanda interna. Viceversa non si è ottenuto tale obiettivo e per di più ha introdotto anche un risvolto drammatico, nella malaugurata ipotesi infatti che si esca dalla soglia minima degli 8.000 euro stabilita per ottenere appunto questi fantastici 80 (una situazione legata per esempio alla perdita del posto di lavoro per un fallimento o per la chiusura dell’azienda presso la quale si lavora). Passando così di fatto alla soglia inferiore la normativa varata dal governo Renzi stabilisce addirittura l’obbligo di rimborsare questi 80 euro  percepiti ma non secondo i parametri fiscali minimi indicati.

    In più il governo Gentiloni in questo regime fiscale già insopportabile, che per un’attività commerciale con  un fatturato di 50.000 ne chiede oltre 34 mila di tasse ed anticipi relativi all’anno successivo, ha introdotto anche la flat tax per le rendite finanziarie. La scelta dell’aliquota si è rivelata del 26% e favorisce ovviamente i redditi oltre i 700.000 euro penalizzando ancora una volta i piccoli risparmiatori ed investitori che continuano ad essere considerati “il parco buoi”.

    Non soddisfatto, successivamente lo stesso governo inserisce una sorta di cedolare secca di 100.000 per qualunque titolare di redditi milionari che intenda trasferire la propria residenza fiscale in Italia. L’effetto quindi per una persona che dall’estero sposti la propria residenza fiscale in Italia e dichiarasse un reddito di un milione per effetto di questa nuova normativa fiscale pagherebbe appunto 100.000 euro, quindi un’aliquota pari al 10%.

    Ancor meglio andrebbe se il nuovo “residente fiscale” potesse contare su di un reddito di 5 milioni che abbasserebbe l’aliquota al 5% ma risulterebbe miracolosamente dell’1% per i detentori di redditi di e oltre 10 milioni. Mentre gli altri Stati utilizzano le diverse politiche di incentivazione fiscale per attrarre investimenti industriali, il governo Gentiloni usa la flat tax per offrire una dimora fiscalmente attrattiva per i singoli detentori di redditi milionari: ulteriore idea della politica economica di sviluppo dei governi Renzi e Gentiloni.

    L’effetto di tali decisioni, innanzitutto politiche oltre che economiche, dimostra quale possa essere  la considerazione per i piccoli risparmiatori nel primo caso e nel confronto con le aliquote applicate al reddito per i “nuovi residenti”, nel secondo il valore delle stesse diventa offensivo.

    Viceversa la proposta della flat tax, che viene inserita in un quadro di “rinnovamento” definito addirittura “rivoluzionario” per le ricadute economiche per il ceto medio, dimostra finalmente i primi numeri. Considerando che il reddito medio delle famiglie è di 20.680 euro alcuni dati possono venire in aiuto al fine di comprendere la ricaduta effettiva di tale “rivoluzione”. Da zero a 15.000 euro di imponibile si registra una percentuale del 44,9% della popolazione, mentre dai 15.000 ai 29.000 euro di imponibile un altro 35,6%, sempre dei cittadini italiani. La somma di queste due fasce di contribuenti che vanno da un reddito da 1  a 29.000 euro racchiude l’80,5% dei cittadini.

    Viceversa i titolari di “reddito dichiarato” da 29.000 a 55.000 euro rappresentano il 15,2% dei contribuenti, che diventano il 2,1% per i percettori di reddito nella fascia da 55.000 a 75.000 euro, mentre per chi dichiara un reddito ancora superiore rimane la quota residuale del 2,2%.

    Da questi dati emerge come circa l’80,5% dei contribuenti versi il proprio contributo per finanziare i servizi dello Stato attraverso l’applicazione di aliquote che vanno dal 23 al 27%. In questo caso allora l’introduzione della Flat Tax (unica al 25% proposta dall’Istituto Leoni o doppia per il Governo, quindi attorno al 15% per le fasce reddituali più basse) porterebbe un vantaggio in termini economici piuttosto risibili in quanto il differenziale di aliquote risulta minimo (dal 23-27% attuali al 15% proposto) e per di più va calcolato per imponibili relativamente bassi (al massimo fino a 29.000 euro). Viceversa, nel caso non si scegliesse la versione dell’Istituto Bruno Leoni, la seconda aliquota del 25% come aliquota unica (anche per l’IVA da non dimenticare) per i redditi superiori ai 29.000 euro che ora “contribuiscono” attraverso l’applicazione di  aliquote che vanno dal 38% al 41,5 fino al 43% a seconda delle diverse fasce reddituali ma venisse adottata una aliquota fissa anche del 28-30% (quindi superiore a quelle proposte nei programmi elettorali) comporterebbe un differenziale sul calcolo delle imposte da versare molto alto.

    In quanto la differenza tra l’aliquota Flat (28-30 già di per sé bassa ma che risulterebbe assolutamente indegna se si scegliesse la versione del 23%) e quelle odiernamente applicate risulta sicuramente superiore rispetto alle altre fasce di reddito (80,5%) e per di più tale differenziale andrebbe calcolato su importi di imponibili molto alti.

    La considerazione conclusiva che ne scaturisce dal semplice confronto di tali cifre è molto semplice. Come negli ultimi vent’anni ed ancor più degli ultimi cinque, ora anche in previsione dell’applicazione della Flat tax, si rileva una “CONTINUITA’ FISCALE” volta a penalizzare continuamente il ceto medio, quello che per altro ha maggiormente  pagato la crisi che si protrae da oltre un decennio in più, aggravata dal continuo aumento della pressione fiscale. Questa CONTINUITA’ FISCALE, qualora venisse esplicitamente dichiarata e giustificata con argomentazioni politiche ed economiche potrebbe persino assumere i connotati di una strategia economico-fiscale  legittima da parte di un ceto politico ed economico che perlomeno si  assumerebbero le proprie responsabilità. Nel caso odierno invece si predica esattamente il contrario di quanto poi i numeri evidenziano.

    Un ultimo aspetto, non per questo meno importante, emerge dal fatto che tutte queste “rivoluzioni fiscali”, al di là degli effetti descritti precedentemente, uniscono un ulteriore aggravio per i contribuenti italiani in quanto le coperture risultano calcolate a debito o attraverso ipotetici condoni fiscali. Quindi oltre al danno anche la beffa di vedere aumentato il debito pubblico per delle riforme che vanno contro la maggioranza dei contribuenti. La disonestà intellettuale si manifesta attraverso la distonia tra le dichiarazioni e gli effetti reali delle scelte di questa classe politica ed economica degli ultimi vent’anni. In questo poi confermata anche da quella nuova classe governativa dei “riformatori rivoluzionari” dell’ultimo periodo: tutti insieme dipingono il quadro del nostro declino culturale del quale quello economico ne rappresenta solo una triste espressione.

  • Flat tax e l’ipocrisia del sistema fiscale italiano

    La dialettica relativa alla riforma fiscale che verrebbe introdotta attraverso la Flat Tax divide nettamente la platea tra sostenitori e detrattori della stessa. I sostenitori della Flat Tax, ed in particolare gli esponenti dei principali partiti politici che la supportano, non danno molto peso (e questo è un errore) alla sostenibilità economica di questa riforma individuando in un nebuloso condono fiscale la possibilità di coprire le minori risorse economiche per lo stato. Perché, va ricordato, le motivazioni principali per l’introduzione della Flat Tax vanno individuate nella minor pressione fiscale quindi nella liberazione di risorse economiche per i contribuenti e contemporaneamente nella semplificazione del rapporto tra fisco e contribuente.

    Ai sostenitori della flat tax si aggiungono anche autorevoli esponenti del mondo economico i quali,  rispondendo alle critiche relative ad una ipotetica mancata osservanza del principio costituzionale della progressività delle aliquote, affermano che questo principio viene confermato dalle deduzioni fiscali progressivamente inferiori al crescere del reddito.

    Partendo quindi dalla considerazione che risulta impossibile mantenere l’attuale pressione fiscale approdata  ad un Total Tax Rate del 62%, sarebbe opportuno ricondurre all’interno delle riforme economicamente sostenibili e compatibili con l’attuale situazione economico finanziaria italiana. La Flat Tax infatti dovrebbe rappresentare l’ultimo anello di una fantastica operazione economica e politica con l’obiettivo principale di rivedere completamente l’articolazione molto complessa della spesa pubblica e il completamento della quale (quindi in un arco temporale piuttosto incerto che comunque richiederebbe perlomeno due o tre anni) potrebbe portare all’introduzione appunto di un’aliquota fiscale fissa.

    Purtroppo, e ribadisco purtroppo, la storia insegna come la riforma dell’articolato della spesa pubblica con le competenze in campo della pubblica amministrazione risulti in questo momento assolutamente non riformabile, quindi anche la Flat Tax rientra nel campo dei desideri come dei sogni. In questo senso infatti risulterebbe molto più sostenibile e in prospettiva producente, ma soprattutto realizzabile nel breve e nel medio termine, ridurre le singole aliquote fiscali per fasce di reddito e contemporaneamente ridurne la progressività in modo da allentare la pressione complessiva. La copertura di tale diminuzione della pressione e di conseguenza di risorse finanziarie disponibili per lo stato potrebbe venire coperta progressivamente dall’applicazione di una Spending Review seria e totale e dall’utilizzo delle risorse sottratte all’evasione fiscale.

    Tuttavia, tornando agli schieramenti in campo, risulta singolare come gli esponenti dell’attuale governo e dei ministri competenti in materia, come del partito che li sostiene, continuino a pronunciarsi contrari ad una Flat Tax (ed indirettamente ad ogni riforma fiscale) quando una medesima “tassa piatta” sia stata introdotta per le rendite finanziarie con una aliquota unica del 26% che tende a favorire le rendite superiori ai 750.000 euro.

    Dimostrando ancora una volta come  vengano tenuti in maggior considerazione i grandi patrimoni rispetto ai piccoli risparmiatori mediando quindi l’approccio classico che tutti i governi degli ultimi anni hanno avuto  nei confronti delle attenzioni per le grandi industrie rispetto alle PMI.

    Tuttavia d’ipocrisia governativa non finisce qui. Va ricordato infatti come nel marzo 2017 la compagine governativa guidata da Gentiloni abbia avuto persino il coraggio di varare una legge in base alla quale tutte le persone con redditi superiori ad un milione possano prendere la residenza fiscale in Italia pagando una quota fissa al fisco di 100.000 euro. Quindi, per una persona che presenti un reddito di un milione, purché venga dall’estero e non sia italiano (paradosso nel paradosso), l’aliquota applicata risulterà del 10%. Viceversa, nel caso questa percepisca un reddito di oltre 5 milioni l’aliquota applicata diventerebbe del 5% mentre per i multimilionari da 10 milioni di euro l’aliquota applicata sarebbe del 1%: massima espressione di una volontà di insultare tutti i redditi da lavoro e professionali. Al confronto le tabelle delle aliquote fiscali che i vari cantoni della Confederazione Elvetica offrono alle persone dotate di alti redditi e che hanno convinto molti a trasferire la propria residenza fiscale sembrano vessatorie. Infatti per i redditi di oltre un milione di franchi svizzeri l’aliquota applicata va nel Cantone di Zug da 9,59 ad un 9,78%. Risulta evidente quindi come il nostro sistema fiscale rappresenti la fotografia di un insensato e contraddittorio approccio frutto di estemporanee professionalità che si sono ritrovate a gestire situazioni complesse con competenze non adeguate. La progressività fiscale non rappresenta un parametro che possa essere utilizzato a seconda dei propri interessi economici e politici, come questo governo ampiamente ha dimostrato applicandola o negandola a seconda della propria vicinanza ai beneficiari. La Flat Tax viceversa può rappresentare un termine concettuale di riferimento per avviare una reale riforma fiscale dalla quale vengano escluse le ridicole scelte degli ultimi anni espressione di incompetenze e probabilmente disonestà intellettuali.

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